Nel ricostruire un’identità
credibile della musica folk americana attraverso i Basement Tapes di Bob Dylan,
Greil Marcus traccia anche un ritratto avvincente di una nazione, quella repubblica
invisibile che soltanto le canzoni, i
songwriter e gli storyteller sanno raccontare. O come meglio spiega lo stesso
Greil Marcus all’inizio di La repubblica invisibile: “un’America aperta alla domanda di chi e che cosa
gli americani sarebbero potuti diventare e non da chi e che cosa provenivano. I
meccanismi del tempo, nella musica, non sono consolanti. In quella cantina il
passato è vivo nella misura in cui il futuro è aperto, e ciò accade solo quando
si è portati a credere che il paese sia incompleto o addirittura ancora da fare:
quando il futuro è precluso, il passato è morto. Ancora più misterioso è il
modo in cui il futuro dipende dal passato”. Non è soltanto l'ambito di un disco
fondamentale per il rock'n'roll, The Basement Tapes, quello che scandaglia Greil Marcus, ma tutto il
background culturale ed umano che gli sta dietro, davanti, sopra e sotto. E’
l’America stessa, o quello che scorre nelle sue vene, per dirla con William
Carlos Williams, la protagonista in La repubblica invisibile, un mondo che solo Bob Dylan poteva portare alla
luce con The Basement Tapes e che
forse soltanto Greil Marcus poteva cogliere così bene. In uno degli anni più
caotici che la recente storia dell'umanità ricordi, il 1967, Bob Dylan e cioè
il cantante, il profeta, il simbolo di un’intera generazione, e poi di molte
altre negli anni a venire, la voce della protesta, il poeta per eccellenza e
così via, si ritira tra i boschi di Woodstock e con gli Hawks (che poi
diventeranno la Band) passa le giornate a suonare in cantina. Atmosfera
surreale, felliniana, caotica e scelta in gran parte incomprensibile, ma con
una sua logica, come scrive Greil Marcus nell’epilogo di La
repubblica invisibile: “Quando Dylan,
Robbie Robertson, Garth Hudson, Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm
sparirono dalla faccia del pianeta pop, divenne ancora una volta chiaro come, a
volte, è solo la maschera della distanza, dello scomparire, che ti consente di
parlare, che di dà la libertà di dire ciò che pensi senza dover immediatamente
mettere in gioco la tua vita a ogni tua parola”. In quel luogo e in quello
spazio temporale, Bob Dylan e la Band suonarono ogni sorta di canzone: l’enorme
bagaglio della musica popolare americana venne rivisitato in un sorta di
caotico laboratorio, con Bob Dylan in versione di catalizzatore. Attraverso i Basement
Tapes, Greil Marcus ha tracciato una mappa
di quella repubblica invisibile che è l’America cantata. Un lavoro che offre
uno spettro minuzioso, quasi ossessivo, ad un campo di indagine di proporzioni
immani: tutte le radici della musica popolare americana, i suoi caratteri, le
sue storie, i suoi personaggi vengono ricostruiti sotto la lente di
ingrandimento di Greil Marcus che riesce nello scopo di rendere avvincente un
frammento di storia limitato nel tempo (cioè i Basement Tapes) ma esteso all’infinito (o quasi) nella memoria.
domenica 30 dicembre 2012
sabato 29 dicembre 2012
Jack Kerouac
Jack
Kerouac è un nome che, dal punto di vista letterario, rimanda sempre a lunghe,
infinite e ipersensibili frasi, buttate giù ispirandosi agli ormai famosi
fraseggi di Charlie Parker o Sonny Rollins. L’immagine, nota per i suoi
romanzi, è quella prosaica di uno scrittore che non riesce a staccarsi dalla
pagina e dalle sue parole. Visione ormai un po’ consunta di Jack Kerouac che
non era solo un documentarista esistenziale e autobiografo, ma un autore
completo, capace di destreggiarsi attraverso prosa e poesia e, soprattutto,
all’interno di un bagaglio culturale onnivoro e apparentemente confusionario,
ma cosmopolita e magnetico. Aiuta a vederlo in questa prospettiva Il libro
dei blues, raccolta di
poesia in forma di appunti (o viceversa): non tutto il materiale è inedito
perché parecchie delle liriche derivano da pubblicazioni datate e dai reading
che si possono ascoltare, dal vivo, attraverso The Beat Generation (un bellissimo cofanetto discografico
che raccoglie il meglio della produzione beat e dintorni: oltre a Kerouac, tra
gli altri ci sono Allen Ginsberg, Lenny Bruce e Tom Waits), ma tutte le poesie
valgono per il lavoro che Jack Kerouac ha compiuto sulla forma e sul
linguaggio, diametralmente opposto rispetto a quello utilizzato per i lavori in
prosa. Le liriche raccolte in Il libro dei blues mostrano un Jack Kerouac convinto,
contento, spumeggiante e out of control, a suo agio nella dimensione poetica e
musicale che si adatta su misura alle sue visioni non meno che al suo istinto.
Si tratta di blues nell’accezione più generica del termine perché in realtà Il
libro dei blues è
composto da haiku, frammenti di sogni e di immagini raccolte dall’osservazione
e dalla sensibilità di Jack Kerouac, come spiega lui stesso nella scarna e
illuminante introduzione: “Nel mio sistema, la forma del chorus del blues è
limitata dalla misura delle pagine del notes da taschino su cui li ho scritti,
perciò a volte il senso delle parole può, o no, proseguire da un chorus
all'altro, proprio come il senso della frase musicale nel jazz può, o no,
estendersi armonicamente da un chorus all'altro”. E allora Jack Kerouac si deve
limitare a lasciarsi impressionare da quello che vede e sente, prendendo
appunti su appunti e limando, tagliando, cucendo sfodera versi a tratti
deliranti, a tratti geniali, sempre e comunque ispirati ad una vita senza
vincoli e con un briciolo di pazzia in più a renderla saporita. Sono parecchi i
gioielli sparsi, ma ce n’è uno che vale la pena di riportare per intero, un po’
per esempio e un po’ per rendere onore al suo autore. Si tratta del 40°
Chorus di San Francisco Blues:
“E quando la testa mi comincia a girare, e ridono tutti gli amici, e il denaro
mi casca dalla tasca, e oro dalle mie orecchie, e argento esce volando e
esplodono rubini, salto su & mangio, e canto un’altra canzone, e caccerò
altro vino nella pancia, perché sapete, che ha detto Omar Khayyam, è meglio
stare allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo tutta la
notte, cercando un senso, che non esiste”.
venerdì 28 dicembre 2012
Francis Scott Fitzgerald
Dopo aver vissuto per anni, tutta l’età del
jazz, ben al di là delle proprie possibilità economiche creative ed emotive,
Francis Scott Fitzgerald si trova a fronteggiare la battaglia finale con conti
lasciati in sospeso per troppo tempo. La bolla alimentata con una vena di
romantico abbandono si espande e si gonfia increspando la superficie, una
scintillante evanescenza destinata a esplodere come ogni bolla che si rispetti.
Francis Scott Fitzgerald mette un’ipoteca pesante sulla speranza di una seconda
chance, e all’alba del 1936, le sue condizioni sono così descritte da Kyra
Stromberg in Zelda e Francis Scott Fitzgerald: “Non ancora
trentanovenne, è un uomo stanco, malato, sfinito. Scrivere racconti diventa una
costrizione insopportabile. Si impone di lavorare, aiutato dalla sua mano
felice. Gli argomenti dei suoi testi divengono artificiosi o casuali,
addirittura anacronistici, la scrittura è affrettata. Per la prima volta gli
vengono riproverate imprecisioni stilistiche, anche se Dorothy Parker gli riconosce
che potrebbe anche scrivere cose brutte, ma queste non sarebbero mai scritte
male”. Tutto quello che riesce a mettere insieme, con somma fatica, è la
descrizione del suo fallimento. Non ha altri colpi da sparare e allora rende
spettacolare e infinito, come un attore senza battute che non sa lasciare il
palco, spiegando con Il crollo la forma dell’estremo limite umano, il confine
finale visto che “l’impatto dell’ultimo colpo è stato più violento dei due
precedenti, ma di natura identica: la sensazion di trovarsi al crepusclo in un
poligono di tiro deserto, con un fucile scarico in pugno e i bersagli
abbattuti. Nessun problema in vista: semplicemente un silenzio, e come unico
rumore il mio respiro”. La micidiale convergenza di malattia, disillusione (“La
condizione dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta”),
stanchezza e solitudine lo porta a paragonarsi a una stoviglia inutilizzabile,
dato che “quello che aveva davanti non era il piatto ordinato per i suoi
quarant’anni. In realtà, dato che lui e il piatto erano una cosa sola, si è
descritto come un piatto crepato, di quelli che non sai se valga o no la pena
conservare”. Il crollo non fa che certificare l’impossibilità di una via d’uscita:
“attenzione, fragile” è la dicitura che, nel marzo 1936, inaugura la parte
finale ed è un grido accorato, sentito, scomodo, lancinante, vero, e ossessivo.
