Parafrasando il titolo del disco più famoso dei Talking Heads, Remain In Light, Chris Frantz, che insieme alla moglie Tina ha fornito la struttura portante, affida a un memoir il lungo racconto delle gesta artistiche e delle peripezie famigliari. La passione per la musica e per l’arte in età giovanile, il senso per il ritmo, la prima batteria, gli inizi nei loft di una New York in fiamme, sporca e pericolosa, il CBGB con Patti Smith, i Ramones, i Television, la Factory con Andy Warhol che “era il più famoso degli artisti, vivi e morti”, i primi contatti con l’industria discografica, Pyscho Killer, la vita on the road, i successi (non pochi) e le sconfitte (altrettante) si alternano senza soluzione di continuità. Prendendolo così com’è, senza pretese e sapendo che si tratta pur sempre di una prospettiva del tutto personale, Remain In Love è una lettura piacevole e molto aderente alla realtà dei Talking Heads, che sono stati una rock’n’roll band atipica, ma con un’importanza capitale nella ricerca e nell’evoluzione dei suoni e delle immagini, compresa la deviazione nella breve e fortunata esperienza dei Tom Tom Club. Detto questo, Chris Frantz è ben lontano da considerarsi uno scrittore e la ricostruzione è cronologica, senza particolari sbalzi e anche un po’ meccanica. Lo schema passa dai Talking Heads alla relazione tra Chris Frantz e Tina Weymouth che viene riportata di continuo al centro dell’attenzione. L’adorazione del marito verso la moglie, ed entrambi colleghi nei Talking Heads e nei Tom Tom Club, non è in discussione, ma lo stile è una stratificazione di aneddoti e non va molto più in là di una scrittura elementare, compreso il tono melenso quando parla della consorte. Se bisogna riconoscere a Chris Frantz una certa onestà di fondo, va detto che Remain In Love non supera i limiti congeniti dell’autobiografia. Il racconto, almeno dal punto di vista della prosa in sé, è troppo limitato: lo stile resta a metà strada tra un diario di viaggio e la cronaca di una rivista specializzata. I resoconti dei tour, eccessi e avventure compresi, sono anche accattivanti, ma restano ancorati all’epica punk e rock’n’roll, senza che Chris Frantz si preoccupi di approfondirne le principali tematiche. Così, Remain In Love si traduce in un susseguirsi ininterrotto di session, tour, backstage, soundcheck e incontri e scontri. Al suo attivo va senza dubbio aggiunta una congrua dose di sincerità visto che, se in via generale la sua versione dei fatti è bonaria un po’ con tutti, non manca di evidenziare i contrasti e le difficoltà con David Byrne, Johnny Ramone, Brian Eno, Phil Spector o gli Happy Mondays così come racconta senza alcuna censura il piano inclinato della dipendenza dalla cocaina, uno dei tanti benefit offerti dallo showbiz. Remain In Love è accomodante, o almeno prova a esserlo, inserendo in parallelo alla tortuosa vita dei musicisti, l’idea di una famiglia solida che alla fine si ritrova a veleggiare tra i Caraibi e la costa atlantica, suggerendo a Chris Frantz una spicciola metafora: “Si potrebbe dire che abbiamo navigato per anni per il mondo inesplorato dell’arte e del rock’n’roll, superando tempeste, acque agitate e maree mutevoli”. La barca galleggia ancora, ma all’orizzonte è calma piatta.
