Se, come diceva uno dei grandi
estimatori di Wallace Stevens, Harold Bloom, “la poesia è essenzialmente
linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e
al contempo evocativa”, Aurore d’autunno
è la versione lirica, concreta e tangibile della sua definizione. E’ l’ultima
raccolta poetica di Wallace Stevens e anche negli elementi autobiografici,
riassunti in gran parte in Grande uomo rosso che legge,
celebra il “romanzo inevitabile, scelta inevitabile di sogni, delusioni
come l’ultima illusione, realtà come una cosa vista dalla mente, non ciò che è
ma ciò che percepiamo”. Nella sua lingua ordinata, pulita, chiarissima, corposa
Wallace Stevens è sempre “nell’elemento dell’antagonismo” perché “ciò che sta
sotto questo genere di cose è il movimento delle idee” e allora l’esaltazione
dell’aurora intesa come alba, luce, inizio, primordio è un modo per intuire
l’arrivo del crepuscolo, delle ombre, l’anticamera di quella che il grande
poeta americano chiamava “la stagione muta”. Altrove Wallace Stevens aveva
centellinato i contorni della sua visione, specificando con cura che “le aurore
d’autunno non sono le mattine di primo autunno ma l’aurora borealis che qualche
volta capita di vedere a Hartford, a volte così forte da accorgertene anche se
sei in casa. Queste luci simbolizzano uno sfondo tragico e desolato”. Sono le
quinte ideali della rappresentazione suprema di Wallace Stevens: la poesia è
“la metà incorporea”, sintesi perfetta che ne racchiude la traduzione e
l’interpretazione (“Tam-tam, così fa la tragedia: non ci sono battute? Non c’è
testo. Anzi, si recita per il fatto d’essere lì”) sul palcoscenico tra finzione
e realtà, quella realtà che è “il nudo Alfa, non il sacrofante Omega, con
vassalli luminosi, densa investitura. E’ l’A infante che si regge su gambe
infantili, non la storta Z, curva, polimatica, che s’inginocchia sempre
all’orlo dello spazio nelle pallide percezioni delle sue distanze”. L’altra
metà, quella galleggiante sulle parole, è filtrata con “la carità dell’immaginazione”,
visto che “non è nelle premesse che la realtà sia solida. Forse un’ombra che
attraversa la polvere, una forza che attraversa un’ombra”. Aurore
d’autunno è essenziale nel tracciare una
frontiera netta con i “i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe
della sua legge: Poesis, poesis,
i caratteri, i versi ispirati, che in quegli orecchi e in quei cuori sottili, esauriti, prendevano
forma, colore, e la misura delle cose che sono, e dicevano per loro l’emozione,
che era ciò che era loro mancato”. Quella di Aurore di autunno è una squillante apologia “vivente nell’idea”,
indiscutibile, inaffondabile perché “della poesia non si dimostra l’esistenza.
E’ qualcosa che si vede e si conosce in poesie minori. E’ l’armonia alta,
vasta, che risuona appena, appena, improvvisa, grazie a un senso differente. E’
e non è, e perciò è. Nell’istante della parola, l’ampiezza di un accellerando
muove, cattura l’essere, lo ampia, e non è più”. Questa è la poesia.