E’ la confessione di un fallimento a più strati che scalfisce anche la natura
più intima dello scrittore che “non ha bisogno di certi ideali, a meno di non
crearseli da solo, e il qui presente ha smesso”. Anche se sta lavorando a Gli
ultimi fuochi,
uscito ormai postumo, Il crollo sarà il suo epitaffio, accolto con
costernazione anche dagli amici più vicini come Hemingway e John Dos Passos.
Zelda, la Costa Azzurra, le canzoni di Cole Porter sono lontani ricordi ormai
offuscati da “troppe lacrime, troppa rabbia” e per dirlo con Walt Whitman,
Francis Scott Fitzgerald si trova in un angolo dove “il luogo è augusto, le
circostanze avverse”.
martedì 25 dicembre 2012
Chuck Klosterman
Cosa può fare un ragazzo del North Dakota, dove
la massima eccitazione quotidiana è la discussione sulla potenza del motore dei
trattori, e l’inverno occupa tre delle quattro stagioni che dovrebbero
susseguirsi nell’anno? Se poi è uscito di casa per la prima volta nel bel mezzo
della guerra fredda cosa gli rimane? “Poteva succedere di tutto, e forse prima
o poi sarebbe successo, ma non sarebbe cambiato nulla. Nessuno sembrava
preoccuparsi troppo per il gran numero di testate nucleari che i sovietici ci
puntavano addosso: per quanto ne sapevo io, eravamo sull’orlo della guerra
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma questo faceva
parte dell’essere americani” ammette con un certo candore Chuck Klosterman
nelle prime pagine di Fargo Rock City ed è chiaro che quando gli capita in mano un
nastro con Huey Lewis da una parte e un colata incandescente di heavy metal
dall’altra non c’è partita. Come capita sempre, come è capitato a tutti
(conosciamo molto bene quella sensazione) all’improvviso Chuck Klosterman,
comincia a sentirsi meno solo e meno alieno. Sa che le immagini dell’heavy
metal e del rock’n’roll sono costruite dettaglio per dettaglio ma, per sua
ammissione, è “troppo stupido per essere influenzato dalla follia del
marketing” e si concede, così come concede a tutti noi, il beneficio di aver
trovato qualcosa nella musica (e non solo nell’heavy metal) che “non aveva
niente a che fare con le cose di cui si parlava, il suo significato era quello
che tutti potevano dargli”. Fin qui, le fondamenta di Fargo Rock City sono solidissime e
concrete soprattutto perché la traballante apologia dell’heavy metal più
posticcio e banale, dei luoghi comuni più elementari e consunti e dell’idea che
anche entità come Mötley Crüe o Guns N’ Roses possano assumere valenze che
forse nemmeno i loro componenti riconoscerebbero, risulta immediata e
simpatica. Quello che succede addentrandosi in Fargo Rock City è che Chuck Klosterman
riempie il serbatoio fino all’orlo di heavy metal, poi parte per la tangente
frullando senza tante esitazioni i suoi excursus autobiografici con le vicende
dei Van Halen o degli AC/DC, con le logiche (piuttosto meccaniche)
dell’industria discografica, con i riflessi sociologici dell’alienazione nella
provincia americana e spruzzando tutta la miscela con un sarcasmo effervescente
e senza inibizioni. Il colorito ibrido che alla fine si cela dentro Fargo
Rock City
si regge sulle gambe come il frontman di un gruppo heavy metal alla fine di un
tour worldwide. Non cade, però Chuck Klosterman sente la necessità di precisare
le sue intenzioni, neanche stesse firmano una resa: “Vi starete chiedendo
perché adesso stia parlando di tutto questo, e la risposta è che lo ritengo un
esempio perfetto per mostrare quanto sia importante la percezione delle cose,
che poi è il punto di partenza da cui costruiamo il contesto delle nostre
vite”. Lo stile va su e e giù a birra e tequila (e ci sta), ma Fargo Rock
City è
molto più saggio (e rock’n’roll) di quel che appare.
venerdì 21 dicembre 2012
John Updike
Con
uno sguardo a volo d’uccello, come se sfiorasse appena le storie
che racconta, John Updike mette insieme una ventina di bozzetti di
vita americana, lontano dai clamori metropolitani e televisivi, che
mostrano un’umanità ben diversa da quella a cui ci hanno abituato
le cronache quotidiane. Forse, se l’elegante scrittura di John
Updike non inganna, persino migliore. Tutte concentrate nell’ambito
famigliare (per quanto divorzi o separazioni tendano a ridurre gli
spazi) le esistenze dei personaggi di Fratello
Cicala sembrano
leggermente spostate rispetto all’asse dei miti e dei luoghi comuni
dell’America di oggi. C’è un calore umano, una ricerca del
focolare casalingo (i racconti sono curiosamente popolati di camini
in cui arde legna odorosa), un costante tentativo di riallacciare i
rapporti con il passato, con un passato che sembra nascondere ancora
soluzioni e alternative, forse anche perché “nessuno ci appartiene
tranne che nel ricordo”. Il presente è relativo: i grandi drammi
della nostra epoca, la complessiva e generale perdita di identità
data dall’assuefazione al mezzo televisivo (e alla tecnologia in
genere) restano sullo sfondo, vengono messi in sordina. Una scena
particolarmente efficace descrive questa situazione in L’uomo
che era diventato soprano,
quando i membri dell’improvvisata orchestra di flauti dolci che è
al centro dell’attenzione si ritrovano a suonare “anche se le
notizie del giorno avevano annunciato qualche sciagura (un massacro a
Beirut, l’esplosione del Challenger)” e persino “durante la
settima partita dei Red Sox per le World Series, il cui andamento gli
uomini avevano controllato ogni tanto sul televisore che
chiacchierava con se stesso in cucina”. La scrittura di John Updike
è questa: piccoli dettagli incastonati in storie semplici, legate
indissolubilmente al quotidiano, sottili segnali che raccontano
tutto. Un modo di interpretare la letteratura fuori dalle righe:
affiora soltanto una fugace citazione da Henry James, ma il vero
centro dell’attenzione, nelle short stories di Fratello
Cicala,
sono loro, i vari Billings, Maple, Jessup, Whittier, Weiss, Eggleston
chiamati per cognome, come a sottolineare l’appartenenza ad una
famiglia, o almeno a un’unità, i veri, assoluti protagonisti.
Uomini e donne che hanno più da ricordare che da inventare, e che si
ritrovano a combattere il dolore, a conoscere la morte e a guadare i
travagli della vita cercando soluzioni con l'unico strumento che
all’umanità è concesso in più rispetto al resto del mondo. E’
la parola, cerca di convincerci John Updike, la sola possibilità di
redenzione, o di peccato, volendo, e non è difficile lasciarsi
coinvolgere e dargli ragione, leggendo i racconti di Fratello
Cicala.
E non è tutto, perché in alcuni punti (a partire da Viaggio
nel regno dei morti)
il lirismo di John Updike raggiunge vertici in cui l’unica chance
di comprensione è offerta dal territorio delle emozioni, una zona
che viene sensibilmente messa alla prova da queste illuminate short
stories.
Jim Harrison
Questa
trilogia di racconti di Jim Harrison che risale al 1994 comincia con un altro
personaggio femminile che sembra nascere sulla scia di Dalva, quella Julip che offre anche il titolo alla raccolta.
Bella, caparbia, pronta a tutto e con una missione impossibile: far uscire
dalla galera il fratello che ha sparato ai suoi tre amanti. Deve essere un tipo
impulsivo, “ma essendo un sentimentale lui aveva sempre cercato di arrivare al
cuore di qualcosa che in genere un cuore non l’aveva”. Evidentemente, per guadagnarsi
il titolo su una copertina di Jim Harrison serve questo e altro. Lo stesso
discorso vale per il ritrovato Brown Dog (già protagonista dell’omonimo
racconto in Società Tramonti)
e per Philip Caulkins, l’anglista in disgrazia di Beige Dolorosa: un trio di caratteri sull’orlo di una
crisi di nervi che si addice alla perfezione al gusto di Jim Harrison. Anche
nel formato short stories, lo distingue l’usuale, notevole maestria nel
raccontare e nell’interpretare la vita come se fosse vera, con un grande amore
per i dettagli e per argomenti poco politically correct (anzi, pochissimo: il
sesso, la caccia, il bere e il fumare, una cucina che non è proprio
macrobiotica, l’individualismo disposto a tutto), un tono sempre ad un passo
dall’ironia ma profondamente realistico e avvolgente. Jim Harrison si conferma
un narratore di gran classe e se i tre racconti di Julip fanno evidentemente più sfoggio del suo
mestiere che dell’ispirazione, nulla toglie alla qualità. Come già in passato,
i racconti sembrano essere soltanto un tradizionale intermezzo, una valvola di
sfogo e probabilmente un esercizio di stile tra un romanzo e l’altro e chi ha
letto Dalva, Un buon giorno per morire o Ritorno alla terra sa che si può attendere con pazienza che
Jim Harrison finisca le sue pratiche e ci serva un’altra storia piena di
strambe ricette, grandi spazi (“Ho la sensazione che non sia previsto che
accadano cose di continuo, alla gente. Io, almeno, non sono portato per questo.