mercoledì 24 gennaio 2024
mercoledì 17 gennaio 2024
Robert Greenfield
Jessica Lange, una che l’ha conosciuto molto bene, ha saputo ravvisare in Sam Shepard “quella sregolatezza, quella sregolatezza tipicamente americana”. Il tratto che si distingue in questa corposa e a suo modo definitiva biografia è proprio quello e si sviluppa fin dalle prime battute, dove Robert Greenfield racconta: “Quando Sam Shepard stava crescendo, la California era ancora la nuova frontiera dove tutto sembrava possibile, il vero West dove prevaleva ancora lo spirito del fuorilegge. Negli anni, questa sensibilità permeò il suo lavoro, consentendogli di mettere in scena una visione della vita americana mai vista prima sul palco”. Il rapporto conflittuale con il padre, un ufficiale dell’aeronautica militare reduce dalla seconda guerra mondiale, e il suo alcolismo saranno una costante, così come le fughe repentine e senza meta. Un’inquietudine che ha trovato il suo approdo naturale a New York, dove Sam Shepard comincia a scrivere: “C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Non intendo farla passare per un’allucinazione, ma di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi sono limitato a mettere per iscritto”. Non si è fatto mancare nulla: Patti Smith a Joni Mitchell nel turbinio del Rolling Thunder (dove Dylan appare in una stanza per poi ricorrere ovunque fino alla fine), Londra e Zabriskie Point, gli Holy Modal Ramblers e Paris, Texas, più di tutto la drammaturgia dalle minuscole sale del Lower East Side al premio Pulitzer, fino alla definizione del critico teatrale Michael Smith, per cui “la sua voce è distintamente americana ed è sua e di nessun altro”. Refrattario alle lusinghe dello showbiz, per tutta risposta al successo delle sue opere, Sam Shepard si è comprato una chitarra Stratocaster con il primo contributo della fondazione Rockfeller, giusto per qualificare la geografia di un indomito sognatore. Lì si addentra Robert Greenfield, che non ha soltanto una gran dimestichezza con il rock’n’roll, materia che ha bazzicato a lungo e che permea tutta la vita di Sam Shepard. Ha anche il pregio, non relativo, di una certa empatia con il protagonista. Una caratteristica non così scontata e quanto mai necessaria vista le turbolenze biografiche che si appresta a raccontare. Robert Greenfield lo fa con un tono molto rispettoso, ma senza esclusione di colpi, cercando di dare voce a Sam Shepard attraverso i suoi personaggi, quelli teatrali e quelli dei racconti e dei romanzi. Una saggia decisione perché Sam Shepard delegava alla fiction molte delle sue evoluzioni esistenziali, anche se Robert Greenfield ammette: “Non è mai stato facile da descrivere né da capire. Complicato e complesso sia come artista che come uomo, ha creato opere di prim’ordine pur rimanendo sempre un enigma, non solo per gli altri, ma anche per se stesso”. Lo stesso drammaturgo conferma l’impressione in una corrispondenza con l’amico Johnny Dark dove scriverà il 28 novembre 1983: “So di avere due parti in me che sono proprio incompatibili. Una è totalmente indisciplinata & vuole solo darsi all’avventura... E l’altra parte ha quest’aria da vita ordinata e disciplinata”. La contraddizione avrà riscontri dolorosi e in qualche modo curiosi, insiti già nel vero nome, Steve Rogers, che è lo stesso di Captain America, come se fosse una versione strampalata dell’eroe di Brooklyn. Ancora di più quando in Uomini veri interpreta Chuck Yeager, forse il più famoso pilota americano, lui che ha sempre odiato volare, preferendo guidare per migliaia di chilometri e chilometri, da costa a costa, in cerca di un luogo o di qualcosa mai ben definito, con Hank Williams nello stereo e le mani strette al volante. Puro movimento, finché un giorno, poco prima di tirare il sipario, Sam Shepard ha confessato: “Siamo diventati un’opera di Beckett... Sì, un’opera di Beckett”. L’assurdità della catastrofe acquista un senso in un frutto impazzito che, di motel in motel e di strada in strada, si è portato dietro un elenco spettacolare di attori e registi che si sono formati nelle sue pièce: Tommy Lee Jones, Gary Sinise, John Malkovich, Ed Harris, Ethan Hawke, Harvey Keitel, Sean Penn, Nick Nolte, Philip Seymour Hoffman, nonché l'intero immaginario di un’America che “non c’è più” e che forse è esistita soltanto nel gran teatro della sua mente.