lunedì 31 marzo 2014
venerdì 28 marzo 2014
James Salter
Un bel po’ di scrittori più che
rispettabili (Bret Easton Ellis, Richard Ford, Julian Barnes, James Lasdun,
John Banville, John Irving) si sono prodigati con generosità per presentare Tutto
quel che è la vita. Un entusiasmo
legittimo, perché dietro ogni narratore c’è sempre un grande lettore, che trova
una prima risposta di James Salter che dice: “C’è un momento nella vita in cui
ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla
scrittura hanno qualche possibilità di essere reali”. Fantastico, perfetto:
solo che Tutto quel che è la vita
sembra fatto apposta per smentire quell’epigrafe. Si sviluppa in modo diafano,
ordinato, fin troppo: risponde alle regole e agli standard in modo meccanico e
non ha molto da offrire se non l’evoluzione dei passaggi esistenziali del
protagonista, Philip Bowman. Sullo sfondo, in lontananza e sfocata, l’idea
sembra attingere alla calma (tutt’altro che piatta) di Stoner. La differenza è che le trame della vita, così come
quelle dei romanzi, dipendono in gran parte da chi le traccia ed è fin troppo
evidente che James Salter non è John Williams. Anche se è ambientato nella
seconda metà del ventesimo secolo, Tutto quel che è la vita sembra frutto di una visione ottocentesca (e non è un
complimento): l’inquadratura è sempre la stessa, di solito in interni, nelle
camere, nei soggiorni, nelle sale da pranzo e nei corridoi frequentati dalla
borghesia americana. Le descrizioni sono ovvie e se in generale la scrittura è
solida e coerente, solo a tratti si sente la la personalità dello stile,
qualche frammento di racconto, una scheggia di frase, che di solito è
farraginoso e distaccato. Eppure Philip Bowman, il protagonista di Tutto
quel che è la vita, è un editor, ma si ha
l’impressione che un editor, anche un paio, è ciò che è mancato a questo
romanzo. Bowman incontra soltanto donne bellissime e disponibili, subito, a
finire a letto con lui (prima a letto e poi a pranzo e/o a cena) e le sue
prestazioni sono sempre eccezionali da un rapporto all’altro, tutti che si risolvono
in modo piuttosto banale (salvo quello con Christine, dove Bowman consuma una
fredda vendetta erotica). Tutto quel che è la vita sembra compilato con un menù precotto: un tot di
sesso, un tot di personaggi femminili, un tot di autoreferenza dell’editoria
con un contorno di note false, di cliché, di banalità e di parole superflue.
Più di tutto è sempre piatto, monocorde, senza un filo di emozione. “Era come
un sogno, provare a immaginare tutto, finestre e piani interi che non si
spegnevano mai, il mondo al quale desideravi appartenere”: proprio così, e il
problema è che non succede nulla e nella scena in cui succede qualcosa, su un
treno muoiono una madre e sua figlia, James Salter lascia galleggiare persino
una svista da primo giorno di corso di scrittura creativa: “Intorno all’una del
mattino, per causa sconosciuta, in fondo alla carrozza scoppiò un incendio,
provocato da un corto circuito, e il corridoio si riempì di fumo”. Errore
relativo, dettaglio rivelatore.
lunedì 24 marzo 2014
Stephen King
E’ dietro la porta della camera
217 dell’Overlook Hotel che si nasconde l’epicentro di Shining. Anche se rimane chiusa. Mascherato dalle
agghiaccianti visioni, che sfruttano il fantastico per svelare l’orrore più
prosaico della realtà, c’è un romanzo sulla magia della percezione,
dell’intuizione, sulla misteriosa capacità di cogliere un’atmosfera. E’ un
equilibrio precario, frammentario ed elettrizzante che è l’anima stessa di Shining. Lo stesso Stanley Kubrick che fosse proprio quello
l’aspetto più “geniale” dell’intuizione di Stephen King, tanto da indurlo
nell’avventura di trasformarlo in un film : “Mentre gli eventi soprannaturali
si verificano si cerca una spiegazione, e sembra che la più plausibile sia che
quelle strane cose che stanno accadendo alla fine saranno spiegate come
prodotti dell’immaginazione di Jack (Torrance). E’ solo dal momento in cui
Grady, il fantasma del precedente
guardiano che aveva assassinato con l’ascia la sua famiglia, permette la
fuga di Jack facendo aprire il catenaccio della dispensa, che la spiegazione
soprannaturale prevale”. L’Overlook Hotel è il capolinea perché la
trasformazione di Jack Torrance comincia molto prima: l’isolamento e la
solitudine contribuiscono soltanto a far esplodere la follia. Lassù, in cima,
Stephen King ci arriva a modo suo, disseminando fin dalle prime battute un
indizio dopo l’altro, tutta una serie di diversivi che poi vanno a comporsi
nell’esplosione finale. Diane
Johnson, la sceneggiatrice del film di Kubrick, sosteneva che questo processo
fosse limitato: “Il libro è stracolmo di cose. E’ il difetto di Stephen King
come scrittore, butta tutto quanto sulla carta. I lettori adorano questo modo
di scrivere ma è una mancanza di rigore”. Aveva capito: vale lo spazio che
lascia Stephen King: c’è qualcosa di irrisolto, qualcosa di sospeso e
l’importanza della trama è lampante in quella “splendida festa di morte” che è Shining
ed è la cifra principale del suo stile
almeno secondo Stanley Kubrick: “Direi che
la forza di Stephen King sta nella capacità di costruire trame; non mi sembra
che gli importi molto della forma. Mi sembra uno scrittore più interessato
all’invenzione di una trama, cosa in cui eccelle”. Dal titolo in poi Shining si
articola come un riflesso infinito in uno specchio, doppio e deforme: Jack
Torrance si rivede nello spettro di Delbert Grady, Danny Torrance è l’estremo
opposto e complementare di Dick Hallorann e Stephen King, eccoci qui, sembra
ritrovarsi nella stessa follia alcolica e schizofrenica di Jack Torrance.
