Ron
Kovic è un testimone vivente di ciò che fa la guerra: non spezza
soltanto i corpi, come ha fatto con il suo, ma spacca anche il
concetto stesso di nazione, di una visione comune e condivisa, di un
posto da abitare insieme, di un ideale. L’espressione in Nato
in quattro di luglio è
funzionale a rappresentare questa ferita ed è sempre e soltanto
nuda, diretta e del resto tante formalità non servono, almeno in
questo caso. Il diario di Ron Kovic è grezzo, traballante, modesto,
sgraziato: la forza è tutta nell’urgenza della dolorosa
testimonianza, nella ristrutturazione di una metamorfosi costellata
dai luoghi comuni americani che crollano uno dopo l’altro. Ronnie
Kovic è Nato
il quattro di luglio per
cui il compleanno “era un giorno di festa per tutto il paese” e
cresce poi nel mito di John Wayne, dei marines, di American
Pie e
di The
Star Spangled Banner nonché
di Elvis la cui epocale apparizione è ricordata così: “Ricordo
Elvis Presley all’Ed Sullivan Show e mia sorella Sue che diventava
matta e saltava su e giù per il salotto. Lui pizzicava le corde
della chitarra e muoveva le anche, ma per qualche ragione lo facevano
vedere soprattutto dalla vita in su. Mia madre era seduta sul divano,
con le mani in grembo come se pregasse e mio padre stava in un’altra
stanza e diceva che domenica in chiesa ci avevano avvertiti che
guardare Elvis poteva indurci al peccato”. L’immagine a metà di
Elvis non è un caso: Ron Kovic si arruolerà nei marines
(l’addestramento coincide con la ricostruzione di Full
Metal Jacket)
e dopo essere rimasto ferito in Vietnam, nel 1965, Ron Kovic rimane
paralizzato dal bacino in giù e si ritrova nella drammatica
condizione di veterano e reduce di una guerra che pochi comprendono e
nessuno più vuole. Il ritorno a casa è un calvario, in cui lo
stesso Ron Kovic si concede ben poca pietà. Il suo nuovo nemico e
infine il suo migliore alleato sarà la solitudine: “Sono rimasto
solo, ancora una volta. E’ almeno un mese che sono nella stanza 17.
Mi hanno isolato perché sono molesto e importuno. Ho litigano con
l’infermiera del reparto. Ho chiesto che mi facessero fare un
bagno. Ho chiesto che pulissero il vomito dal pavimento. Ho chiesto
che mi trattassero come un essere umano”. Le prime, elementari
rivendicazioni portano a compilare un diario di sofferenza e di
dolore perché “ci aggrappiamo a noi stessi, alle cose attorno a
noi, ai ricordi, ai pensieri, ai sogni”, pagine scarne e lapidarie
che si evolvono per gradi, senza soluzione di continuità, dalla
disperazione alla consapevolezza. Per Ron Kovic, ferito, dimezzato,
“l’amarezza di essere stato imbrogliato” diventa il carburante
che lo trasforma in un simbolo della guerra Vietnam, del tragico
fallimento americano: un’icona che viaggia sulle quattro ruote di
una carrozzella, una voce stonata nel coro della maggioranza
silenziosa, una fugace crepa che si allarga fino alla sigla di Del
Shannon che presta Runaway per
mettere un ultimo segno all’epilogo. Un punto di domanda che pesa
ancora oggi.