Dovrebbero esserci più spazi aperti, fra un evento e l’altro. Ecco, è il mio
pensiero ben chiaro per oggi” dice Brown Dog) e outsider che vivono in capanne
nei boschi soltanto perché la pioggia sulla lamiera è il rumore più bello del
mondo. Anche perché quella solitudine è uno strumento essenziale per non affogare
nei problemi quotidiani che dipendono in gran parte dalle incomprensioni e
dalle difficoltà di trovare un riscontro nei legami e nelle relazioni. Per
Brown Dog è “come diceva sempre il nonno, non era nella natura della gente
capirsi. Solo arrivare al lavoro in tempo, quella era la cosa essenziale”, e il
più delle volte non basta. L’ingrediente comune a tutti e tre i racconti di Julip, per non dire all’intera narrativa di
Jim Harrison, è l’urgenza della wilderness come modo per riallacciare i
rapporti con se stessi e un’idea di spazio e di tempo. Non è soltanto un
sfondo, con cui Jim Harrison ha un feeling particolare, è l’orizzonte che si
apre ogni volta che muore un sogno. Molto americano, molto umano.
mercoledì 19 dicembre 2012
Alex Ross
Affacciato sul Danubio,
Francesco Giuseppe I d’Austria, l’imperatore austroungarico si chiedeva: “La
musica è una faccenda così seria? Ho sempre pensato che il suo scopo fosse di
rallegrare la gente”. Il resto è rumore è il tentativo più avvincente e documentato
di rispondere all’eco lontano di quella domanda, che risale a più di un secolo
fa. I primi passi che fa Alex Ross, che per Il resto è rumore sembra liberarsi delle
convenzioni di critico e di musicista per avvicinarsi a un saggio elaborato
come un romanzo, è orchestrare una rete di connessioni. Collega le atmosfere
fin de siècle del diciannovesimo e ventesimo secolo come come se in mezzo ci
fosse stato un lunghissimo crepuscolo, dal punto di vista etico ed estetico.
Aggancia Europa e America, le differenze
e i canali aperti attraverso e per la musica, lasciando a Jean Cocteau il
compito di raccontare l’assorbimento di una cultura pseudoamericana: “Il Titanic, Nearer My God To
Thee,
ascensori, le sirene del Boulogne, cavi sottomarini, cavi acqua-terra, Brest,
catrame, vernice, impianti del piroscafo, il New York Herald, dinamo, aeroplani,
corto circuiti, cinema maestosi, la figlia dello sceriffo, Walt Whitman, il
silenzio dei rodei, cowboy con gambali di cuoio o di pelle di capra, la
telegrafista di Los Angeles che alla fine sposa il detective”. Del resto, Alex
Ross accosta Bertolt Brecht a Louis Armstrong e a Bob Dylan e gli intrecci
risultano immediati, persino naturali perché arrivati a quel punto il lettore è
immerso in una salamoia musicale in cui certi cambi di accordo o di ritmo
valgono più di mille epiche battaglie, anche perché “la musica potrà non essere
inviolabile, ma è infinitamente cangiante, poiché acquista una nuova identità
nella mente di ciascuno nuovo ascoltatore. E’ sempre nel mondo, mai colpevole o
innocente, soggetta al paesaggio umano eternamente mutevole entro cui si
muove”. Questo è il vero tema che si ripropone e attraversa Il resto è
rumore
fino al suo epilogo: la ricostruzione della storia della musica, in particolare
quella del secolo breve, cercando di collocarla in una dimensione reale. Senza
dubbio è vero, come scrive Alex Ross che “il suono è una vibrazione che
attraversa l’aria, e riguarda il corpo come la mente” e che le “emozioni
primitive” esplodono in libertà, ma proprio per questo diventa essenziale
comprendere le vite e i tempi di Richard Strauss, Gustav Mahler, Pierre Boulez,
Béla Bartók, Arnold Shoenberg, Kurt Weill, George Gershwin, Duke Ellington,
John Cage e tutti gli altri compositori e/o musicisti le cui gesta affollano Il
resto è rumore.
Anche quella che viene chiamata l’odierna “musica d’uso”, dalle colonne sonore
alle sonorizzazioni ambientali, risente delle trasformazioni politiche,
sociali, tecnologiche ed è un processo storico irreversibile, con tutto un secolo
di precedenti, a cui Alex Ross risponde con la complicità dell’ascolto finché
la musica resti “una ricerca del senso all’interno di una struttura aperta: un
microcosmo di vita spirituale”. Sì, è una faccenda molto importante.
martedì 18 dicembre 2012
John Dos Passos
Ronzinante di nuovo in viaggio raccoglie una sparuta
selezione di scritti giovanili di John Dos Passos, già reduce dalla prima
guerra mondiale e viandante in terra spagnola. Gli appunti e le osservazioni,
siamo a cavallo tra il 1919 e il 1920, e la Spagna non è ancora travolta dalla
guerra civile, diventano articoli che poi raccolti formano una sorta di diario
di viaggio. Ronzinante è di nuovo in viaggio è solo una selezione,
peraltro puntuale, del viaggio di John Dos Passos attraverso la Spagna e in
modo particolare è riferito ai suoi talking by the road in cui il protagonista
è Telemaco, suo mitico alter ego, che in combutta con Lieo, altra figura presa
in prestito dall’Olimpo, si ritrova sulle strade spagnoel con don Chisciotte
della Mancia alias Alonso Quijano e Sancio Panza. L’incontro che immagina John
Dos Passos è quello che sognamo tutti: comprendere perché ce ne andiamo sempre
contro i mulini a vento da chi è costretto, da un capolavoro assoluto, ad
andarci all’infinito e che lo ricorda persino con una punta di ironia:
“Gentiluomini, è piuttosto ridicolo dirlo, ma ancora una volta siamo partiti
con lancia ed elmo come cavalieri erranti per liberare lo schiavo, per riparare
i torti dell’oppresso”. Sapere perché inseguiamo un’idea o l’illusione che la letteratura
possa contenere un’idea (magari due o tre) che non deve essere per forza
politica, come lo sarà per John Dos Passos (prima in una direzione, poi
nell’altra) senza essere considerati dei pazzi che di solito è “la risposta
dell’ignoranza davanti all’insolito”, sarebbe già uno stimolo sufficiente. Il
fatto che John Dos Passos veda proprio nel cavallo (anzi, nel ronzino) il
protagonista la dice lunga sulla prospettiva del suo sguardo giovanile. E’
un’idea di posizione, un riflesso persino geografico di quel viaggio in cui si
ritrova Ronzinante, un nome che già contiene la semplicità e l’umiltà del
confronto che John Dos Passos condensa così: “Avremmo disperatamente bisogno
dell’abitudine a vegliare in questo distratto mondo moderno. Se più uomini di notte
camminassero e pensassero, ci sarebbero meno miserie sotto il sole”. Vuoi per
la natura evanescente dei personaggi, vuoi per la condizione precaria
l’incontro è frammentario e tra le chiacchiere, l discussione filosofiche
nonché l’amara constatazione che “l’organizzazione semplicemente sostituisce un
torto con un altro” e per organizzazione si intende lo stato, il governo e le
sue istituzioni, alla fine John Dos Passos concede uno sguardo al paesaggio
umano, artistico e naturale restando ammaliato con “il tambureggiare di una
chitarra, frullare veloce, secco, come locuste in una siepe un giorno d’estate.
Pause che trattengono il sangue e lo gelano, improvvisa quiete come il
frusciare di un ramo in un silenzioso bosco notturno”. Il talento è già chiarissimo
e Ronzinante di nuovo in viaggio, riconoscendo che “c’è bisogno di ben
poche sensazioni per condurre una vita umile e bella”, è breve e asprigno
eppure genuino “come un riflesso di luce su un fiume nero”.
venerdì 14 dicembre 2012
Allen Ginsberg
E’ naturale che la figura
poetica e letteraria di Allen Ginsberg sarà soggetto a ripetute interpretazioni
e riletture: la vastità della sua produzione nonché l’enorme quantità di
materiale archiviato che ancora deve trovare una sua dimensione (bastano i cenni
nella nota del curatore di Parigi Roma Tangeri, Gordon Ball, a rendersi conto della situazione) offrono stimoli
sufficienti a considerare l’opzione di una collana a lui interamente dedicata.