Entrambi scrittori, il personaggio e il suo creatore sono accomunati da un
destino sovrappopolato da fantasmi e c’è soltanto un’uscita d’emergenza, che
l’Overlook Hotel non ha mai avuto. Come diceva Stephen King in On
Writing: “Avevo scritto Shining senza nemmeno accorgermi di aver scritto di me
stesso”. E’ il motivo per cui Shining, pur essendo una sublime e algida ghost story, va ben oltre l’elemento
fantastico: il vero incubo, alla fine, è restare senza parole.
giovedì 20 marzo 2014
Chad Harbach
Succede tutto nel perimetro che
comprende il campus e nel diamante del campo da baseball del Westish College,
nel Michigan, due aree collegate da un invisibile, contorto eppure solidissimo
cordone ombelicale. L’arte di vivere in difesa è la specialità di Henry, il protagonista (il cui nome contiene forse
un’involontaria citazione dal Gioco di Henry di Robert Coover) che vive per il baseball, nel
ruolo specifico di interbase, e attorno al quale si sviluppa una serie di
insiemi e sottoinsiemi che sembrano prima delineare e poi smentire il paradigma
per cui “l’America è questa: i vincenti vincono, i perdenti vengono buttati
fuori a calci”. Il baseball non è soltanto una magnifica ossessione, quella per
cui “per tutta la vita aveva desiderato possedere un talento trascendente,
un’unica abbagliante qualità che il mondo non avrebbe esitato a definire
geniale”. E’ anche l’essenza stessa dell’arte di vivere in difesa perché, come dirà uno degli onnipresenti scout e
osservatori che compulsano le statistiche e scrutano i talenti sul campo: “La
parola chiave nel baseball è fallimento, e se non sei capace di gestire il
fallimento non durerai a lungo. Nessuno è perfetto”. L’arte di vivere
in difesa diventa allora il tentativo di
rimandare per sempre, e non soltanto la palla da una base all’altra. E’ l’idea
di “fare ogni cosa con più facilità, a poco a poco. Mangiare sempre le stesse
cose, svegliarti alla stessa ora, indossare gli stessi vestiti. Intoppi,
cattive abitudini, pensieri inutili: tutto ciò che non era necessario svaniva
lentamente. Tutto ciò che era semplice e utile, invece, rimaneva. Migliorare a
poco a poco, fino al giorno in cui tutto sarebbe stato perfetto, e sarebbe
rimasto così. Per sempre”. E’ un antico miraggio, in fondo, “il sogno di giorni
tutti uguali. Ognuno uguale a quello precedente, solo un po’ meglio”. Il
Westish College diventa così il proscenio dove Chad Harbach costruisce la sua
storia agrodolce lasciandola spesso ondeggiare tra il dramma e la commedia come
le acque del lago sui cui si affaccia il campus. Un luogo da cui nessuno se ne
vuole andare, ma tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro, devono
partire. Nei suoi momenti
migliori, Chad Harbach ricorda la leggerezza di Stephen King senza l’elemento
fantastico, salvo la spruzzata gotica del finale. I personaggi sono
caratterizzati da due, tre note specifiche, da una particolare vocazione e
danno il meglio quando sono legati gli uni agli altri. Il concatenarsi degli
eventi è la forma stessa della trama: una serie di scene che si incastrano una
nell’altra con un tenore cinematografico e con un’impercettibile vena
autobiografica. L’arte di vivere in difesa traballa proprio in quei passaggi, quei gangli che dovrebbero pesare
di più e invece sono risolti come punti di contatto tra un’inquadratura e
l’altra e vengono raccordati con una patina minimalista evanescente. La lettura
è sempre gradevole, la sostanza resta sfuggente come una palla giocata con un
po’ di effetto, senza troppe ambizioni, giusto salvare la partita.
