Lo scopo di tutti gli abitanti di Sierra è trovare un modo per andarsene. Impossibile avere un’alternativa vitale in un posto circondato dal deserto, martellato da un caldo infernale e dove alla tavola calda locale rispondono per le rime così: “Potete chiedere quello che volete. Ma avrete solo quello che abbiamo”. Le coordinate sono queste, ineludibili. Sierra è l’opposto di Las Vegas: una luce naturale accecante invece dei neon, nessuna possibilità di avventure, parecchie nevrosi fomentate dall’afa e dalla desolazione. Basta uno scapestrato come John Stewart per far saltare i coperchi e la pentola in ebollizione scoppia. La trama dell’esordio narrativo di John Ridley (a suo tempo già attore, sceneggiatore e regista ben inserito nei meccanismi della produzione cinematografica) è uno standard della fiction americana che viene tirato a lucido per l’ennesima volta. Un secolo fa ci sarebbe stato un duello a mezzogiorno nella main street (con gli avvoltoi pronti a planare) a concludere i bizzarri vagabondaggi di John Stewart, non dissimili dalle trame di Quentin Tarantino. A Sierra ci si accontenta di descrivere una bella emicrania: “Non sapeva dove stava andando, ma in un posto piccolo come quello calcolava che prima o poi sarebbe arrivato in qualche luogo utile. Sentiva spini conficcati nello squarcio alla testa e un dolore fantasma gli dava l’impressione di avere le dita mancanti strette in una morsa. Aveva voglia di vomitare, ma per vomitare bisogna aver mangiato e lui non metteva niente nello stomaco da più di un giorno. Fece una riflessione. Era così ovvia ora, che non capiva come non ci fosse arrivato prima: era all’inferno”. Ma, sì. Cani randagi viene servito con un ritmo altalenante, personaggi ancora grezzi e dialoghi ridotti al minimo, ma con quel tanto di surreale ironia di fondo che dovrebbe distinguere il vero pulp d’autore. Non a caso Oliver Stone ne ha tratto Inversione di marcia: se è vero che Cani randagi sembra fatto apposta per diventare un film (il pedigree dell’autore è quello), è altrettanto onesto ammettere che zoppica vistosamente, come se fosse la bozza di un soggetto in un work in progress nemmeno tanto avanzato. Sierra è una città già vista (e meglio) migliaia di altre volte, i cattivissimi all’improvviso scompaiono come sono arrivati, qualche incongruenza di troppo fa sbandare i temi principali e i luoghi comuni che John Ridley vorrebbe reinterpretare sono così consunti che più di una volta sembra di essere finiti in uno spot. Un piccolo dettaglio, giusto per assaggiare il clima di Cani randagi: “Il giorno procedeva a rilento. Su un angolo di strada un cane leccava le gocce che cadevano dalla colonnina di un idrante. L’acqua era calda ma era sempre acqua. Una vecchia sedeva in casa sua, gli scuri accostati, in un angolo buio vicino al frigorifero a farsi aria con un ventaglio. Voleva dormire, ma aveva paura. Suo marito si era disteso a riposare in una giornata come quella. Non si era più svegliato”. Capito l’antifona? Con queste premesse, il sequel e poi un’intera serie televisiva sono obbligatori, solo che a Cani randagi in sé resta quel poco di noir e pulp, che forse sono i veri obiettivi, ma generi ed etichette, senza succo e sostanza, sono soltanto paraventi. Dietro, c’è solo Hollywood.