L’ordine rimane un’utopia e per infatti per arrivare alla forma più o meno
definitiva nella ricomposizione dei diari di Allen Ginsberg i curatori sono
dovuti ricorrere ad ardite forme di lettura e interpretazione. Di questa
elaborazione, Parigi Roma Tangeri è
parte significativa anche se rappresenta soltanto un terzo dei suoi Journals tra il 1954 e il 1958 e in particolare la parte
finale. E’ di sicuro un tassello importante nel ricostruire gli archivi di
Allen Ginsberg non solo perché contiene appunti e frammenti di opere destinate
a diventare famose (su tutte, Kaddish). E’ anche l’espressione più genuina e grezza del suo work in progress
tra il marzo 1957 e il luglio 1958 nel quale è convinto di appartenere a
qualcosa di importante. “Non ho
mai smesso di pensare che eravamo coinvolti come comunità in un cambiamento
storico della coscienza e in una specie di rivoluzione culturale” scriverà più
di venticinque anni dopo e nel variegato panorama di possibilità di Parigi
Roma Tangeri si sente l’urgenza di lasciare
una traccia, di sfruttare la scrittura per fissare un tempo, un’idea, se non
altro un paesaggio o un’emozione o una sensazione, almeno quella che è chiamata
“la spensieratezza di lavorare a una poesia”. La necessità di dare forma
immediata a una creatività impellente è spiegata ancora dallo stesso Allen
Ginsberg, sollecito ad annotare tutto “perché, per certi versi, mi sembrava
veramente che si trattasse di scegliere tra un passo ulteriore verso la
liberazione e uno stato di polizia autoritario, alla 1984; tra uno stato di polizia strisciante e uno
strisciante socialismo libertario”. Quanto illuminante fosse quella percezione
possiamo dirlo con più convinzioni e con più motivazioni oggi, rileggendo Parigi
Roma Tangeri. Resta il fatto che Allen
Ginsberg è rimasto fedele ai suoi propositi anche mentre riempiva i giorni dei
suoi diari: “Io volevo poesia realistica, fondata sulle emozioni ideali comuni
dei cittadini di una democrazia, volevo fare profezia bardica e contribuire a
terminare la guerra” scriveva nell’introduzione a Papà respiro addio e quella volontà corrisponde senza alcun margine di
errore anche ai traslochi tra Parigi Roma Tangeri, città che non saranno mai abbastanza grandi per
contenere idee & poesie. Sembra accorgersene lo stesso Allen Ginsberg:
“Tutti noi accalappiati dal mondo, mentre cerchiamo di arraffare amore cibo
gloria e poesia, la fredda poesia d’amore della gloria. E il mondo così
piccolo, il trapasso così rapido, la pioggia grigia, la ruga intorno all’occhio
della tomba”. Irraggiungibile.
lunedì 10 dicembre 2012
Leonard Cohen
E’ incredibile come Leonard Cohen trasformi la
poesia in un linguaggio per parlare con se stesso, per riempire il diario della
sua vita perché “la poesia non è altro che informazione. E’ la costituzione
della nazione interiore”. Morte di un casanova in particolare si nutre
di una leggera anarchia dove la finzione suprema erutta in slang da bassifondi,
in particolare quando guarda verso ragioni pratiche (e non è impossibile
assecondarlo quando dice con Un proletario: “Gli esseri che si aggirano intorno a
questo tavolo hanno già rovesciato il mondo e poi ve l’hanno nuovamente
infilato su per il culo esattamente com’era prima”), anche se poi privilegia
liriche elaborate e sensuali, il suo personale work in progress. La poesia
raccolta in Morte di un casanova non è mai definitiva: si evolve in pagine di
prosa, in canzoni (come è risaputo), in un flusso inarrestabile di emozioni
convogliate, sillaba dopo sillaba in una forma instabile. Le poesie, a loro
volta, diventano preghiere, invocazioni, avvisi ai naviganti, fogli di
taccuino, rimasugli di sogni descritti una volta per essere dimenticati per
sempre (“Lo spirito s’è fatto carico di un po’ del lavoro sporco” scrive in Il
sogno)
e quella che in Dopotutto l’innamorato chiama “la falsa voce dell’armistizio”,
una specie di lingua che spiega come mai “l’amore contempla tutto”, peraltro
azzerata dal titolo Sono contento di essere sbronzo. Eccessivo,
contradittorio, spudorato come un’operazione a cuore aperto (lo ammette con L’altare: “Il cuore di un
traduttore che ha cercato di rendere in un linguaggio corrente gli ordini
superiori della pura energia, che non ha negato la propria inclinazione
all’obbedienza”), Morte di un casanova, è il cahier de doléances di un “amico
della neve” che usa le parole come un rabdomante per cercare qualcosa che
ancora non gli appartiene. L’ambizione è tenace, la presenza è forte, i versi
battono un ritmo serrato, dando spazio a toni dalle tinte forti: “Io sono la
voce che tu hai messo da parte perché era troppo rabbiosa ma quello che ho o ho
avuto da dire è tutto quello che avrai o avrai mai avuto”. Una confessione pura
e semplice raccolta proprio in Morte di un casanova: “E così è andata la
storia ma chi avrebbe detto mai che non ce ne frega niente che non ci riguarda
più. Come fare un viaggio sulla luna o un pianeta sconosciuto: non ha proprio
senso andarci se si deve andar così lontano”. Pur risalendo al 1978, Morte
di un casanova
sembra adattarsi in modo naturale e coerente alle recenti disavventure di
Leonard Cohen dove, e non è un caso, nei suoi legami amorosi è finito di tutto,
dalla sua percezione dell’arte al conto in banca. In prospettiva Il prezzo
di questo libro
anticipa e sublima : “Volevo finirla, ma non volevo finire: la mia vita
nell’arte. Avevo impegnato la mia salute più profonda per riuscirci. Il lavoro
andava ben al di là di questo libro. Adesso lo vedo. Mi vergogno di chiedervi
dei soldi. Non che voi non abbiate pagato di più per ottenere ancora meno. E’
così. Continuate a farlo”. Continuiamo, eccome.
venerdì 7 dicembre 2012
Susan Sontag
Più che un saggio sul potere delle immagini, Davanti
al dolore degli altri
è un vademecum per vivere questi incredibili tempi moderni, in cui la realtà
sembra essere sospesa in un limbo tra rappresentazione, finzione e una
percezione distorta dall’information overload. Con estrema lucidità e
una background coltissimo e rigoroso, Susan Sontag cerca di descrivere, di
comprendere, di spiegare il senso di impotenza, di disperazione e di
incredulità che viviamo nel trovarci di fronte a immagini atroci e senza senso.
“Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una
caratteristica ed essenziale esperienza moderna, risultato complessivo delle
opportunità che da oltre un secolo e mezzo ci offrono quei turisti di
professione altamente specializzati noti come giornalisti. La guerra è ormai
parte di ciò che vediamo e sentiamo in ogni casa” scrive Susan Sontag ed è
proprio la guerra il disastro peggiore perché è anche il più attraente. Davanti
al dolore degli altri
si costruisce una solidissima credibilità proprio scavalcando i luoghi comuni e
Susan Sontang ammette, senza paura di essere smentita, che “la guerra era, e
continua a essere, la più irresistibile, e pittoresca, delle notizie. (Insieme
a quei suoi preziosi sostituti che sono gli eventi sportivi internazionali)”.
Già quest’associazione, visto cosa succede negli stadi, fa riflettere non poco,
poi nel forbito e ricchissimo discorso di Susan Sontag appare un frammento di
Henry James, centellinato con cura perché “in letteratura nulla è dovuto al
caso o alla fortuna” che illumina la condizione di chi, davanti alla terribile
scena di un massacro di Sarajevo, New York, Falluja, Madrid, Londra, Aleppo
rimane ammutolito: “In mezzo a tutto questo, utilizzare le parole di cui
disponiamo è ormai difficile quanto far fronte ai nostri stessi pensieri. La
guerra ha logorato le parole; si sono indebolite, deteriorate”. Rimangono le
immagini che scorrono senza poterle fermare e sono sempre oggettive e cambiano
in continuazione prospettiva e ci fanno
sentire soli Davanti al dolore degli altri perché, come nota con
una sensibilità non indifferente Susan Sontag “a mancarci è l’immaginazione,
l’empatia: non siamo riusciti a fare nostra questa realtà”. Viene spontaneo
chiedersi a chi serve, a chi giova proiettare senza sosta la ricostruzione (che
poi, come ben analizza Susan Sontag, spesso confina nel falso e nel grottesco)
di immagini crudeli e spietate e se “esiste un antidoto contro l’eterna
seduzione esercitata dalla guerra”. Qualche suggerimento Susan Sontag ha ancora
il coraggio di darlo, a partire dalle precondizioni in cui matura questa
sensazione di aver sempre le spalle al muro, dato che “in una cultura
radicalmente riorganizzata dai valori del mercato, la pretesa che le immagini
siano stridenti, clamorose e rivelatrici appare più che altro un segno di
elementare realismo e di fiuto per gli affari”. Cambierà tutto, non cambierà la
guerra ed è per questo che Davanti al dolore degli altri dovrebbe essere
adottato da ogni scuola.