lunedì 17 marzo 2014
George Saunders
Sempre caustico e irriverente,
George Saunders prende i clichè della civiltà occidentale (la famiglia, prima
di tutto, e senza pietà) e li viviseziona in parti irregolari, buttandole per
aria per poi restare a guardare come si combinano. Il risultato è una specie di
cut-up & fold-in elaborato e raffinato sul piano narrativo, non sempre
agevole nella lettura, che ha un elevato
tasso di provocazione nel suo DNA. E’ la parte più riuscita, del resto
di Dieci dicembre, dove l’impianto
fondamentale dei racconti assume toni psichedelici ed esprime una satira sociale
affilata, con una lingua ironica, sincopata, immaginifica. La percezione non è
mai immediata, perché c’è un’analisi complessa dietro ogni singola short story
di Dieci dicembre e la grande
capacità di George Saunders è quella di tradurla in cornici ristrette, ben
focalizzate, anche in contesti che appaiono surreali a prima vista. A volte le
storie di Dieci dicembre sono
brevissime come Croci, giusto due
pagine, una cartolina spedita da un’estrema desolazione, che sembra essere
soltanto l’introduzione di Il cagnolino, un’altra short story cruda e durissima. La rilettura dei luoghi
comuni, come succede anche in Esortazione, e il riciclo di frasi fatte e consunte, di nomi e di modi levigati
dall’abitudine è l’elemento che George Saunders usa per illustrare le
dimensioni di rapporti alterati, distorti, fugaci. Se, a tratti e in
superficie, i racconti sono impenetrabili è perché la vis polemica di George
Saunders non cede di un millimetro ed è paradossale e iperbolica, come succede
con Le ragazze Simplica, che è
insieme l’espressione migliore e estrema di Dieci dicembre, compreso lo slogan finale: “Uscito fuori tema,
causa stanchezza, causa zuffa gatti”. Più efficace il singolare, fantastico
carattere di Fuga dall’aracnotesta che ricorda Kurt Vonnegut nell’evocare la dipendenza
farmacologica e i sentimenti di uomini e donne trattati come cavie. Tutto è
fiction e surreale eppure molto pertinente alla stramba realtà dei nostri
tempi, così come conferma uno dei suoi personaggi: “Ci vedo solo un normale
sentimento di umanità”. Non è un
caso che proprio dietro le quinte teatrali di Fiasco cavalleresco si celi una specie di confessione: “Pensai che in
fondo era una sua scelta. In base alla mia esperienza, che non è niente di
straordinario, tendenzialmente concordo con il detto: se non è rotto, non
aggiustarlo. Dirò di più: pure se è rotto, lascia perdere, facile che fai
peggio”. Si adatta alla perfezione allo stile di George Saunders perché gioca
di rimessa con le convenzioni, tende a ribaltarle e a riscriverle e così il
lessico è caleidoscopico, incontrollabile. E’ ancora William Burroughs, il
linguaggio come un virus: “Sto dicendo: cerchiamo di non analizzare ogni nostra
singola azione in termini di sommo bene/male/né bene né male, a livello etico.
Ormai certe cose sono acqua passata. Mi auguro che ognuno di noi questo
discorso se lo sia già fatto quasi un anno fa, quando è partito tutto
l’ambaradan”. Visionario, da usare con cautela.
