Quando parte per “la guerra che doveva porre fine a tutte le guerre”, il destino di Robert Ross viene stravolto per sempre. Siamo nel 1915 e già il viaggio dal Canada verso l’Europa è un incubo claustrofobico in una nave zeppa di uomini e cavalli in balia delle onde, ma ad attenderlo ci sono luoghi che rispondono al nome di Ypres e Verdun, un mare di fango, un sudario di morte e una follia diffusa. Figlio di una famiglia di industriali, Robert Ross si arruola con le migliori intenzioni, credendo nella retorica dell’eroismo, del valore e del protagonismo nel difendere la civiltà, sostenendo che “quello che conta è non cercare di trovare delle scuse per il proprio comportamento, non cercare rifugio nella tragedia, ma chiarire chi sei attraverso il modo in cui hai risposto al tuo tempo”. La convinzione che “le persone si possono trovare solo nelle loro azioni” si scontra ben presto con la brutale realtà della vita in trincea e con l’apparizione di armi spietate. I gas, i lanciafiamme, gli aerei conducono Timothy Findley a suggerire le contraddizioni implicite a ogni evento bellico, sostenendo che: “A: gli uomini non avrebbero mai fatto certe cose; B: non sarebbero stati in grado di farle. Poi le fecero”. Non c’è posto per la tragica elegia dei guerrieri cantata da Wilfred Owen o Siegfrid Sassoon: Robert Ross è testimone oculare del disfacimento di ogni sensibilità che macina corpi dopo corpi, non solo togliendogli la vita, ma anche un senso. Ferito a sua volta, viene ricoverato in una bucolica magione inglese, a St Aubyn, “un mondo antico, confortevole e sicuro, definito da secoli di un procedere flemmatico”. La vita in ospedale lo riconduce a riflettere sulla repentina mutazione che l’ha visto protagonista insieme ai suoi commilitoni, arrivando alla conclusione che “probabilmente in guerra sì è tutti strani. La normalità è una chimera”. A quel punto il racconto si estende ai legami famigliari troncati dagli eventi bellici e a quelli, imprevisti e fragili, che sorgono sul campo. Se è vero che “gli abitanti della memoria vanno protetti dagli estranei”, l’ottica di Timothy Findley non è mai univoca: si divide tra voci, ricordi, impressioni e altre percezioni, distribuite secondo un ordine non del tutto lineare (anzi) che spesso spiazza e disorienta perché sono “i frammenti di un’intera epoca”, quelli in cui si riflette la storia di Robert Ross. Come se fosse davanti a uno specchio infranto per sempre, deve ammettere che “alla fine gli unici fatti che hai sono quelli di dominio pubblico, e di questi ne fai ciò che puoi, sapendo che una cosa conduce a un’altra. A volte qualcuno dimentica se stesso e parla troppo, altre basta l’angolo di una fotografia per rivelare tutto”. La desolazione viene assorbita come un virus feroce e inarrestabile, la resa si manifesta negli odori, nei gesti, nella fatica, nei disperati tentativi di restare a galla, cercando di aggrapparsi a un singolo momento, ormai lontanissimo e irrimediabilmente perduto: “Quelli come voi, nati dopo, non sapranno mai che cosa significava dormire in città sulle quali cadeva silenziosa la neve, quando tutto ciò che si udiva nella notte erano i cani che abbaiavano contro treni che correvano lontani, lungo scorciatoie che fendevano i sogni senza svegliare nessuno. Fu la guerra a cambiare tutto questo. Proprio così. La grande guerra per la civiltà cambiò il sonno”. L’ultimo, accorato appello, nel cupo e tumultuoso finale, recita: “Spero soltanto una cosa: che ricordino che eravamo esseri umani”. Ha l’amarissimo sapore di una sentenza e, insieme, di un avvertimento, ancora attuale, a distanza di un secolo, purtroppo.