martedì 4 dicembre 2012
John Cheever
Leggi qualcuno che sembra conoscerti a fondo, ed è il suo
diario, non il tuo: Una specie di solitudine è un libro che sanguina. Prendete
il mio corpo e il mio spirito sembra dire John Cheever rivelando la grandezza
di uno scrittore che si spoglia senza esitazioni davanti a uno specchio che in
realtà è una finestra spalancata sul mondo. Angoscia, passione, gioie e
tormenti: gli ups & downs di
John Cheever si susseguono senza soluzione di continuità, con un’aderenza alla
vita quasi morbosa e con una percezione che fluttua di giorno di giorno perché
“sembra che spesso quello che scambiamo per dolore o dispiacere sia la nostra
capacità di porci in un rapporto vitale con il mondo, con questo paradiso quasi
perduto. Certe volte ci svegliamo e ci accorgiamo che la lente che ingrandisce
l’eccellenza del mondo e della sua gente si è rotta”. Sempre molto acuto e
tagliente nel definire i profili dei suoi personaggi, John Cheever riversa le
stesse attenzioni a se stesso e trasforma i diari racconti in Una specie di
solitudine in una
sorta di romanzo crudo e drammatico. Una sofferenza enorme (in gran parte
dovuta al gin e al whisky), i controversi rapporti con le dimensioni
famigliari, l’assidua e il più delle volte infruttuosa ricerca di “una vita di
impossibile semplicità” e la continua rivendicazione di quella che John Cheever
chiama “la legittimità della diversità” e che non sembra riferirsi solo alla
sfera sessuale, sono i temi che si intrecciano e si sovrappongono nello
sviluppo di Una specie di solitudine. Dalle pagine, anche nei passaggi più duri, aspri e
disperati, emana un’incredibile energia con con John Cheever alimenta la sua
scrittura. Anche qui il rapporto è tutt’altro che lineare: avido lettore, ci
sono giorni in cui teme il confronto con i colleghi e amici (Saul Bellow,
Norman Mailer, John Updike e Vladimir Nabokov i più citati) e che nutrono il dubbio del fallimento (“Lo
stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico”) e altri in cui
la necessità e l’indispensabilità della scrittura gli è più chiara perché
“scrivere è l’alleato di molte cose splendide, la fede, la curiosità e
l’estasi, e di molte cose brutte, imbrogliare, disegnare immagini oscene sulle
pareti dei bagni pubblici, assentarsi dalla partita di baseball per scaccolarsi
il naso in solitudine”. Senza alcuna precauzione, senza alcun inutile pudore,
John Cheever raschia la sottile pellicola che nello stesso tempo lega e separa
l’uomo e lo scrittore e condivide le sue confessioni più sentite, intime e
profonde tanto nei passaggi più significativi la prima persona singolare
diventa plurale. A quel punto John Cheever ci è più vicino che mai e non è
difficile riconoscersi nello stesso riflesso quando dice che “abbiamo quasi
tutto quello che desideriamo e di cui abbiamo bisogno eppure il nostro sentire
è saturato dal senso di disincanto, come un filamento elettrico che si riempie
di luce. Forse è solo che intravediamo la possibilità del fallimento oppure che
abbiamo bevuto troppo sabato sera”. Una specie di solitudine è un libro che puzza di vita,
quella vera.
giovedì 29 novembre 2012
Elizabeth Bishop
martedì 27 novembre 2012
Kent Harrington
Il Guatemala non è soltanto lo sfondo su cui si
proietta l’ombra sfuggente del giaguaro rosso. E’ un paese condannato dalla
storia, attraversato da scosse telluriche così come da ondate di violenza
inaudita, un luogo dove la povertà alimenta un’infinita precarietà e dove la
vita, che ha millenni di tradizioni alle spalle, sembra frutto di un destino
del tutto occasionale. Per descrivere il Guatemala che c’è in Il giaguaro
rosso,
così come quello della realtà valgono le parole, riferite a chissà quale angolo
del mondo, ma adattissime allo scopo, che scriveva Graham Greene: “Qui nessuno
avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva
rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le
ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente
a mascherare”. La citazione non è casuale perché il protagonista, Russell Cruz
Price, sembra Il nostro agente all’Avana trapiantato in Guatemala. Nel suo
passato, dove si scontato i riflessi autobiografici di Kent Harrington, c’è
l’essenza che lo porterà a cercare Il giaguaro rosso. Russell Cruz Price
discende da una stirpe di proprietari delle piantagioni di caffè (la prima
risorsa nazionale), ha studiato nelle accademie militari americane ed è un
giornalista del Financial Times. Crede convinto negli effetti moltiplicatori e
autoindulgenti del capitalismo ed è sicuro che non c’è alternativa al libero
mercato, anche in Guatemala. E’ per questo che accetta di condividere la caccia
al giaguaro rosso che gli propone Gustav Mahler, un archeologo tedesco di
illustre discendenza, convinto di aver trovato la pista giusta per arrivare a
una delle leggende delle leggende precolombiane. Il giaguaro rosso è un feticcio di giada
che pesa svariati quintali, dal valore inestimabile e l’idea di Russell Cruz
Price è venderlo per conquistare la femme fatale di cui si è innamorato,
Beatrice. Lei è sposata con Carlos Selva, generale dell’esercito e sanguinario
responsabile dei servizi d’informazione, ma non è l’unico ostacolo (femminile)
a cui deve far fronte Russell Cruz Price perché “quando tutto sembra
tranquillo, allora è il momento in cui ti può succedere qualcosa”. C’è il
ricordo della madre, Isabella, c’è Olga, che l’ha visto bambino, e c’è
Katherine, la volontaria idealista che si innamora dell’uomo sbagliato (lui).
Kent Harrington con i colpi di scena non ci va leggero, anche a discapito di
qualche elemento di coerenza e di alcuni dettagli (archeologici, strategici,
militari): nella prima parte Il giaguaro rosso è denso e affascinante,
mentre nella seconda, dove gli eventi precipitano uno dopo l’altro, diventa
rutilante e avvincente. Detto questo, Kent Harrington sparge la suspense a
piene mani, dalle improbabili love story alle folli missioni geopolitiche (con
l’onnipresente invadenza degli interessi americani), soltanto per ricostruire
il clima irrespirabile del Guatemala, un posto nel mondo in cui “solo i
bastardi possono resistere, ragazzo, perché a loro non gliene frega niente del
paradiso”.
giovedì 22 novembre 2012
Cormac McCarthy
“Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti.
Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” è la domanda che arriva
quando il viaggio Oltre il confine sta ormai sfumando. Billy e Boyd Parham lo
stanno attraversando per riportare una lupa tra le rocce messicane. Il padre
dei due fratelli la vorrebbe vedere morta, come il bestiame che ha
cacciato: cambiando il destino
dell’animale, Billy e Boyd oltre a sfidare l’aspro paesaggio della frontiera,
s’inerpicano lungo crinali inesplorati della vita cita perché, come scrive
Cormac McCarthy “Le conseguenze di un atto sono spesso molto diverse da quanto
si potrebbe immaginare. Devi essere certo che le intenzioni che hai nel cuore
siano abbastanza ampie da far posto anche agli sviluppi negativi, alle
delusioni. Capisci? Non tutto vale così tanto”. Il centro della Border
Trilogy
è il romanzo più lirico, per non dire poetico, di Cormac McCarthy. La
connessione tra l’elemento naturale, le meravigliose descrizioni delle rocce,
del vento, del deserto e degli animali, e poi la minuziosa attenzione alle
intangibili forme del mondo umano, quel mondo “fatto solo di respiro” rendono
il percorso dei fratelli Parham qualcosa in più di un’iniziazione, di una
scoperta, di un’avventura verso l’incognito. Tra gli aridi sentieri di Oltre
il confine
spunta una rara, intensa sensibilità nel comprendere che “non vi sono viaggi
isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non
vi è un’altra storia da raccontare”. Questa è la vera linea attraversata, la
meta che lo stesso Cormac McCarthy intravede Oltre il confine: “Se la gente
conoscesse la storia della propria vita, quanti sceglierebbero di viverla? La
gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei
giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni
giorno si mettono le cose”. E’ la forza del racconto che definisce il tempo,
l’esistenza stessa che è “tutto è racconto” ed è la risposta con cui Cormac
McCarthy definisce l’esigenza, primaria e irrinunciabile della narrazione:
“Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue
non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso
contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori,
eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto.
Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. E’ questa in fondo la
lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché,
vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto
il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a
meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare
in piedi e che può cadere. E qui fili che ci sono ignoti fanno naturalmente
parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non
nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi possiamo mai aver finito di
raccontare. Non c’è mai fine al raccontare”. Straordinario.
martedì 20 novembre 2012
Tom Franklin
Un colpo di pistola e una ragazza scomparsa
danno il via alle danze degli avvoltoi e spalancano una finestra nella vita di
Chabot, Mississippi. E’ un’area rurale e povera dove la vita a piedi nudi e ai
margini del bosco e delle paludi, ha reso le crepe del razzismo più sfumate, ma
non per questo meno ambigue. Larry Ott, ricoverato per un proiettile passato
vicino al cuore, è stato amico di 32 alias Silas Jones, “l’unico rappresentante
delle forze dell’ordine di Chabot, Mississippi, circa circa cinquecento abitanti”.