domenica 28 aprile 2013
giovedì 25 aprile 2013
John Cheever
La differenza tra giustizia e condanna è il varco in
cui precipita Ezekiel Farragut. Per la legge è colpevole di aver ucciso il
fratello in un raptus di follia, crimine che forse ha dimenticato o rimosso o
che riteneva inevitabile. Oggi le condizioni del prigioniero di Falconer sarebbero giudicate sintomi o effetti del disturbo
post-traumatico da stress, essendo Ezekiel Farragut un veterano della seconda
guerra mondiale e un professore universitario e sono quelli i veri motivi della
sua pena, la “tossicomania” e i “disordini sessuali”. John Cheever lo mette
subito, nero su bianco, nelle prime pagine di Falconer, quando Ezekiel Farragut
viene destinato al peggior lato del carcere (ammesso che ne esistano di
migliori): “Ti hanno messo nel braccio F, F come fregnoni, fanatici, folli,
figli di puttana, fessi, fantasmi, facce di merda, finocchi, fetenti. E come
tante altre cose che ora non ricordo. Quello che ha steso la lista è morto”. La
durezza della prigionia, la quotidianità collettiva condivisa con ricordi e
presenze che evocano crimini efferati, l’assenza di pietà e la fredda essenza
dei muri e delle sbarre sono una parte fondamentale di quella che John Cheever
chiama la “stupida ostentazione del giudizio”. Per Ezekiel Farragut sono
l’espressione formale di un’associazione spontanea tra ordine e caos, un
contrasto che è il nucleo vitale ed elettrico da cui trae energia. Falconer, il carcere, dentro, diventa il riflesso della
società, fuori, proprio perché come scriveva John Berger “quando raggiungono il
limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure
sfuggono a ogni controllo, che si tratti di quello imposto da un sistema o del
loro controllo su se stessi. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi
nella stessa cella dietro la stessa porta della disperazione assoluta”. La
personalità di Ezekiel Farragut e la sua evoluzione in carcere corrispondono
alla perfezione: è un uomo in bilico, che vive le sue deviazioni sommando nel
minimo comun denominatore autoindulgenza, cinismo e il naturale istinto per la
sopravvivenza. Lo confessa senza sentire il bisogno di aggiungere troppa
enfasi: “A questo punto non ti parlerei sommessamente e pazientemente se non
fossi convinto che matematica e geometria sono un’analogia bugiarda e scorretta
dell’indole umana”. Falconer resta
un romanzo scomodo, tagliente, duro, perfetto nel suo sarcastico finale: è John
Cheever al cubo, è John Cheever e nient’altro. Senza sconti, senza correzioni: “E’
scabro, è elegante, è puro” diceva Saul Bellow di Falconer, dove si trova l’essenza concentrata di quello che
c’è fuori: “Tanti anni fa, quando hanno inventato la bomba atomica, la gente
aveva paura che scoppiasse e facesse fuori tutti; non sapevano che l’umanità ha
nelle budella tanta di quella dinamite da far saltare l’intero merdoso
pianeta”. Dentro (e/o oltre), Ezekiel Farragut sa invece che la sua pena non ha
fine dovendo vivere per sempre con se stesso, la stessa condanna di John
Cheever.
mercoledì 24 aprile 2013
Steve Earle
La
lapidaria intestazione di Non uscirò vivo da questo mondo non dipende soltanto dalla canzone di Hank Williams,
a cui, va da sé, attinge il titolo del romanzo di Steve Earle. Dai i bassifondi
di San Antonio, Texas, non se ne esce né vivi né morti perché sono popolati da
ombre sulle soglie del precipizio, le esistenze consumate dalla droga, dalla
prostituzione, dall’emarginazione, dalla notte, da un coltello, da un
proiettile sparato un motivo qualsiasi, anche nessuno. Doc Ebersole, medico e
tossico dall’ambiguo passato, ha trovato in quegli isolati dove l’età non viene
misurata in anni, ma in chilometri accumulati sulla strada, un rifugio, un covo
dove nascondersi, prima di tutto a se stesso, e poi al fantasma di Hank
Williams. Lo spettro, che incombe ogni volta che l’ago della morfina entra
nella vena, è acido, ostico, irriverente e invadente e irriverente. Vuole
qualcosa e Doc lo sa, così come sembra saperlo Graciela, la giovane messicana
che accende le uniche scintille di redenzione e speranza nella sua vita. E’
l’unica che potrebbe alleviare l’estrema solitudine di Doc, capace di
confessare che “essere soli è una condizione temporanea, una nube che offusca
il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi spostata, fa sembrare i raggi
ancora più luminosi. Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza delle
persone che ami e hai la sensazione che non le rivedrai mai più. E invece le
rivedrai, e quando accade non ti senti più solo. Essere solitari è un’altra
cosa. E’ incurabile. Terminale. Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe
passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande e profondo che nessun
quantitativo di denaro, whisky, fica o droga potrebbe colmarlo, perché l’hai
scavato tu stesso e lo stai ancora scavando a forza di inanellare menzogne,
delusioni e promesse non mantenute”. E’ proprio in quel frangente di Non
uscirò vivo da questo mondo che
affiora la trama dell’autobiografia di Steve Earle, della sua vocazione a stare
in trincea, anche dalla parte sbagliata e di raccontarne il dolore e la
miseria. Per questo è del tutto condivisibile quello che ha scritto Patti
Smith: “Steve Earle riesce a conferire alla sua prosa la stessa autenticità, lo
stesso spirito poetico, e la stessa energia che ispirano la sua musica. Questo
romanzo è come un sogno pieno di bellezza, rimorso e redenzione da cui non puoi
ridestarti”. Proprio come un sogno, in coabitazione con un incubo, viste le
presenze che s’aggirano, Non uscirò vivo da questo mondo è sgranato e sfocato perché Steve Earle si affida
alla scrittura senza particolari mediazioni. E’ uno storyteller più che uno
scrittore, e sulla distanza del romanzo, che sovrappone una o due ambizioni
abbastanza evidenti (il fantasma di Hank Williams incrocia anche l’ectoplasma
americano per antonomasia, JFK), lo stile arranca in cerca di una scappatoia
che non c’è. L’ossessione di Non uscirò vivo da questo mondo sono le mani sporche di sangue e Steve Earle alle
formalità preferisce la polvere, The Hard Way, la sua storia. Imperfetta, onesta, umana troppo umana.