martedì 27 febbraio 2018
venerdì 23 febbraio 2018
Charles Bukowski
Le cronache settimanali sul Los Angeles Free Press sono un pozzo senza fondo nell’epopea di Charles Bukowski. La sua rubrica, il Taccuino di un vecchio sporcaccione, ha fornito pagine e pagine che sono confluite in gran parte nel libro omonimo e che trovano una nuova collocazione in La campana non suona per te. È il suo apprendistato, tenendo conto che per il Buk “il modo migliore per studiare scrittura creativa è vivere”. Sfilano prestazioni erotiche che spesso si trasformano in avventure surreali, vanno in scena epici scontri verbali (“Puro cinismo”? Puro allenamento”), vengono coltivate rovinose abitudini che ruotano attorno a necessità limitate: sigarette, alcol, sesso. L’ordine del giorno varia a seconda dell’umore: Bukowski è convinto che “deve essere magnifico avere una mente omologata alla massa, qualcuno ti dice che sei un essere umano e tu ci credi”, di conseguenza è il principe degli outsider in esilio nella sua stessa stessa città. Il suo incedere traballante non deve ingannare: il Buk si è accorto che “il mondo era soprattutto per gli altri” e non si tormenta più del tanto nelle camere illuminate dalle insegne al neon, con luce che entra da fuori perché dentro è solo buio. È facile immaginarlo in quell’alone, versarsi un po’ di vino, scrollare la cenere e fare il punto della situazione: “La vita è stata bella, orribile ma bella e pochi eroi ci hanno dato la spinta per andare avanti. Forse eroi scelti male, ma chi cazzo se ne frega”. Bukowski nella versione più cruda e grezza è una macchina da scrivere che non conosce soluzione di continuità, che procede senza distinguere una vita dall’altra, che imperversa su e giù per Los Angeles infilandosi in tutti i guai, e più sono incomprensibili, e meglio è. Giova ricordare che, per quanto nei suoi bassifondi, siamo nella capitale del cinema e Bukowski vede la vita scorre come “un film al rallentatore senza poterlo fermare. È una cosa di rara bellezza. Non posso fermarlo. Non voglio fermarlo. È Cary Grant. Fossetta sul mento per l’eternità. È l’insieme di tristi cose meravigliose e orribili. È qualsiasi cosa, le stronzate che ho fatto senza cuore e tutte le stronzate che farò in futuro senza cuore, e tutte le stronzate che verranno fatte, tanto per, a te e a me e a tutti quanti”. Si può credergli e si può dubitare delle sue invenzioni pirotecniche, ma bisogna ricordare che Bukowski popola la sua rubrica con “brandelli d’anima” collezionati con un vocabolario limitato e con un un particolare senso dell’umorismo che spesso sfocia nel nonsense o nel sarcasmo. Irriducibile, incorreggibile, consapevole di essere dalla parte sbagliata della strada, Bukowski ha il dono inalterato della sincerità perché in cima a tutte le puntate del Taccuino di un vecchio sporcaccione concede uno dei paradossi che da solo regge la sua intera filosofia di vita: “Facciamo cose senza sapere il perché e dopo non ci interessa più il motivo per cui le abbiamo fatte”. È davvero così e tra l’altro è proprio con queste pagine che lo scopre Tom Waits, ed è amore a prima vista: “Pensavo fosse incredibile. Questo tizio è lo scrittore del secolo e pubblica su questa specie di carta straccia, il che mi pareva abbastanza poetico e perfetto”. Fantastici, tutti e due.
giovedì 22 febbraio 2018
William Cronon
Le risorse naturali si possono trasformare in beni commerciabili? Come? E a che prezzo? William Cronon cerca di rispondere a queste domande analizzando come l’habitat americano è stato modificato quando due comunità diverse, quella nativa e quella europea, si sono incontrate e scontrate sulla stessa terra, con una prima, essenziale precisazione: “Gli indiani erano vissuti sul continente per centinaia di anni e avevano modificato notevolmente l’ambiente circostante per i loro scopi. La distruzione delle comunità indiane portò di fatto ad alcuni dei più importanti cambiamenti ecologici che seguirono all’arrivo degli europei in America. La scelta non è tra due paesaggi, uno con e uno senza l’influenza umana; è tra due modi di vivere degli uomini, due modi di appartenere a un ecosistema”. La trasformazione della terra è una peculiarità che distingue tutto il genere umano che modifica “consapevolmente il proprio ambiente fino ad un certo limite, si potrebbe anche sostenere che questo, insieme al linguaggio, sia il tratto cruciale che distingue gli uomini dagli altri animali, e il modo miglior per misurare la stabilità ecologica di una cultura potrebbe essere il successo dei cambiamenti ambientali sviluppati per mantenere la propria capacità di riprodursi. Ma se prescindiamo dall’asserzione circa l’equilibrio ambientale, l’instabilità delle relazioni umane con l’ambiente può essere usata per spiegare le trasformazioni sia culturali che ecologiche”. È proprio questo lo snodo su cui si concentra William Cronon: quello che succede in America è che “un mondo lontano e i suoi abitanti gradualmente divengono parte dell’ecosistema di un’altra popolazione, cosicché è sempre più difficoltoso sapere quale ecosistema sta interagendo con quale cultura. L’annullamento dei confini può per sé diventare la questione principale”. L’analisi non lascia scampo: la terra promessa ai coloni non è un Eden accogliente e paradisiaco, deve essere censita, recintata e coltivata nelle “stagioni della scarsità e dell’abbondanza”. Le mutazioni introdotte hanno inciso nel preesistente equilibrio tra la wilderness e le comunità native, ma c’è qualcosa di più. La terra trasformata ci fornisce gli strumenti per comprendere che i nostri “bisogni infiniti” non solo ci condurranno a una radicale metamorfosi dell’ambiente e del paesaggio, ma alla sua distruzione. William Cronon è molto preciso nel definire l’irreversibilità del processo: “Sebbene siamo spesso tentati di associare i cambiamenti ecologici alle città e alle industrie del diciannovesimo e del ventesimo secolo, dovrebbe essere chiaro fin d’ora che i cambiamenti con origini simili si verificarono in modo altrettanto profondo nelle fattorie e nelle campagne del periodo coloniale. La transizione al capitalismo alienò i prodotti della terra quanto i prodotti del lavoro umano e trasformò le comunità naturali altrettanto profondamente di quelle umane. In definitiva integrando gli ecosistemi del New England in un’economia capitalistica globale, i coloni e gli indiani iniziarono insieme un processo dinamico e instabile di cambiamento ecologico che si concluse nel 1800. Ancora oggi ne subiamo le conseguenze. Quando il geografo Carl Sauer scrisse, nel ventesimo secolo, che gli americani, non hanno ancora appreso la differenza tra produzione e saccheggio, stava descrivendo una delle tendenze di più lungo periodo del loro modo di vivere. L’abbondanza ecologica e lo sperpero economico andarono di pari passo: il popolo dell’abbondanza era il popolo dello spreco”. D’accordo, Walden resta un’utopia, ma l’attenta analisi della difficile convivenza di Indiani e coloni nell’ecosistema americano, insegna che il senso unico dei cambiamenti della terra (che è sempre per e verso il mercato) non concede una seconda chance.
mercoledì 14 febbraio 2018
Theodore Sturgeon
Un gruppo di bambini emarginati ed isolati scopre di possedere e di saper gestire un’ampia gamma di poteri che vanno dalla facoltà di comunicazioni telepatiche alla possibilità di spostarsi da un luogo all’altro. La loro lenta e complessa associazione forma un’entità superiore ai normali esseri umani, ma pur sempre imperfetta e, come tale, a rischio di estinzione. Edward Hamilton Waldo o meglio Theodore Sturgeon, nonostante una produzione prolifica di romanzi e racconti, è stato costretto nel recinto della fantascienza, che aiuta a collocarlo, ma non rende la dignità di un grande scrittore. La sua narrativa conteneva un’elaborazione di contenuti scientifici e sociali, piuttosto che il fantasticare su nuovi e lontani mondi. L’esoterismo delle sue visioni, di cui Più che umano è esemplare di riguardo, era più attinente ad una precisa percezione della realtà e alla sua trasposizione in una serie infinita di metaforiche rappresentazioni. Dove scegliere un romanzo capace di sintetizzare ed esprimere in un colpo solo tutto ciò, la scelta non potrebbe che cadere sull’articolatissimoPiù che umano, scritto nel 1953 e rivisto poco prima di morire. L’essenza stessa di Più che umano è emblematica: alla base della metamorfosi, c’è una sottile apologia degli outsider perché i protagonisti, nonostante l’impressionante dote di poteri mentali di cui dispongono, rimangono ancorati ai legami irrisolti dell’infanzia. Visti da vicino sono come “una banda musicale che marcia insieme: ognuno suona uno strumento diverso, con una tecnica diversa e producendo note diverse, ma il tutto forma un’unica cosa che si muove all’unisono”. Con tutte le sue valenze simboliche, questa non trascurabile proprietà ad accorparsi è la leva principale della trama di Più che umano perché alimenta il processo verso la definizione di un altro essere, comprensivo di tutte le facoltà di partenza, ma anche di una congenita fragilità. Scavare dietro le apparenze, vedere oltre la cortina fumogena delle abitudini e della quotidianità è la prima delle ossessioni di Theodore Sturgeon perché la nuova creatura “era un misero esempio di uomo, ma era un uomo; e quelle erano le voci dei bambini, dei bambini molto piccoli, che non avevano ancora imparato a rinunciare al tentativo di essere ascoltati”. L’altra, direttamente conseguente, è scoprire il difetto della normalità perché anche quando la piccola comune metafisica di cervelli in collegamento funziona a pieno regime interviene una lacuna, un piccolo e devastante scarto di lato che improvvisamente riporta tutti, lettore compreso, in quel “un luogo interiore, appartato, dove il legame tra parola e significato non arrivava”. A confronto di molta della pseudoletteratura (fantascientifica, e non) di oggi, il costante e rutilante sovrapporsi delle storie e dei personaggi, nonché delle loro comunicazione telepatiche potrà risultare ostico o indigesto, ma molto dipende dal fatto che, un po’ come gli stralunati bambini di Più che umano, anche i libri amano essere ascoltati. Per farlo serve quella voce che è poi il senso ultimo della fantascienza (ma anche della letteratura, con ogni probabilità) e che Theodore Sturgeon insegue riga per riga, parola per parola: l’emozione dello stupore, e niente di più.