Larry Ott, bianco, è stato coinvolto nella scomparsa di un’altra ragazza, Cindy
Walker, avvenuta anni prima e da allora vive circondato dal sospetto ed
emarginato, gestendo l’officina del padre, ormai senza clienti, accudendo la
madre e le sue galline. Dopo che qualcuno gli ha sparato, 32, nero, vaga per la
contea guidato da un rimasuglio di coscienza, da un’intuizione o dalla
concidenza tra il ferimento di Larry Ott e la scomparsa Tina Rutheford, figlia
del padrone dell’unica fabbrica della contea. Non è un detective, la sua
mansione principale dovrebbe essere dirigere il traffico e i luoghi in cui
passa sono sempre gli stessi: una tavola calda, una casa di riposo,
un’officina, le strade consumate dalle abitudini, un pollaio e del resto a
Chabot non sembra esserci molto altro a parte quel passato che non passa mai,
come direbbe William Faulkner. 32 viaggia per triangolazioni da un luogo
all’altro in cerca di risposte, ma il municipio ha un budget ridotto persino
per gli sceriffi, figurarsi se può permettersi di divorare risorse che non ha
per indagare ancora su indizi del passato. Solo che il processo su cui
volteggia L’avvoltoio non concede scampo: “Il tempo ammassa anni nuovi su quelli
vecchi, senza però che quelli vecchi scompaiano, come gli anelli centrali di un
albero, i primi e i più stretti, i più nascosti, racchiusi nell’oscurità e
protetti dalle intemperie. Ma poi giunge l’urlo di una sega e l’albero cade e i
cerchi sono inondati dai raggi del sole e la linfa scintilla e il ceppo viene
esposto al mondo intero”. E’ proprio quello che succede nel corso del romanzo
di Tom Franklin, già notato con le short stories di Alabama Blues: la suspense (bisognerà
scoprire chi ha fatto sparire Cindy Walker e poi Tina Rutheford e perché hanno
sparato a Larry Ott) su cui è imperniato tutto L’avvoltoio è strumentale e
destinata ad accogliere il lettore in un segmento di spazio e di tempo, dove
tutto funziona al rallentatore e si svela passo per passo, pagina dopo pagina.
Sono il contesto, l’insieme e il mood generale che Tom Franklin sa rendere come
un grande narratore: dai menù della tavola calda ai serpenti mocassini, dai
ripetuti omaggi a Stephen King ai film del drive-in, dal kudzu (un rampicante
selvatico si avvolge agli alberi e alle rovine) alle impronte nel fango, ogni
dettaglio concorre a definire l’atmosfera in cui promesse e tradimenti, verità
e pregiudizi definiscono il destino dei protagonisti, neri o bianchi che essi
siano, lasciando al tempo il compito dell’unica giustizia possibile. Molto più
di un semplice thriller.
Mark Bowden
La ricostruzione della cattura di Osama bin
Laden è pratica, funzionale, schematica, come se Mark Bowden stesse facendo
tutto il possibile per spianare le pieghe di un evento storico complesso e
pieno di segreti. Tutte le coordinate vengono rese intellegibili anche a costo
di ripetere e di ripetersi, usufruendo di uno stile a tratti elementare nella
sua schematicità, fatto di frasi brevi, sintetiche, scandite in modo preciso. La
cattura
diventa così un interessante esperimento in cui un evento storico viene
collocato in un contesto non lontano dalla fiction: pur inanellando tutta una
serie di problematiche che vanno dalle personalità di Barack Obama e George
Bush, dalle funzioni dei consiglieri di stato alle catene di comando
dell’esercito degli Stati Uniti, il racconto di Mark Bowden è avvincente e
scorrevole. La cattura comincia, come è inevitabile, nei giorni successivi all’11
settembre 2001 e termina dieci anni dopo quando Osama bin Laden, nome in codice
Geronimo, viene dichiarato “enemy killed in action”, definizione ufficiale con
cui si conclude una lunga caccia all’uomo, vivo o morto (come poi finirà).
Prendendolo per quello che è, la sintesi e la semplificazione di una sequenza
di momenti storici molto complessa, La cattura riesce senza alcun
dubbio a mantenersi in equilibrio sul fragile filo sospeso tra
l’intrattenimento e l’approfondimento, operazione abbastanza consueta ai nostri
giorni. A differenza di tanti mestieranti che finiscono per confondere in modo
irrimediabile i due aspetti, Mark Bowden lo fa con quel tanto di stile e di
accuratezza, almeno per quanto riguarda la scrittura, da risultare adeguato e
convincente. Quello che non convince sono alcuni passaggi fondamentali su cui
si basa La cattura:
Mark Bowden sorvola spesso su molte questioni, lasciandole in sospeso,
irrisolte e nascoste negli angoli bui di misteri e segreti di stato. Sulla
natura stessa di Al Qaeda, rifornita (se non proprio organizzata) dagli aiuti
americani per combattere l’invasione sovietica dell’Afghanistan, spende poche parole.
Sull’operato dell’amministrazione Bush, prima e dopo l’11 settembre 2001
vengono tralasciati molti punti oscuri e d’accordo che “Bush era nato in una
famiglia abituata all’esercizio del potere e, all’epoca degli attentati, era
del tutto pronto a giocare in questo ruolo”, ma a promuoverlo sul piano
dell’intelligenza ormai è rimasto soltanto lui. Ci sono molti aspetti non
chiariti su tutta l’operazione e parecchi punti critici che Mark Bowden appena
sfiora. Quello che non dice sembra bilanciare molte rivelazioni, a partire dal
fatto che la missione era cominciata con un altro incidente ovvero un
elicottero in avaria che è andato a schiantarsi nel compound di Osama bin
Laden. Lo spettro di Black Hawk Down e di altri fallimenti, come l’operazione Desert
One (il tentativo di liberare gli ostaggi trattenuti in Iran di cui ha scritto
in Teheran 1979)
sono ancora vivissimi nell’immaginario americano e ricordarli rendono onesta La
cattura
e, en passant, anche i suoi evidenti limiti.
lunedì 12 novembre 2012
Maya Angelou
L’infanzia vissuta nel cuore
dell’America povera, bianca e nera, osservata da una dimensione particolare:
attraverso gli occhi di Marguerite alias Maya e del fratello Bailey prende
forma tutto un singolare universo che ha il suo centro di gravità nell’emporio
della nonna, chiamata Momma e dello zio Willie. “Se crescere è dolore per una
bambina nera del Sud, rendersi conto di essere fuori posto è la ruggine sul
rasoio puntato alla gola. E’ un insulto superfluo” scrive Maya Angelou e la
metafora rende chiare, senza difetto di sorta, le coordinate in cui si sviluppa
Il canto del silenzio. I riferimenti
geografici, le implicazioni della storia nei risvolti sudisti, l’evocazione di
un blues mai sopito nei secoli sono i sapori amari e pungenti che dissemina
Maya Angelou: Marguerite è costretta a crescere presto in fretta dall’habitat e dagli eventi,
compreso uno strupro a otto anni e una gravidanza a sedici anni, e nonostante
tutto nella sua voce mantiene salde le posizioni della spontaneità e persino di
una palpabile vena ironica. Maya Angelou, con una prosa ricca e invitante,
riesce a mantenere una grande equibrio tra la memoria e la consapevolezza del
presente, tra l’urgenza di sottolineare la forza dei suoi piccoli personaggi e
la necessità di circoscrivere (perché spiegarlo è davvero difficile) le
distanze tra loro e il resto del mondo: “Che cosa distingue un paese del Sud da
un altro, piuttosto che da una cittadina, un villaggio o una metropoli del
Nord? La risposta sta nell’esperienza condivisa dalla maggioranza inconsapevole
(il paese) e la minoranza consapevole (tu)”. L’onda latente e/o manifesta del
razzismo è una costante, spesso sotterranea, subdola e invisibile che Maya
Angelou è straordinaria nel rendere evidente: “Stamps, Arkansas, era
Frustalo-Per-Bene, Georgia; Mettigli-Una-Corda-Al-Collo, Alabama;
Negro-Sparisci-Prima-Del-Tramonto, Mississippi; o qualsiasi altro nome
altrettanto descrittivo. La gente di Stamps diceva che nel nostro paese i
bianchi avevano così tanti pregiudizi che un nero non poteva neanche comperare
un gelato alla crema. Eccetto il quattro di luglio. Gli altri giorni si
dovevano accontentare del cioccolato”. E’ nell’elaborazione del ricordo, nello
sforzo della memoria, nella rigenerazione di un tempo lontano che Il
canto del silenzio trae la sua forza, senza
concedere nulla alla nostalgia o al rimpianto. Ha qualcosa di speciale, e di
indefinibile tanto che persino James Baldwin ha fatto fatica a trovare una
descrizione coerente: “Il canto del silenzio libera il lettore perché Maya Angelou affronta la
sua vita con toccante stupore e luminosa dignità. Non ho parole per
quest’opera, ma una cosa è certa: è dai tempi della mia infanzia, quando la
gente nei libri era più reale delal gente che si vedeva ogni giorno, che non mi
commuovevo tanto”. E Marguerite ci fa partecipe anche di quel “genio” che
sarebbe stato al suo servizio per sempre: “i libri”, quelle piccole pietre con
cui cerchiamo di mettere insieme un guado in mezzo alla vita.
giovedì 8 novembre 2012
John Steinbeck
Capita che un torpedone
scalcinato s’inchiodi nel bel mezzo del paesaggio californiano con a bordo
tutti i suoi passeggeri. La compagnia forma un quadro picaresco e colorito,
molto rappresentativo di un’umanità variegata. C’è di tutto, sulla corriera
stravagante di John Steinbeck e il casuale
incidente, tutto sommato una solida metafora dell’imprevedibilità e della
casualità vita, sembra scardinare le esistenze, le convenienze e le convenzioni
bloccate on the road, con una sorta di sottile euforia generale, che spesso si
traduce in una marcata sensualità. Non c’è dubbio che il John Steinbeck da
riscoprire in La corriera stravagante non è certo quello biblico di Furore o Uomini e topi, il cantore della famiglia di Tom Joad, dei derelitti e dei disperati,
dei perdenti e dei fuggitivi, degli outsider di un’America lontana e polverosa.