lunedì 15 gennaio 2024
Will Hermes
Dopo aver ascoltato Lou Reed per la prima volta, Suzanne Vega ha detto: “Cominciai a capire che potevo sperimentare. Si poteva scrivere una canzone senza un ritornello né una melodia. Non c’erano vincoli”. Sì, Lou Reed è stato l’artefice di una rivoluzione copernicana e Will Hermes ha bisogno di una biografia notevole e imponente per spiegarlo. Sono settecento pagine abbondanti e non tutte paiono così indispensabili: la ricostruzione delle radici famigliari che nei secoli arrivano fino in Polonia è macchinosa e fin troppo dettagliata. È vero che la cultura mitteleuropea avrà un peso significativo nell’espressione di Lou Reed, ma la sua proiezione verso il futuro meritava un altro slancio che viene compresso tra l’elettroshock, Delmore Schwarz, l’università e le origini primordiali di una personalità complessa. Con l’arrivo dei Velvet, la storia prende tutto un altro ritmo. Hanno cambiato il volto del rock’n’roll e Will Hermes puntualizza che per loro “l’attitudine estetica punk era un modo per sopravvivere in un mondo che voleva a tutti i costi ucciderti: il punto non era glorificare il punk, e neanche mandare affanculo il mondo, ma essere onesti sulle strategie che le persone adottano in una situazione disperata”. Lou Reed è davvero l’interprete di quel salto nel vuoto e aveva ragione John Cale: “Scriveva di cose di cui non parlava nessuno”. Su questo Will Hermes si spende con generosità ricamando a lungo sulle qualità letterarie di Lou Reed. Nessun dubbio, in proposito, inclusa l’influenza di Andy Warhol sui Velvet Underground: “Dal punto di vista estetico, Warhol sicuramente rafforzò e probabilmente amplificò l’idea di Reed di trovare la bellezza nel brutto, nel banale, nel vituperato e nel disprezzato; Warhol condivideva la predilezione di Reed per la ripetizione, il rumore, la distorsione e la frequente aspirazione alla trascendenza”. New York è limitata a una parte, il Lower East Side, come territorio in cui si incrociavano le tensioni di “una città che in fondo rispetta solo gli imbrogli”. Una definizione quanto mai pertinente, fin dalle prime esperienze nel music business, un mix tra ladrocinio e passione che come al solito Lou Reed affrontò a modo suo e che si può riassumente con una presentazione dal vivo dei Velvet Underground: “Non voglio che nessuno di voi ascolti le nostre canzoni in modo superficiale, perché sarebbe contro la politica nazionale, che fa pure rima, comunque. I poeti sono fatti così”. Patti Smith non comprendeva “l’intensità” di alcuni tratti come scrive in A Book of Days perché Lou Reed sapeva essere una bella spina nel fianco (eccome) e Will Hermes non risparmia nulla: i matrimoni e le separazioni, i contrasti con i manager e i discografici, i litigi con i musicisti, dai Velvet in avanti, la necessità di avere il controllo di sé, del suo lavoro e del suo personaggio. Interessante il parallelo con Frankenstein e Mary Shelley, anche lui una creatura che si ribella al proprio creatore solo che nel caso di Lou Reed le due figure coincidevano tant’è che Will Hermes lo definisce “un ventriloquo compassionevole che sembrava sempre intento a comprendere se stesso e il suo soggetto”. È proprio nel passaggio dai Velvet a Lou Reed che si addensa la popolazione che affolla la sua biografia: David Bowie, Jim Carroll, Jonathan Richman, Lenny Kaye, Iggy Pop, Lester Bangs, la stessa Patti Smith. Dalle gestazioni di Transformer e Berlin in poi, disco per disco, c’è tutto: la reunion provvisoria dei Velvet e la tragica storia di Nico, Doc Pomus, l’omaggio a Edgar Allan Poe e l’incontro con i Metallica. Al centro c’è comunque la personalità tormentata di Lou Reed, il tentativo di limitare i danni (“Mi hanno detto che devo sorridere quando dico una battuta. Così mi sto allenando”) poi i riconoscimenti (tardivi), l’incontro con Laurie Anderson e gli ultimi, drammatici momenti. Resta la brutale bellezza di New York, (l’album e la città, insieme) e in particolare la puntualità di Halloween Parade, come dire la nemesi di tutto un demi monde cominciato con Walk on the Wild Side e finito con le fosse comuni per l’AIDS nel Bronx, per non dire dell’11 settembre. Quella mattina, Lou Reed commentò: “Siamo a New York, sono cose che capitano”. Incredibile.