venerdì 14 marzo 2014
Robert Ward
Quando la Larmer
Steel, alla fine del 1983, chiude i battenti, gli operai tornano a bere nei bar
di Baltimora con la certezza che tutto un mondo è finito. Il lavoro in
acciaieria è duro, faticoso e pericoloso e per arrivare alla fine della
giornata Red Baker, Dog Donahue e gli altri compagni di sventura hanno
sviluppato un rete di sicurezza tessuta di orgoglio e amicizia. Anche quella
viene travolta e con Io sono Red Baker Robert Ward rispolvera i drammi umani seguiti alle
politiche economiche dei governi Reagan e delle guerre commerciali con il
Giappone. Questo è solo il punto di partenza, il prologo della storia, l’inizio
di un tuffo nella vita a livello zero dove alla dolorosa routine quotidiana si
sostituiscono sogni improbabili, che presuppongono quasi sempre la fuga che è
un altro modo per evitare la realtà. L’ombra della fabbrica chiusa è un peso
insostenibile per la dignità di chi ci ha vissuto per anni e le spinte di una
società competitiva fino all’ossessione rendono la tensione palpabile. Anche i
comportamenti più resistenti e costruttivi come quelli di Wanda, la moglie di
Red Baker, sembrano inutili nella marea di disperazione che attanaglia
un'intera città. La condizione di estrema precarietà crea un’atmosfera cupa,
senza alternativa. I legami, le amicizie, i matrimoni diventano scomodi,
ingombranti, asfissianti perché, come dice Red Baker, “vuoi qualcuno che ti
conosca, per condividere ogni tuo segreto, qualcuno con cui condividere la tua
solitudine e poi, dopo che questo succede, ti senti completamente vuoto e
privato di tutto. Ti rubano i segreti, conoscono le paure nascoste dietro i
tuoi modi. Sei ridotto all’osso”. Robert Ward riprende la lingua grezza,
popolare, incolta e naturale: gergo da strada, da bar, da birra e whiskey,
intriso dalla malinconia delle canzoni country & western e dall’urlo
incondizionato di Satisfaction. Senza tanti aggiustamenti la trasforma in una scrittura che è livida,
sgraziata, grezza e comunque molto solida e concreta nel raccontare la
disperazione e il disorientamento blue collar. Tra una fila all’ufficio di
collocamento e una rissa, una sbronza e una crisi famigliare, le solitudini di
Red Baker e Dog Donahue si rincorrono nell’inverno di Baltimora: anche se
l’umanità è la stessa, il quadro degli outsider di Robert Ward è molto meno
edificante delle ballate springsteeniane (la seconda parte di The River e Nebraska in modo particolare) che l’hanno ispirato. Tra tutte,
è quel verso di Atlantic City che dice “ora sto cercando un lavoro, ma è difficile trovarne, qui ci
sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte
sbagliata della linea” a collimare con la storia di Red Baker. Il dramma, tanto
inevitabile quanto realistico, è dietro l’angolo e anche se il finale, che
arriva un po’ come un epilogo, è fortunoso, lascia in sospeso ancora molti
dubbi irrisolti ed è attraversato dalle ombre dell’acciaieria ormai muta e
immobile come una città popolata da fantasmi. Un libro scomodo e necessario.
sabato 8 marzo 2014
Charles Bukowski
Le interviste hanno sempre
rivelato il Bukowski più immediato, generoso e urticante, senza alcuna
distinzione tra un momento e l’altro, tra una sfumatura e l’altra. Il confronto
non è mai stato semplice o indolore perché la sua attitudine era: “adesso me ne
sto qui senza fare niente e bevo vino e parlo di me perché voi mi fate le
domande, non perché io abbia le risposte, ok?”, e per dirlo con le sue parole,
era adeguata all’essere
“genuinamente mostruoso” che interpretava. Spogliato di molte delle sue armature,
il buon vecchio Hank invece mostra, più di altre volte, molti lati inediti e/o
non così conformi ai contorni dell’aura leggendaria che gli è propria.
Nell’ampia selezione di Il sole bacia i belli, spunta un Buk persino moralista quando dice in una delle ultime
interviste: “La felicità e il significato profondo della vita non sono delle
costanti, ma credo che qualche volta possiamo avere entrambi se in qualche caso
riusciamo a fare quello che vogliamo realmente, quello che ci piace veramente,
invece di seguire regole preconfezionate. E’ tutto molto semplice e vale la
pena di lottare per questo. Quelli che si inchinano dinnanzi a strade false e a
falsi dei raccolgono solo la confusione e l’orrore di vite sprecate”. E capita
di scovare un Bukowski acuto dal punto non meno lucido, anche quando si
infervora davanti ai soliti luoghi comuni, quelli della politica in primis:
“Perché questi cliché, queste banalità? Okay, be’, direi di no. Non
abbandoniamo la nave. Dico, per quanto scontato possa sembrare, attraverso foza
spirito fuoco audacia rischio di pochi uomini in pochi modi possiamo salvare la
carcassa dell’umanità dall’annegare. Le luci non si spengono finché non si
spengono. Combattiamo come uomini, non come topi. Punto e basta. Non c’è altro
da aggiungere”. Se si spulcia con attenzione, intervista dopo intervista, si
può assemblare e rendere comprensibile il metodo nella follia di Bukowski, il
rapporto con la realtà fotografata
attraverso la scrittura: “Generalmente quello che scrivo sono più che altro fatti
reali ma sono abbelliti anche da un po’ di narrativa romanzesca, un colpo al
cerchio e uno alla botte, ma tenendo sempre le due cose separate. Credo che in
un certo senso sia tradire, ma potremmo sempre chiamarla fiction. Fiction è
tradire? Mischio i fatti reali con la fiction. Nove decimi di fatti e un decimo
di fiction, per rendere la realtà credibile. Così, mi prendo il meglio di
tutto, ecco come funziona”. L’arco di interviste, incontri, insulti raccolti da Il sole bacia i belli è abbastanza ampio (dal 1963 al 1993) da risultare
esaustivo e nello stesso tempo ben avvinghiato al personaggio, molto semplice,
molto coerente, che Bukowski alimentava seguendo alcune semplici coordinate. La
prima: “La mia idea di vita è la pagina successiva, il paragrafo successivo, la
frase successiva”. Poi c’è un appunto autobiografico (come ce ne sono molti,
tutti meritevoli) che riassume la sua carta d’identità in quattro righe: “Ho
qualche problema di stomaco, il mio fegato è troppo carico e le mie emorroidi
minacciano di conquistare il mondo, ma al diavolo. Ce la farò”. Non avevamo
dubbi.