Da un certo punto di vista La corriera stravagante è più vicino all’epica di Pian della
Tortilla o, almeno, alle stesse visioni.
Perché, in fondo, l’incidente, in senso lato, che ferma La corriera
stravagante è anche l’occasione perché i
viaggiatori scoprano e diano un nuovo senso alla propria vita, vedendo “davanti
alla corriera, la strada cantava la sua canzone”, un inedito orizzonte di
libertà. A partire dal buon autista, che nelle prime pagine del romanzo si
confessa così: “Certe volte sono proprio stufo di guidare quell’accidente di
corriera avanti e indietro, avanti e indietro. Certe volte mi viene la voglia
di piantare tutto e prendere la strada delle colline. Ho letto di un tale, un
capitano di vaporetto a New York, che un bel giorno, senza tante storie, se ne
andò per mare e nessuno ne ha saputo più nulla. O è affogato, o ha trovato da
sistemarsi in qualche isola. Io lo capisco, un tipo così”. Prendere e partire è
un tema che, come è noto, sarà ripreso in continuazione e all’infinito nella
narrativa e anche nel rock’n’roll, a partire da Chuck Berry fino ad oggi, con o
senza le valenze sociali che John Steinbeck gli ha sempre attribuito. Eppure
c’è qualcosa, nel paesaggio attraversato dalla corriera stravagante, che comincia a sgretolarsi sulla superficie della
strada, e non solo in senso metaforico: “Una scarpata franava, una buca si
apriva, una fessura si formava, che un po’ di ghiaccio nell’inverno allargava:
ed ecco che il cemento, incapace di resistere all’azione delle gome, cedeva”.
Anche La corriera stravagante,
nel suo eccentrico viaggio, non perde di vista la concreta, solida visione di
John Steinbeck: anche nel baillame dell’allegra comitiva persa nel deserto
affiora quella capacità di evidenziare da distanza ravvicinata le piccole e
grandi variazioni cromatiche dell’animo umano. Per questo per La
corriera stravagante con ogni probabilità
valgono ancora le parole con cui nel 1954 John Steinbeck dedicava La
valle dell’Eden ad un amico italiano: “Ci
sono dolore ed eccitazione, sentimenti buoni o cattivi e pensieri cattivi e
pensieri buoni, il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e
l’indescrivibile gioia della creazione”.
mercoledì 7 novembre 2012
Ry Cooder
Quella di Ry Cooder è una Los Angeles dove i
musicisti prendono il tram e le femme fatale arrivano in Cadillac ed è
punteggiata da una miriade di piccoli locali dove succede tutto perché sono
proprio i poli magnetici che attirano un’umanità variopinta e disorientata. La
vida es sueño
diceva Pedro Calderón de La Barca, la cui filosofia Ry Cooder nasconde dietro
una canzone tradizionale ed è proprio con il suono, la musica, i silenzi a
raccontare quell’incanto che “è racchiuso nella magia dello straordinario”,
quella specie di sogno a occhi aperti con cui ricostruisce racconto dopo
racconto l’idea di una città popolata da milioni di luci e altrettanti
fantasmi. E’ l’effetto che fanno
le Los Angeles Stories di Ry Cooder: arriva John Lee Hooker, si ascolta Glenn
Miller, si corre su strade incise nel deserto e tutto contribuisce a formare il
mood di una città e della sua ragnatela di vite e di morti. La sfumatura noir
che amalgama le Los Angeles Stories dipende dal fatto che “una pistola cambia le
cose” ed è soltanto uno degli strati che sovrappone con gusto artigianale,
minuzioso e misurato Ry Cooder: nella scrittura ha trasmesso le medesime
modalità della sua musica, puntando sull’atmosfera, sul dettaglio
impressionistico, persino sulla nostalgia dove è il caso. Non è difficile
immaginare che le radici di queste Los Angeles Stories vadano cercata in Chávez
Ravine,
disco particolarissimo e geniale che Ry Cooder ha dedicato a un singolo
quartiere della città, quasi una particolare porzione con cui confrontarsi. Nella
filigrana delle Los Angeles Stories si intravedono, come sottili strati che si sono
sedimentati con il tempo, e che Ry Cooder ha ricomposto sotto una malinconica
luce, i resti di quelle storie e di quelle tradizioni. Una parte della città
che è scomparsa per far posto alle speculazioni del cemento e all’asfalto, come
nel resto del’area di Los Angeles. “Nel mio quartiere, o vai forte o te ne vai
a casa” dice uno dei personaggi delle Los Angeles Stories e Ry Cooder, anche qui
assecondando un gusto minimale e appassionato, sembra temere certe
accellerazioni verso un futuro che è sempre più un’incognita. Non bisogna
essere urbanisti o sociologi per rendersi conto che con le macerie se va tutta
un’identità, viene uccisa tutta una storia, una cultura, una vita. Se serve
l’opinione di un illustre cittadino, quella di Ray Bradbury dovrebbe bastare:
“La verità è che Los Angeles non esiste. Con un po’ di fortuna, non esisterà
mai. Dovremmo pregare che queste ottanta città in cerca di un unico centro non
lo trovino mai. Il tessuto connettivo che un tempo fondeva la composita Los
Angeles, i grandi treni rossi della Pacific Electric, è sprofondato nella
polvere delle autostrade. E le autostrade? Sono affollate di gente che si
avventura nella pericolosa vita metropolitana, sedotta dalle sue lusinghe. Sono
piene di immigranti a bordo di carrette a benzina che ogni giorno devono
trovarsi un qualsiasi posto dove andare, e il più delle volte non vanno da
nessuna parte”.
lunedì 29 ottobre 2012
Kurt Vonnegut
"La tecnica del gatto oltre il muro”, un
dettaglio del racconto da cui prende il titolo questa brillante raccolta,
potrebbe essere benissimo la metafora del metodo che anima le prime e inedite
short stories di Kurt Vonnegut. E’ l’imprevedibile e l’imponderabile, proprio
quello che succede al felino sparato in aria (e a chi sta nella zona di
atterraggio dall’altra parte), che determina i temi, le trame, i terremoti
nelle vite dei personaggi di Guarda l’uccellino. In funzione di quella
singolare variazione che spesso è un rebus e insieme la sua soluzione, Kurt
Vonnegut mischia soluzioni, idee e stili, senza soluzione di continuità. E’ la
forza della storia in sé che deve sostenersi da sola e questa è l’unica
caratteristica comune a tutti i quattordici racconti di Guarda l’uccellino. Alcuni sono diamanti
grezzi come Gridalo dai tetti o Il re e la regina dell’universo: partono da presupposti
ingombranti che poi vengono tranciati da finali sorprendenti. In effetti
potrebbero già contenere interi romanzi, e viene il dubbio che sia quella la
loro origine. Altri sono perfetti, sia che giochino con il fantastico (come Il
tagliacarte,
un frammento che raduna tutto quello che può servire a confezionare un breve
racconto) sia che rimangano incollati alla realtà come Parola d’onore o il toccante Ciao Red. Gli estremi sono il
primo e l’ultimo dei racconti di Guarda l’uccellino. Confido ruota attorno a “una
scoperta più grande della televisione e della psicoanalisi messe insieme, che
di soldi ne fanno a palate” ed è è geniale, se non proprio profetico, nel
raccontare le deformazioni della vita dalla seconda metà del ventesimo secolo
in poi, con un piccolo artificio dell’immaginazione. Una buona spiegazione svela invece cosa
succede nei giardini segreti di un matrimonio, quando le parole che non sono
state pronunciate pesano più di quelle dette. Confido e Una buona
spiegazione
racchiudono una popolazione di personaggi legati a vite anonime che vengono
travolte da un mistero o da un segreto o dall’improvvisa apparizione di un’incognita.
E’ quello che succede anche all’impiegato orwelliano di Fubar (termine che significa
“a tal punto incasinato da essere irriconoscibile”). Relegato in un ufficio che
più marginale non si può, condizionato dall’assistenza alla madre anziana e
malata, il travet si sente “un padrone di casa alla festa più lunga e noiosa
che si possa immaginare” fino a quando non gli presenta la nuova segretaria,
una ragazza avvolta in “una scintillante costellazione di bigiotteria”. Tra i
due scatta qualcosa che rimane sospeso in “quella sensazione complessiva di
essere bloccati dalla nebbia che viene spesso scambiata per amore”, condizione
che è piuttosto diffusa tra i personaggi di Kurt Vonnegut. Resta da dire
proprio di Guarda l’uccellino un racconto di quattro-pagine-quattro che
sublima i contorni noir di molte di queste storie. E’ un Vonnegut d’annata:
pungente, incalzante più che mai, al lettore chiede pochissimo e lo lascia in
compagnia di una selva di punti di domanda, che poi è quello che dovrebbe fare
la letteratura.