lunedì 8 gennaio 2024
Rachel Carson
Il silenzio tra le dune, i suoni negli abissi, le rotte segrete delle anguille, i movimenti dei molluschi, lo stupore di fronte a un’onda, a uno scoglio, a una conchiglia: Rachel Carson parte e ritorna all’oceano che “è una presenza immediata, perentoria, impossibile da ignorare”. È all’inizio di tutto ed è anche una parte consistente di Una favola per il futuro, perché “il vero spirito del mare non risiede nell’onda delicata che lambisce una spiaggia balneare immersa nella luce del sole d’una giornata estiva. Piuttosto, è in una costa solitaria all’alba o al tramonto, oppure nel buio d’una tempesta o della mezzanotte, che percepiamo un qualcosa di misterioso e lo riconosciamo come realtà del mare”. La sua contemplazione, a cui Rachel Carson dedica una vasta gamma di descrizioni, ci fa capire che “il tempo è come il mare, contiene tutto quando ci ha preceduti, prima o poi ci spazza via sommergendoci e lava e cancella le tracce della nostra presenza”. Questa dedizione marina è un’ouverture quanto mai pertinente nel complesso di Una favola per il futuro: si tratta di una corposa antologia di articoli, discorsi e lettere comprensiva delle introduzioni a Primavera silenziosa e a Il mare intorno a noi che offre un punto di vista intimo del lavoro e dell’espressione letteraria di Rachel Carson. Materiali che provengono da uno spettro molto ampio della vita e della sua carriera e sono raccolte in un volume curatissimo da Linda Lear, già sua biografa. Per la loro estensione rappresentano un’efficace panoramica della percezione di Rachel Carson e della sua premura rispetto alla conservazione e alla protezione dell’ambiente. Se la biologia è solo l’inizio, il mare è il punto di partenza, ed è la fonte primaria di ispirazione per Rachel Carson così come lo è stato per la vita in generale. A bordo di un peschereccio, nelle Everglades o lungo una costa atlantica, il punto di vista somma la scrittura scientifica e quella più narrativa, gli aspetti razionali e quelli emotivi. Le descrizioni sono appassionanti, non di rado poetiche, e prediligono “meraviglia e umiltà” tant’è che il rapporto con il mare non è soltanto metodico: c’è un processo di identificazione e di riflessione che si protrae nelle esplorazioni di Rachel Carson. La generazione della vita nell’acqua del mare resta un mistero anche per lei, e la ricerca di una risposta passa attraverso una prosa essenziale e spontanea: “La materia della scienza è la materia della vita stessa. La scienza è parte della realtà della vita; è il cosa, il come e il perché di tutto quello che ricade nella nostra esperienza. È impossibile capire l’essere umano senza comprendere il suo ambiente e le forze che lo hanno forgiato, fisicamente e mentalmente”. Comprendere la biologia nella limpida spiegazione di Rachel Carson “significa capire che il flusso della vita, che scorre da un passato indistinto verso un futuro incerto, è in realtà una forza unificata, benché composta da un numero e una varietà infiniti di vite separate. Nella sua essenza, la vita è vissuta allo stato libero”. Questo è vero così come la certezza che “fin dall’inizio del tempo biologico, vi è stata la più intima interdipendenza possibile tra l’ambiente fisico e la vita che esso sostiene”. Detto questo, un tratto comune e ricorrente in Una favola per il futuro è l’urgenza di avvertire un pericolo, oggi più necessaria che mai: “Il genere umano si è spinto molto lontano, in un mondo artificiale di sua creazione. Ha cercato di isolarsi, nelle sue città di acciaio e cemento, dalle realtà della terra, dell’acqua e del seme che germoglia. Ebbro nel percepire il suo stesso potere, sembra spingersi sempre oltre, in nuovi esperimenti per la distruzione del sé e del suo mondo”. Nel tentativo di riportare l’attenzione alle corrispondenze e i vincoli naturali, Rachel Carson si prodiga nel sollevare le questioni ambientali, della condivisione e della tutela del pianeta su cui viviamo, dagli sforzi in difesa a Primavera silenziosa fino agli ultimi giorni, e sono avvertimenti sempre validi. Nella ricca composizione di Una favola per il futuro c’è però spazio per un ennesimo, piccolo gioiello: lo script per un programma televisivo sulle nuvole, che riesce a sommare una rara e preziosa capacità divulgativa con una grazia unica, e allora ricorrono le parole di Richard Jefferies quando diceva: “Le ore in cui la mente è assorbita dalla bellezza sono le uniche in cui viviamo veramente. Tutto il resto è illusione, o mera resistenza”. Se c’è Una favola per il futuro si trova lì, e da qualche parte, là in mezzo al mare.