sabato 10 febbraio 2018
Raymond Carver
Durante il suo ultimo discorso pubblico, il 15 maggio 1988, Raymond Carver spiegò, con la consueta concisione e chiarezza, quale fosse il rapporto che intendeva tra vita e scrittura, offrendo una delle regole fondamentali (e indispensabile) per sviscerarlo: “Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole”. Forse è per questo che i suoi racconti erano condensati fino all'osso e più andava avanti, più somigliavano a quelle poesie che sono sfociate in Blu oltremare: la sua scrittura sembra la ricerca di una luce, di una verità, con un’attenzione religiosa, ma che a tutti gli effetti è un solido, logico attaccamento alla realtà. Introducendo con Tom Jenks, American Short Story Masterpieces, diceva infatti: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. C’è tutto Raymond Carver in quest’idea di arte: né fiction, né interpretazione della realtà, ma soltanto una visione più nitida, più chiara o, soltanto, diversa. Dentro questa luce (blu) la miriade di personaggi sempre in lotta per la sopravvivenza, con un dramma alla porta, con vite che sembrano non risolversi mai. Non c’è traccia di consolazione, non c’è alcun happy end, non ci sono eroi: i racconti di Raymond Carver vivono e si nutrono soltanto di parole che sono l’inizio, la fine e il mezzo con cui si può salvare qualcosa perché come dice Stephen Spender nell’epigrafe di L’artefice della sua sfortuna, “il mondo è il mondo e non scrive storie a lieto fine”. La poesia in sé, poi, è esemplare nel sottolineare il carattere appassionato e drammatico della voce di Raymond Carver che trova sempre una piccola luce, anche nei frangenti più dolorosi: “A lungo andare ogni cosa tranne la speranza ti abbandona, poi anch’essa allenta la presa. Non c’è nulla che ci basti, nel corso della nostra vita. Ma a intervalli, una certa dolcezza appare e, se gliene diamo la possibilità, prevale”. Nei toni di Blu oltremare si sommano in quello che è un saluto e un testamento. Una dimensione personale molto fragile e il colore dominante prescelto tra Quello che ti serve per dipingere indica molto del tenore crepuscolare delle sue ultime liriche. La poesia è, per Carver, una forma ancora più urgente e immediata, senza filtro, capace di raccontare due condizioni esistenziali contigue e parallele, la speranza e la partenza che si alternano nel corso di Blu oltremare. In conclusione a La ragnatela, c’è un primo commiato: “Fra breve, prima che qualcuno se ne renda conto me ne sarò andato di qui”. Poco dopo è proprio La speranza a colmare una prima distanza, inaugurando un viaggio attento ai Limiti (“Compresi che si può abituare a ogni cosa, e non diventare estranei a nulla”) e agli ospiti e con la consapevolezza mostrata in Vento (dedicata a Richard Ford) che, per quanto lontano si possa andare, viene sempre il momento di tornare: “Mi domandi se so l’ora. Certo che la so. È l’ora di rientrare”. Con la costanza di un respiro, Blu oltremare alterna la contemplazione per L’ora più bella del giorno (“Adoro queste notti d’estate. Persino più, penso, di tutte le altre ore. Il lavoro per oggi è finito. E nessuno ci può raggiungere, ora. Né mai”) e la pazienza del pescatore in Posate, (“Vado per un po’, poi mi fermo. Realizzando che da tantissimo tempo non mi ci sono avvicinato. C’è stata quest’attesa ad accompagnarmi, dovunque andassi. Ma ora si allarga la speranza che qualcosa si solleverà e spruzzerà. Voglio udirlo, e andare avanti”), per poi accettare che la vita ha Il suo corso e “noi svaniamo abbastanza presto”. Mescolati dall’assidua partecipazione di Raymond Carver, quelli che Tess Gallagher chiama “sentimenti contrastanti”, si abbandonano a un lungo, commovente tramonto che, con grande dignità, ci ricorda che “noi tessiamo il filo che ci è stato dato”, non molto di più. Da tenere a portata di mano, per ogni evenienza.