lunedì 30 maggio 2022
lunedì 23 maggio 2022
Ernest J. Gaines
All’indomani della fine della guerra civile americana, una bambina fugge, portandosi dietro un pargolo ancora più piccolo, Ned. Come tanti vorrebbe lasciare il Sud per il Nord, ma non sa dove andare. Nel suo viaggio, Miss Jane è al centro di un vortice di sentimenti contrastanti, che collidono ed esplodono in brutali episodi di violenza. Una serie di gironi infernali dove la condizione degli afroamericani, dai saccheggi dei sudisti e poi degli yankee, perché la guerra non fa differenza, dalla povertà, dalle persecuzioni alla fame, dallo sfruttamento alla diaspora alla segregazione, si dipana lungo le memorie di una donna a cavallo di due secoli. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è una sequenza ininterrotta di atrocità dove la sofferenza è endemica, come lascito della schiavitù, e le memorie di Jane Pittman la raccontano senza alcun filtro, proprio come illustrano la vita lungo il fiume e nelle piantagioni. È “il marchio della paura” che resta anche dopo la fine delle ostilità, una fragilità spiegata così da Miss Pittman: “Le persone di colore scrivevano lettere a Washington, a volte certi gruppi si arrabbiavano abbastanza da andarci di persona, ma le truppe non tornarono mai. Gli affari per gli yankee invece arrivarono, e arrivarono i soldi degli yankee per aiutare il Sud a rimettersi in piedi, oh sì; ma niente truppe yankee. Fummo lasciati lì a cercare di sopravvivere”. I martiri sono tanti: Miss Pittman ricorda l’omicidio di Ned che, una volta cresciuto è diventato un insegnante o la storia del governatore Huey P. Long per cui ci si domanda: “Per quale motivo pensano che i ricchi abbiano ucciso Long? Perché ha chiamato negri le persone di colore? Lo hanno ucciso perché ha aiutato i poveri, i poveri neri e i poveri bianchi. Perché i poveri non dovevano essere aiutati, per questo lo hanno ucciso. Il povero deve lavorare. Il povero deve partecipare alle vostre guerre e poi morire. Ma il povero non deve essere aiutato”. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è un ibrido compresso tra un romanzo, un memoriale e un’estrema testimonianza civile: la scrittura è spessa come cuoio e fitta come i canneti delle paludi in cui si nascondono i fuggitivi, ma ha una forza ipnotica. Detto questo, Ernest J. Gaines non si sostituisce a Miss Pittman, anzi: passo dopo passo, le offre piuttosto una voce concreta, capace di stare sempre al centro del racconto, come un magnete, e di espandersi nel professare ogni modo per difendere la dignità, dalla fede al cibo, dall’istruzione al lavoro, dagli inni fino al territorio in cui succede tutto. Il paesaggio, maestoso e terrificante, diventa vivo nelle descrizioni di Miss Pittman: “Un fosso non è niente, nemmeno un bayou è niente. Ma fiumi e alberi sono un’altra cosa, a meno che, ovviamente, non si tratti di un albero del rosario. Chiunque venga sorpreso a parlare con un albero del rosario o con un biancospino deve essere pazzo. Ma quando parli con una quercia che abita qui da tutti questi anni e sa più di quanto tu possa mai sapere, non è follia; è solo un segno di rispetto verso qualcosa che è nobile”. All’alba della storica inondazione in Louisiana del 1927, diventa chiaro a Miss Pittman, così come a Ernest J. Gaines, che “non era il giorno del giudizio. L’uomo si era semplicemente spinto un po’ troppo in là”, e si capisce che non vale soltanto per i fenomeni naturali.
lunedì 16 maggio 2022
John Updike
Quando si trovano sulla spiaggia di Copacabana, Tristão e Isabel sono due estremi che vanno a toccarsi. Lui è un ladruncolo che vive in una baracca insieme a una famiglia derelitta. Lei è figlia di un alto rappresentante della giunta dei generali, accudita dallo zio Donaciano. Succede tutto per caso, ma la scintilla passionale diventa subito una fonte di preoccupazione e di pericolo: l’incontro è un elemento dissonante nel Brasile della Quinta Repubblica, governata dall’esercito, e quando i due ragazzi decidono si sposarsi vengono perseguitati, per ragioni opposte ma convergenti, dai rispettivi parentadi. La frizione tra i due universi, quello bianco, borghese e militare e quello nero, povero e ai limiti della sussistenza, pare sublimarsi nell’avversione al matrimonio di Tristão e Isabel. Le minacce sono reali e incontrovertibili, l’unica alternativa è la fuga, che si spalanca sugli sterminati orizzonti brasiliani. Gli eventi si susseguono con uno spiccato senso per la tragedia umana e John Updike, sprezzante del pericolo di sconfinare nella parodia o in territori ancora più surreali, mantiene un ritmo incalzante e spietato, che