sabato 27 ottobre 2012
Lawrence Ferlinghetti
Forse per i trascorsi legati all’attività di
editore, o per la sua multiforme percezione dell’esperienza artistica, la
poesia di Lawrence Ferlinghetti è sempre scivolata a un millimetro di distanza
da quella di Allen Ginsberg, Gregory Corso o Jack Kerouac. L’occasione è sempre
propizia per ripristinare la giusta dimensione, allineando Lawrence
Ferlinghetti ai suoi amici e compagni d’avventura. Intanto, va ricordata una
comune e condivisa attitudine alla poesia che proprio nell’epigrafe iniziale di
A Coney Island of The Mind, Ferlinghetti riassume così: “Come poeta, a
volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo
spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della
necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle
creature bipedi note col nome di esseri umani”. La poesia di Ferlinghetti, che
in A Coney Island of The Mind raggiunge una delle sue migliori espressioni, ha
i tratti della pennellata precisa, senza esitazioni, convinta e istintiva ed è
quella la sua bellezza estrema: parole schizzate a getto continuo e ispirate
dalla gamma di colori, di immagini e di forme di Chagall, Bosch, Goya, Picasso
e Brancusi. Vivide, intense, colorite, imprevedibili, naturali e spontanee,
improvvisata seguendo coordinate jazzistiche, le liriche di Ferlinghetti si
trasformano spesso in lunghe suite che hanno tutta la forma di intense odi,
come è Io aspetto,
forse lo snodo centrale A Coney Island of The Mind. Vitale nel suo essere
attaccata alla vita quotidiana, nel ribaltare uno dopo l’altro tutti i luoghi
comuni americani (“Siamo le stesse persone, ma ancora più lontane da casa, su
autostrade a cinquanta corsie, su un continente di calcestruzzo, scandito da
melliflui manifesti pubblicitari, che illustrano imbecilli illusioni di
felicità. La scena mostra meno carri di condannati a morte, ma più cittadini
scoppiati in auto dipinte, e hanno targhe strambe, e motori che divorano
l’America”) la visione A Coney Island of The Mind è quella di tutte le
altre voci della Beat Generation, “una specie di circo dell’anima” la cui
connotazione ha i lineamenti della dissociazione, della ribellione, del
dissenso e della profezia. Ferlinghetti la rende esplicita aggiungendo una nota
di particolare chiarezza agli intenti del suo personale manifesto: “Un’altra
alluvione sta per arrivare anche se non del tipo che ti aspetti. C’è ancora
tempo per colare a picco e per pensare. Voglio regredire in questa società.
Voglio essere come se fossi libero. Scendi a prendermi dolce cocchio. Non
aspettiamo che le Cadillac ci portino in trionfo nell’interno facendo cenni di
saluto agli indigeni come senatori romani nelle province portando l’alloro dei
poeti sulla fronte illuminata”. Qui la strada è rischiarata da Dante e Kafka,
René Char e Walt Whitman, Ezra Pound e Charles Dickens, Melville e Thoreau, e
poi da Yeats, Keats e infine da Henry Miller che ha ispirato il titolo,
ulteriore conferma che dietro una grande scrittore c’è sempre un insaziabile
lettore.
martedì 23 ottobre 2012
Trevianan
Nicolaj Hel, sopravvissuto alla seconda guerra
mondiale, ai servizi segreti americani, sovietici e cinesi coltiva l’idea dello
shibumi in un castello basco, dedicandosi al suo giardino musicale, alla
concubina, alla speleologia e ai picareschi amici che lo circondano. “Shibumi allude a una grande
raffinatezza sotto apparenze comuni. E’ un’affermazione che non ha bisogno di
essere ardita, così acuta che non dev’essere bella, così vera che non
dev’essere reale. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio
eloquente”: questa è la definizione dello stato di grazia, per semplificare e
abbreviare, che va cercando Nicolaj Hel. Dal suo punto di vista, ne ha avuto
abbastanza e ha deciso di ritirarsi e si è convinto che “una volta isolato dal
futuro, il passato diventa una parata insignificante di banali avvertimenti,
non più organici, non più possenti o dolorosi”. Il suo karma e il suo codice
d’onore invece gli dicono qualcosa di diverso, e che non gli piace, attraverso
l’arrivo di Hannah Stern, sopravvissuta a un massacro all’aeroporto di Roma,
peraltro sventagliato fin dall’incipit. Nicolaj Hel è la prima volta che vede
la ragazza: impreparata, volitiva, più incosciente che coraggiosa, e ormai
disperata. Conosce da anni lo zio, Asa Stern, con cui ha condiviso alleati e
nemici e a cui è legato da un antico debito, quanto basta per accantonare senza
particolari esitazioni la sua vocazione allo Shibumi e affrontare, insieme al
suo passato, le ingerenze di un mondo avvinghiato a interessi economici,
politici e militari di cui ormai non si non si percepisce più nemmeno il
perverso disegno perché, parole sacrosante, “abbiamo a che fare con mentalità
mercantili e militari, e la stupidità è il loro idioma intellettuale”. L’azione
è colorita, rapida, spumeggiante (anche un po’ fumettistica, che non guasta) e
anche le parti più riflessive sono accattivanti, con le proiezioni di Nicolaj
Hel e il suo continuo inseguimento verso lo Shibumi. Il tono è giocoso
senza essere superficiale, ironico quanto basta, leggero ed effervescente nella
forma e comunque denso di piccoli e grandi riferimenti, distributi a ogni
svincolo della trama rendono la
scrittura invitante, avvolgente e convincente. Trevianan alias Rodney William
Whitaker non cerca particolari forme o evoluzioni stilistiche: ha il gusto per
il dettaglio insolito, un’ironia strisciante, anche una spiccata vena polemica
perché la trama è costruita per intrecci e sovrapposizioni, un concatenarsi di
eventi personali e storici, su cui non manca mai una nota dissonante. Nel resto
è accomodante e cordiale con il lettore come Nicolaj Hel con i suoi ospiti per
poi riservare colpi di scene e sorprese a ripetizione. Shibumi è una spanna sopra
l’intrattenimento, una spy story di gran classe, che si legge senza particolari
sforzi e con soddisfazione tanto che, una volta chiusa l’ultima pagina, si
sente la mancanza di Nicolaj Hel, della sua dieta (da cui sono esclusi gli
ospiti), della sua filosofia, e anche delle sue contraddizioni (perché è molto
umano, nel suo essere fin troppo speciale).
lunedì 22 ottobre 2012
Ray Bradbury
Questa raccolta di Saggi su passato, futuro e
tutto ciò che sta nel mezzo, pur nella sua caotica essenza, costruita articolo dopo
articolo, rubrica dopo rubrica, “procedendo alla cieca, correndo a perdifiato,
buttando giù i pensieri così come arrivano”, e sono parole dello stesso Ray
Bradbury, apre uno squarcio vitale sul mondo di uno scrittore e di un lettore
unico. Anche se molte selezioni, trapiantate dal contesto originario, dove
avevano un senso più specifico e (anche) un’altra vita, appaiono piuttosto
distanti o estranee alle coordinate di Troppo lontani dalle stelle, Ray Bradbury è sempre
entusiasta ed è questa la componente più rilevante: può essere un incontro
(memorabili quelli con Walt Disney o Bertrand Russell e la moglie), uno spunto
polemico (e ce ne sono parecchi) o un ricordo e qualche che sia il taglio
dell’articolo, del saggio, della rubrica, la sua verve è sempre trascinante,
spinta dalla passione, dal gusto, dalla curiosità. I temi sono tra i più
disparati: dal trasporto con cui racconta l’essenza americana delle ferrovie in
Ogni amante dei treni è mio amico alle descrizioni di Parigi e Los Angelese,
“città di quarzo” che Ray Bradbury riassume, per François Truffaut in “quasi
ottocento chilometri quadrati di illuminazione metropolitana, un’enorme
distesa, un panorama oceanico di energia elettrica”, la prosa è sempre
immaginifica, accattivante, immediata. E’ anche molto pungente quando dice che
“noi siamo il prodotto finale di fallimenti su fallimenti sfociati in un
prodotto finale che è la sopravvivenza dell’uomo” ed essendo Troppo lontani
dalle stelle, ormai
incapaci di inventare altri viaggi o nuove direzioni, “noi riempiamo il vuoto
con la nostra attenzione. Noi vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, sappiamo”. Sarà
per quello che Ray Bradbury riscrive i finali dei film (il legame con il cinema
è uno dei canali sotterranei che imperversa e annoda le singole parti di Troppo
lontani dalle stelle)
e combatte con una divorante attrazione per la letteratura: “Kipling, Dickens,
Wilde, Shaw, Poe” sono i punti di riferimento e poi Moby Dick (forse più di tutti
perché sembra coltivare una venerazione per Melville) e infine Jules Verne con
la sua percezione del futuro. Ed è qui che l’americano Ray Bradbury sa essere
ancora più eloquente che altrove. L’America, è inutile nasconderlo o cercare di
negarlo, è sempre stata l’interprete principale del futuro, il modello
proiettato in avanti, il profilo sfuggente e veloce, più veloce di tutti gli
altri. Ray Bradbury sembra intuire, capire, conoscere la dimensione fallimentare
di quel’avvenire, i retroscena e le parti in ombra, le imperfezioni maledette,
le ferite profonde dentro i sogni di gloria. Una visione nitida, chiarissima e
tagliente una vera e propria perla scintillante racchiusa nel guscio
frastagliato di Troppo lontani dalle stelle. L’opulenza della
disperazione: l’America attraverso lo specchio è un capolavoro, un
cahier de doléances lucido, duro, preciso e incazzato. Per quello che dice, per
come lo dice.
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