mercoledì 7 febbraio 2018
Sherman Alexie
Lo sdoppiamento non è raro nelle cerimonie native, solo che in Danze di guerra diventa un singolare strumento narrativo, che si aggiunge alla già estemporanea composizione d’insieme. Nell’insolita dimensione, non collocabile secondo i normali canoni, si alternano racconti e narrazioni autobiografiche, canzoni e poesie e in ogni frammento c’è lo Sherman Alexie delle domande e quello delle risposte. Un primo interrogativo, nella conclusione di Delimitati, il prologo in versi che apre le Danze di guerra, esprime già la tensione che lo attraverserà dall’inizio alla fine: “Perché i poeti pensano di potere cambiare il mondo?”, e se la risposta di Sherman Alexie è trascurabile, non lo è la terra di nessuno che si apre da lì in poi. Perché il mondo così com’è non va e, comunque vada, i poeti continueranno a pensare di avere il potere di cambiarlo. L’elemento paradossale aiuta Sherman Alexie a camminare in bilico su un filo di rasoio dove la sua vita, come quella dei suoi personaggi, è messa a rischio da piccoli e grandi inconvenienti. La prima breccia arriva subito con Furto con scasso che, come succede spesso in Danze di guerra, in un balzo si ricollega a Il figlio del senatore. Da prospettive diverse entrambi i racconti portano a considerare che “non succede mai nulla, si sa. La vita è infinitesimale e banale”, ma quando succede si aprono scenari che, di fatto, sono ipoteche morali. Bruce Springsteen, evocato da Sherman Alexie altrove, direbbe che “bisogna fare attenzione a non finire dalla parte sbagliata”. L’indecisione su cosa è giusto, e cosa non lo è, nasconde in realtà un disincanto virtuoso: fervido nel raccontare le contraddizioni, le nevrosi, le bugie e le ipocrisie, il disordine delle Danze di guerra si svela con una miriade di piccoli segnali che si collegano tra di loro in un florido sottobosco di dozzine di citazioni disseminate nel testo. Si parte da un testimone oculare della seconda guerra mondiale, Leonard Elmore (coincidenza?), a sollecitazioni che attingono alla letteratura, al cinema, più di tutto, alla musica, perché da Freddy Fender a Marvin Gaye, “non era forse possibile che la musica pop americana venisse trasmessa di generazione in generazione, proprio come il carattere degli occhi azzurri o della calvizie? Non era forse vero che la musica pop americana aveva creato un nuovo organo invisibile, un’ipofisi dell’anima nel corpo americano?”, e per la risposta non è abbastanza tutta La ballata di Paul Nondimeno che, tra l’altro, offre molte altre suggestioni sul tema, compresa l’idea che Elvis sia stato più importante di Einstein (un’ipotesi che potrebbe trovarci concordi). L’alternanza tra toni e forme, dalle esternazioni autobiografiche alle odi agli innamorati delle piccole città, alle compilation e ai telefoni ai gettoni, che sono l’intercalare che mette in risalto l’elemento della nostalgia volto a “celebrare la tua odissea”, non è una sorpresa che una delle questioni ricorrenti (e irrisolte) in Danze di guerra è “Siamo arrivati?”. Una destinazione la si raggiunge, ed è per certi versi definitiva, ma ha sempre la forma del dubbio quando Sherman Alexie, concludendo Agghiacciante simmetria, si chiede: “Avrò il coraggio di entrare nel buio di un cinema, tenere per mano una donna bellissima e innamorarmi ancora della mia innocenza?”. Inafferrabile come una canzone, sinuoso quanto un crotalo (e non meno pericoloso), Danze di guerra ha gli stessi effetti di un’improvvisa frustata di vento. Può essere un piacere, o un disturbo, ma le risposte, direbbe un altro poeta, quello premiato con il Nobel, rimangono lì.
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