mercoledì 3 gennaio 2024
T. C. Boyle
Il senso delle proporzioni e il gusto della prospettiva dell’architettura di Frank Lloyd Wright non hanno trovato altrettante corrispondenze nella sua storia sentimentale e famigliare. Rileggerne la figura attraverso Le donne è un processo molto interessante che permette a T. C. Boyle di allargare la visuale e nello stesso tempo di sfoderare un ritmo con una cadenza jazzistica che non concede un attimo di tregua. La teatralità dei personaggi, proprio a partire dalle tre mogli (Kitty, Miriam, Olgivanna) e senza dimenticare la relazione con Mamah, garantisce carburante a sufficienza, anche se in sostanza lo schema un po’ si ripete: l’amante e/o la consorte di turno entra nella vita di Frank Lloyd Wright e la mette a soqquadro e da lì T. C. Boyle, prendendosi tutte le licenze necessarie catalizza l’attenzione. La prosa, ricca, avvincente e perfettamente mirata, comprende i continui eccessi, gli alti e i bassi, i colpi di testa, tutti gli aspetti emotivi che, non di rado, in mezzo ai drammi matrimoniali, diventano comici e surreali. Le esagerazioni della narrazione di T. C. Boyle corrispondono alla complessità della figura di “Frank Lloyd Wright, il grand’uomo, incantatore di stranieri, seduttore di donne, dio del proprio universo”, volitivo e pantagruelico, eppure “sempre sull’orlo del disastro, economico e professionale”. Un’esistenza costellata da trasferte (memorabile quella in Giappone) coincidenze, casi e destini, turbolenze e risse, che trova nel feudo di Taliesin nel Wisconsin il luogo d’elezione dove, a seconda del momento specifico, prendono forma l’ordine e/o il caos. Sato Tadashi, il protagonista e narratore che ci guida tra Le donne, uno dei tanti apprendisti che hanno condiviso gli spazi e il volubile clima attorno a Frank Lloyd Wright lo illustra così: “Quella era casa mia, la mia casa ideale, se il mondo fosse stato un posto migliore e a governarlo fosse stata l’estetica invece che la necessità. E la crudeltà”. È proprio da lì che T. C. Boyle fa partire il viaggio a ritroso nel tempo e il senso inverso della ricostruzione implica non poche sorprese, a partire dalle repentine apparizioni di Miriam. È inevitabile segnalarla come il personaggio più appariscente tra tutte Le donne di Frank Lloyd Wright. Lei, “un’arpia ingioiellata e con turbante, gli artigli di fuori e le mascelle spalancate in un disumano grido oltraggiato, non cerchiamo e non avremo pietà” è quella che più di tutti sconvolge i piani di Frank Lloyd Wright e si ribella al suo volerla soltanto come “qualcosa di decorativo”. La sua figura coinvolge T. C. Boyle nel renderla così appariscente, compreso il burrascoso e interminabile divorzio che completa il ciclo di matrimoni e separazioni. Il meccanismo a orologeria è ben congegnato con un finale perfetto (che potrebbe essere benissimo l’inizio): Le donne è un lavoro coraggioso che immagina e rielabora i tempi Frank Lloyd Wright anche se, alla fine, “la questione, la questione dell’amore, rimase senza risposta, allora e in seguito”, e su questo non c’è ombra di dubbio.