costringe i protagonisti a cercarsi e a rincorrersi nelle pieghe del Brasile. Nell’attraversarlo tutto gli tocca affrontare ogni sorta di avversità e Brazil diventa la cronaca serrata di un’ordalia fatta di furti, fughe, disperazione, forza e coraggio generati da un’amore sconfinato e dalla spontanea reazione alla contrarietà, dove non sfugge un certo simbolismo dedicato all’intero Brasile, rappresentato come “una palude umana di desiderio casuale e oblio”. La storia d’amore e poi la precaria famiglia che costituiscono Tristão e Isabel diventano un’odissea, sia nello spazio che nel tempo: a metà strada, l’infinito viaggio precipita in un’altra era, molto più primitiva, “come se il tempo avesse girato un angolo e stesse rotolando giù per la discesa” e nei fortissimi contrasti, con inaudite manifestazioni di violenza, cresce l’amara constatazione che “l’amore era dappertutto, sentiva, ma non risolveva alcun problema. Anzi, ne creava”. È così che il dramma di Tristão e Isabel arriva alla fine, anche se John Updike non fa sconti e riserva una conclusione tutta da scoprire. Non è la leggenda di Tristano e Isotta in salsa tropicale, anche se John Updike ne ammette l’influenza: Brazil è una favola distorta e un’avventura anche per il lettore che si trova spaesato e disorientato dalla forza del racconto e dalle sue vivide immagini, al punto che anche il suo autore ammette che “avanziamo nelle tenebre, e le tenebre si chiudono alle nostre spalle”. Se attorno alla contrastata unione di Tristão e Isabel, John Updike offre un’ampia prospettiva delle contraddizioni della nazione negli anni delle dittature, nell’incalzare del racconto diventa evidente, per dirla con Jorge Amado, che attraversare il Brasile “è come percorrere un intero continente”, ma non sono soltanto le distanze geografiche o morfologiche. È la separazione abissale tra i giovani nelle strade e i vecchi potenti nelle loro abitazioni, tra la povertà dei ghetti con i tetti di lamiera e i grattacieli di São Paulo, con l’architettura di Brasilia come apogeo di quella divisione, ma con ogni probabilità anche come elemento distintivo di un frattura più grande e frastagliata, tra mondi diversi, distanti e opposti collocati dentro gli stessi confini.
sabato 14 maggio 2022
Don Winslow
Nel bel mezzo di Murder Incorporated, Bruce Springsteen cantava: “Ora ti guardi le spalle ovunque tu vada, camminando giù per la strada, ci sono occhi in ogni ombra”. È l’inizio e la fine e, dato che Città in fiamme è il primo capitolo di un’annunciata trilogia, anche il futuro prossimo venturo di Danny Ryan, un affiliato di una gang irlandese nel Rhode Island. Siamo nell’estate del 1986 e, nella realtà, sulla costa atlantica imperversano guerre intestine, anche tra le cosche italiane, e infiltrazioni mafiose nelle principali istituzioni, FBI compreso, cronache nerissime da cui Don Winslow attinge a piene mani per raccontare le Città in fiamme. La storia di Danny Ryan è emblematica, essendo un outsider anche nella propria famiglia: suo padre è una leggenda in disarmo, e ha sposato la figlia del capo che gli concede l’usuale tran tran (racket, estorsione, usura, contrabbando), ma non lo ammette al tavolo dove vengono prese le decisioni che contano. Succede così, che quando nel corso di un party in cui sono presenti tutti, irlandesi e italiani, appare una femme fatale che scompagina la fragile convivenza, si scatena una faida sanguinosa. Comincia con un battibecco tra un barbecue e l’altro e si ingrossa fino a diventare uno scontro per il controllo del territorio (e degli affari) di proporzioni epiche e dagli esiti imprevedibili. Il meccanismo avviato da Don Winslow è potente ed efficace: il cliché del tradimento come ultima spiaggia è fonte di una reazione a catena incontrollabile e il parallelo tra i piccoli e grandi drammi delle vite famigliari e l’essenza schizofrenica dell’esistenza dei delinquenti, è ben congegnato. Lo schema, per quanto intricato, funziona con la precisione di un coltello a serramanico, non lascia molto all’immaginazione e la lettura è avvincente, anche se ben presto traspare un ritmo piuttosto meccanico. Forse Don Winslow insegue la forma sincopata e brutale di James Ellroy (che abita su un altro pianeta) e, senza dubbio, struttura un gran labirinto di personalità, inquadrando alla perfezione la mentalità criminale, che ragiona soltanto in termini di opportunità e decide per istinto (comunque), ma a Città in fiamme così come già ai racconti di Broken manca quella tensione ideale che alimentava Il potere del cane e tutta la trilogia del cartello o, per restare sulla East Coast, è molto