giovedì 6 marzo 2014
Joan Didion
La prima impressione, quando Joan
Didion arriva a Miami, è che
“un’entropia tropicale sembrava prevalere, facendo scivolare in malora i grandi
progetti anche quando venivano portati a termine”. L’atmosfera è tale che la
città le appare come “una specie di sogno a occhi aperti in cui tutto è
possibile” e dentro questa indefinita cornice rientrano Cuba, il Nicaragua, il
Salvador, l’estensione delle frontiere e degli interessi americani e, come una
logica conseguenza nel rapporto tra causa ed effetto, “l’esilio come una forma
di immigrazione”. Dalla presidenza di Kennedy agli anni di Reagan, Joan Didion
ha un modo speciale di accostarsi alla cronaca storica, alla critica politica,
alla costruzione di un saggio, usando la scrittura come un veicolo, come uno
strumento per orientarsi negli oscuri labirinti di Miami e per far emergere e rendere trasparenti “frammenti
di narrativa sommersa”. Attraverso questo lavorio Joan Didion cerca di
comprendere e tradurre Miami dal
punto di vista linguistico, filtrando con la consueta e minuziosa scrupolosità
come la realtà influisce sul linguaggio, e viceversa. Non è soltanto la
commistione tra spagnolo, inglese e altri idiomi o le culture che
rappresentano. Sono anche i vocabolari della politica e della CIA, che
costruiscono quella che Joan Didion definisce una “una lingua interamente basata
sul principio di negabilità, e come tali potrebbero aver avuto un significato
diverso (o anche nessun significato) nella Miami del 1963, dove qualsiasi
parola poteva significare tutto e il contrario di tutto”. Vent’anni dopo, con
le amministrazioni Reagan, l’informazione viene trasformata in “una forma di
arte popolare” e Miami si trova
al centro di un ciclone che cambierà tutto in modo radicale e per sempre.
Dall’osservatorio privilegiato di Miami, dove niente è “completamente immobile,
o del tutto solido” Joan Didion percepisce subito l’entità della metamorfosi
indotta dalla comunicazione pubblica di Reagan e dalle sue proiezioni perché
“prima di tutto queste storie non erano mai casuali, ma sistematiche, e
venivano usate in maniera assolutamente non casuale. Avevano sempre un unico
obbiettivo, e il linguaggio in cui venivano raccontate non era quello della
politica, ma quello della pubblicità e della forza vendite”. Il fenomeno, come
si sa, non riguarderà soltanto Miami o gli interessi americani nei Caraibi e,
come precisa Joan Didion, non si trattava soltanto di “volgarità verbale”, a
cui lei oppone una raffinata e completa ricostruzione. Dentro quelle parole, e
poi soprattutto quelle immagini che a Miami affiorano in superficie chiare, semplici ed efficaci
più che nel resto dell’America, diventa evidente che “le rivoluzioni e le
controrivoluzioni sono incastonate nella sfera del privato e l’apparato di
sicurezza dello stato esiste solo per essere arruolato da uno dei soggetti
privati che guidano l’azione”. L’immagine esotica rimane sullo sfondo: con Miami, anno di grazia 1987, Joan Didion percepiva il
futuro, così come è oggi.
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