martedì 23 aprile 2013
Wallace Stevens
I
sette frammenti radunati sotto L’angelo necessario sono l’unico esemplare in prosa di Wallace Stevens e
uno strumento vitale per comprendere l’essenza dell’arte. “Una forza capace di
generare fluttuazioni della realtà prive di misticismo è una forza indipendente
dal desiderio che si può avere di innalzarla. Non he ha bisogno. Si deve solo
descriverla, come meglio si può” ed è quello che prova a fare Wallace Stevens
in questi Saggi sulla realtà e l’immaginazione: il poeta, uno dei più grandi poeti americani del
ventesimo secolo, concede con generosità libero accesso agli ampi spazi dei
suoi percorsi, rispondendo convinto all’idea che “uno dei compiti da sempre
assegnati al poeta è quello di scoprire attraverso il proprio pensiero e le
proprie emozioni che cosa sia per lui, in quel momento, la poesia. Di solito è
nella sua poesia, con la poesia stessa, che egli rivela le sue scoperte”. Le
liriche di Wallace Stevens sono, in effetti, l’incredibile che serve per
credere, o la resa incondizionata all’irreale, almeno “ogni volta che ci è
possibile farlo”, mentre la profondità delle riflessioni allineate con L’angelo
necessario sembrano davvero
delimitare i confini dell’immaginario e dell’infinito assedio a cui è
sottoposto perché “la vita, non l’artista, crea o rivela la realtà”, idea
ribadita ancora quando dice che “se l’immaginazione non trae forza dalla
realtà, non ha forza alcuna”. Per rivelare questo tratto, che si appoggia a una
fittissima filigrana filosofica, Wallace Stevens non si confonde in voli pindarici
o in contorte spirali di elucubrazioni. La sua scrittura, sia poesia, saggio o
critica, si avvale di una chiarezza, di un’espressione limpida e naturale,
ricca e nello stesso tempo cristallina, come se fosse sempre l’inizio di
qualcosa che sta “sempre iniziando” e non avesse bisogno altro, se non di
rendersi viva. Pare logico quindi che, tra le varie forme di realtà e
immaginazione archiviate con L’angelo necessario, tocchi proprio alla musica, il fenomeno più
istintivo e spontaneo, a tenere insieme gli accordi dell’esperienza perché,
scrive un’illuminato Wallace Stevens, “la musica influenza ciò che vediamo, lo
rende ambiguo, a volte simile a qualcosa, a volte a qualcos’altro. Nel
frattempo, però, la storia viene narrata e la musica ci esalta, la identifichiamo
con la storia ed essa diviene la storia e la velocità con cui la seguiamo.
Quando la musica cessa, allora ci accorgiamo che abbiamo avuto un’esperienza
assai simile alla storia narrata, come se avessimo preso parte a ciò che è
avvenuto, proprio come se avessimo ascoltato una recitazione toccante con una
comunione di sensi assoluta. La musica comunica le emozioni, e non sarebbe
stato diverso se si fosse trattato della musica della poesia o della voce del
protagonista che racconta una storia o che dichiara la propria idea del mondo”.
E’ quello che serve, che è necessario
“a restituire all’immaginazione ciò ch’essa va perdendo a un ritmo
catastrofico, e sostenere ciò ch’essa ha guadagnato”. Da studiare.
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