martedì 2 gennaio 2024
Saul Bellow
“La bellezza è solo per i coraggiosi” scrive Saul Bellow e per inoltrarsi in Ne muoiono più di crepacuore bisogna mettere in conto una prova e insieme un’esperienza dovuta al fatto “che l’essere umano non riesce a chiudere intorno a sé l’indumento che ha scelto. Forse l’artista non riesce ad abbottonarsi bene per via degli obblighi che ha verso il suo prossimo”. Il protagonista, lo zio Benn è a suo modo un eccentrico e un outsider, per quanto apprezzato e appassionato botanico, nonché libero pensatore. Le conversazioni tra Benn e il nipote Kenneth sono l’occasione per trasformare la storia in un delirio (molto) teatrale: l’intricato ménage genera un flusso incontrollabile, dove il linguaggio si riversa in mille rivoli. Il ritmo della scrittura non perde una battuta nemmeno per sbaglio: è un fluire costante, un florilegio di argomentazioni e di divagazioni senza sosta, come se ci fosse una corrente alternativa che comprende Billie Holiday ed Edgar Allan Poe, Psycho e che tende a “creare una coscienza”, primo e importante passaggio evolutivo di cui tenere conto. Diceva Saul Bellow del suo eroe per caso: “Lo zio è una persona vera. Non devia mai dalla sua natura originaria” e, conseguenza diretta e immediata, “desiderava era di vivere tranquillo, due esseri legati l’uno all’altro dall’amore e dalla tenerezza: è questa una meta universale”. L’incontro, e poi il matrimonio, con Matilda solleva un vespaio incredibile laddove “se ne conclude insomma che uomini e donne sono decisi a ottenere (o a strappare) gli uni dagli altri ciò che non si può ottenere in nessun modo”. La liaison è particolarmente tormentata: se è vero che “l’amore è uno di quei poteri dell’anima non soggetto a coscrizione. Crea la bellezza, crea la forza: certe volte per scopi speciali, quando è veramente ispirato, crea addirittura dei nuovi organi. Senza l’amore, la coscienza critica riduce il prossimo nelle sue parti costituenti, lo disintegra”, è altrettanto necessario notare che “Benn era un artista delle piante che non era qualificato per diventare un artista dell’amore”. Gli intrighi che avvolgono Matilda e la famiglia spostano l’attenzione verso l’economia e la politica americane, dove “la maggior parte delle persone sono costruite, per lo più da loro stesse” e qui il tono della commedia e il sarcasmo pungente riescono a evidenziare molto bene certi processi: “Visti così, nero su bianco, i fatti erano terribili. Nessuno dava la minima importanza allo zio quando rimaneva un innocuo eccentrico con il pallino della morfologia, non più preoccupante di uno che vada in giro a registrare versi d’uccelli, ma non appena fa una mossa per salire a un livello sociale più significativo, ecco che attira l’attenzione di gente il cui interesse sarebbe meglio non risvegliare”. Funziona così e la sfida è vivere “nel mezzo di un grande frastuono politico” con un minimo di lucidità che di sicuro a Saul Bellow non è mancata: “Anche gli USA, questa enorme impresa post-storica che regge i nostri destini, perdeva di slancio, s’afflosciava, si faceva molle. A questo punto affiorò dentro di me l’orribile sospetto che il prezzo del dinamismo degli USA fosse più alto di quanto non avessi calcolato”. L’identità non è solo una questione nazionale (“Che altro è infatti la vita in una moderna democrazia, se non la ricerca di un modello da interpretare? Nessuno dice: voglio essere me stesso. Tutti dicono: vediamo chi scegliere di essere”) e Ne muoiono più di crepacuore è un libro scomodo, enorme, per come si sviluppa, per come circonda il lettore e scava nelle interazioni personali e politiche senza falsi pudori. Un romanzo tortuoso e provocatorio, inesauribile e pirotecnico, e spesso e volentieri disorientante, ma che apre uno squarcio sul mondo moderno, come pochi altri sono riusciti a fare, quando Saul Bellow sentenzia: “Il segreto nel nostro essere chiede ancora di venire svelato. Solo adesso capiamo che arrovellarsi per risolverlo e rigirarlo su tutte le parti non serve a nulla. Il primo passo è di fermare queste oscillazioni della coscienza che mi tengono sveglio. Solo, prima di ordinare alle oscillazioni di fermarsi, prima di pagare il conto e di andarsene, bisogna porsi in una posizione tale per cui i sussidi metafisici possano avvicinarci”. Se da una parte il sistema si autotutela e muta come un virus per salvaguardarsi (“Tutti i regimi sono più o meno fatti così. Grandi inquisitori che proteggono la fragile moltitudine”), dall’altra viene in soccorso la fantasia “proprio perché il mondo comune, il mondo cosiddetto normale, ci spinge in quella direzione con le maree irrazionali che vi penetrano”. Oggi più attuale che mai.
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