lontano anche dalla densità di Corruzione. Detto questo, i personaggi sono caratterizzati da una vena singolare, in particolare quelli femminili (soprattutto la madre di Danny): hanno storie complesse alle spalle, come succede a Pam, la ragazza all’origine dello scontro tra irlandesi e italiani che poi coinvolge un po’ tutti, e hanno un peso determinante nel racconto, anche solo nel far risaltare il lato maschile, ossessionato dal proprio ruolo. Don Winslow conosce a fondo il codice d’onore mafioso e in Città in fiamme lo mette a dura prova, offrendo occasioni un po’ a tutti i protagonisti per incrinarne le fondamenta: dall’adulterio all’omosessualità, dalle risse tra adepti della stessa famiglia al crollo dell’omertà. Nella Città in fiamme succede tutto e il conflitto che si scatena tra le bande è rappresentato a colpi di immagini forti ed è fatto di soluzioni del tutto provvisorie, come ricorda lo stesso Danny Ryan: “Prendi precauzioni ragionevoli, controlli spesso il retrovisore, tieni la pistola a portata di mano e ti guardi sempre intorno. Dopodiché vivi la tua vita”. Funziona così, e non c’è molto di più.
giovedì 5 maggio 2022
Martin Scorsese
Le conversazioni fluttuano liberamente, al punto che i film paiono come boe attorno alle quali ruota tutto il resto, dalla vita privata a quella professionale, dai successi ai fallimenti, da Tagli e angolazioni al Disegnare sogni fino alla sua predisposizione a Restaurare e collezionare i film, con l’idea “che possano cambiare la vita di qualcuno”, proprio come hanno cambiato la sua. Addentrarsi nel cinema di Martin Scorsese con Richard Shickel è come entrare in un luna-park tutto da scoprire, con un sacco di diramazioni e di sorprese. Passano tutte attraverso l’obiettivo della macchina da presa, come è logico che sia, ma l’ossessione per le inquadrature, per le prospettive e per le luci dipendono dal fatto che al cinema vengono (giustamente) attribuite delle proprietà fantastiche (“Credevo ancora nella magia del cinema. Mentre la magia non esiste, la devi creare tu”) che poi si trasmettono nei rapporti con gli attori, a partire da Robert De Niro, con le storie e con le immagini, con la musica (a cui dedica un intero e interessantissimo capitolo, che spazia dal rock’n’roll alla lirica al jazz, ben oltre la destinazione naturale delle colonne sonore) e con i tentativi di “sperimentare più radicalmente con la forma e con il contenuto”, come scrive Richard Shickel nell’epilogo. Si nota subito quanta teoria e quante riflessioni stanno dietro ogni singolo film, a partire dalla ricerca legata all’infanzia e alle proprie radici perché, come dice lo stesso regista, “ci sono sempre padri e figli, e ognuno deve all’altro qualcosa. Ci sono la fiducia e il tradimento”. Sono due delle principali ossessioni attorno a cui ruota la sua filmografia (basta pensare a The Departed, giusto per citarne uno) e il richiamo a un’età acerba e a territori ancora da esplorare è continuo, come annota Richard Shickel: “Martin ripete esattamente ciò che faceva quando era un ragazzino: non sapeva neanche di voler diventare un regista, e disegnava i suoi filmini su un taccuino, per poi mostrarli magari a un amichetto. Se c’è una cosa che penso di avere imparato su di lui nel corso di queste conversazioni, o che comunque ha evidenziato con insistenza, è la forza che il passato esercita su suo lavoro”. È una convinzione che viene confermata anche da Martin Scorsese quando dice che spesso “i film sono solo dei grandi ripensamenti” e nel dialogo con Richard Shickel, che è fitto, concentrato e fluido nello stesso tempo, non si tira mai indietro. Si vede che c’è comprensione e anche un minimo di complicità con il suo interlocutore, al punto che arriva a fargli confessare: “Mi prendo troppo a cuore i film che faccio. A volte ci metto dentro troppo di me stesso”. D’altra parte gli interventi di Richard Shickel sono limitati a organizzare il confronto, ma negli spazi che rimangono riesce a cesellare le giuste indicazioni critiche, utili a districarsi nelle moltitudini di sollecitazioni scatenate da Martin Scorsese: “Ciò che mi colpisce più a fondo è che nei suoi film arrivano a solide conclusioni dal punto di vista narrativo, ma rimangono aperti. Ci si chiede sempre che cosa succederà ai personaggi sopravvissuti. E si pensa che probabilmente non saranno pienamente soddisfatti dei loro destini”. L’happy end è escluso, e questo è noto almeno da Taxi Driver in poi, e del resto anche Conversazioni su di me e tutto il resto è, come dice Richard Shickel, il rendiconto di “un lungo viaggio ancora incompiuto”, che è destinato a durare nel tempo.
martedì 3 maggio 2022
Joyce Maynard
Il responsabile del disastro dello shuttle Challenger nel 1986 fu un minuscolo dettaglio, il cedimento di una guarnizione di gomma. La forma circolare spezzata ha tutta una valenza simbolica da non dimenticare anche perché è uno degli episodi storici che sottolineano la vita di Eleanor insieme all’omicidio di John Lennon, l’8 dicembre 1980 e alla morte di Lady Diana nell’agosto 1997. Gli anni sono scanditi dalla musica, che offre un raffinato ordito alla trama composto, tra gli altri, da Joni Mitchell (Blue, e River in particolare), Michael Jackson (Thriller), e Bruce Springsteen (Born In The USA), Al Green e Otis Redding, i Grateful Dead e i Guns N’ Roses, ma nel nome di Eleanor c’è già tutto se si pensa al ritornello di Eleanor Rigby: “Tutte le persone che sono sole, da dove vengono tutte? Tutte le persone che sono sole A che terra appartengono tutte?”. Sono le domande che il romanzo ribadisce capitolo dopo capitolo perché Eleanor, che è diventata adulta in fretta creando, da illustratrice, mondi fantastici, insegue con caparbietà il “desiderio impossibile” di una famiglia felice. Comincia, da sola, con una fattoria nel New Hampshire, non lontana da un fiume con tanto di cascata e adeguata con un laghetto artificiale. La collocazione geografica la rende una sorta di Walden familiare, ma i tratti idilliaci sono screziati dall’intrusione continua della realtà. L’ideale di bellezza, che per Eleanor coincide essenzialmente con l’estensione della maternità, si scontra con i naturali incidenti di percorso, i caratteri e le personalità emergenti dei figli, un marito gentile, affascinante, ma inconcludente, fino ad arrivare al punto di considerare, molto pragmaticamente, che “nessuno ottiene mai tutto nella vita. Bisogna scendere a compromessi”. Il prodigarsi di Eleanor, che è una mamma al cubo, onnipresente e generosa (fin troppo) non la garantisce dalle intemperie, a partire dal tradimento del consorte e dalla conseguente separazione. La svolta spezza a metà la storia e dalla condizione bucolica della fattoria, Eleanor si ritrova in un paesaggio urbano, dove esplora ogni forma di solitudine e il dolore del confronto con i figli che, come e più di lei, cercano di sopravvivere alla famiglia e/o alla sua disintegrazione. Tra due estremità c’è soltanto “la capacità di trovare il perdono”, come dice Joyce Maynard, che viene distillata come un dono segreto e irrinunciabile. È l’ingrediente che non viene svelato in modo esplicito: emerge via via che Eleanor cerca di chiudere un cerchio, tenendone insieme i pezzi. È proprio per quello che il ritmo della scrittura ha un andamento ipnotico. Joyce Maynard non inventa nulla, non cerca particolari torsioni stilistiche, non forza le ricerche linguistiche e spesso ripropone luoghi comuni lucidati e rimessi a nuovo. E, salvo distinguere le singole voci dei personaggi, il tono è sempre lineare, moderato, come se il romanzo fosse un unico, infinito piano sequenza, senza stacchi o dissolvenze. Ma la costruzione è serrata, ogni pagina chiede e ottiene attenzione, ed è impossibile non parteggiare (e commuoversi) per Eleanor, o per Al, o per Ursula, perché le loro emozioni sono vivide, e ci toccano, perché sono le nostre. L’effetto è, per parafrasare la descrizione di uno dei lavori grafici di Eleanor, quello di “un quadro onesto, carico d’amore ma non di sentimentalismo, della vita di una famiglia” che comprende unioni e separazioni, gioie e tristezze, tumulti e silenzi, piacere e dolore, e il più delle volte basta poco, un sasso, un anello, un temporale, poche battute di una canzone per cambiare tutto.
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