“Cazzate” scrisse
un dirigente della Columbia in cima alle quattro pagine del prospetto del
Rolling Thunder Revue. Sarà. D’altra parte, secondo Joan Baez la proposta
funzionava così: “Al costo di 7,50 dollari offriamo uno spettacolo terapeutico,
anticonformista, alternativo”. Le visioni sono contrastanti già a partire dalla
definizione: in apparenza è stato un bizzarro medicine show, in realtà, come
ammette lo stesso Dylan, il Rolling Thunder Revue era ispirato dalla commedia
dell’arte, anche se la percezione più sensata alla fine è stata quella di uno
dei tanti fans accorsi, che l’ha vissuto “come un cazzo di sogno”. In fondo,
non c’è riuscito nemmeno Sam Shepard a tradurre “la confusione, l’estasi, la
depressione, gioia e il tumulto, la furia e l’amore e la rabbia e la noia e la
trascendenza di sei settimane sulla strada, sei settimane di una comune
ambulante, un baraccone musicale su quattro ruote, il vero Magical Mystery
Tour”. Con Bob Dylan, nell’epicentro del terremoto perché, proprio come lo
definisce Kinky Friedman, “è stato quasi tutto ciò che può diventare un essere
umano dall’animo inquieto, in continua trasformazione alla ricerca delle
sicurezze perdute dell’infanzia”. Larry Sloman o Ratso, nel gergo del Rolling
Thunder, non va altrettanto per il sottile e lo racconta senza filtri. E’ un
reportage grezzo e gonzo, diretto e trascinante, senza il minimo tentativo di
addomesticare la vita caotica On The Road With Bob Dylan. Si può solo immaginare: in più, per dirlo
in termini diplomatici, Ratso è una persona non grata all’interno del Rolling
Thunder Revue, è un inviato di una rivista poco amata (Rolling Stone) con una
naturale predisposizione all’indolenza e alla polemica, tanto è vero che è poco
sopportato persino dalla sua stessa redazione. Gli alterchi telefonici con Chet
Flippo sono soltanto un diversivo, tra i tanti, di un flusso inarrestabile di
parole come fuochi d’artificio frutto, per dirlo con Kinky Friedman, di “tempi
in cui nessuno aveva idea di quello che diceva”. Il dialogo tra Ratso e Joni
Mitchell con T-Bone Burnett in funzione di avvocato, la lunga conversazione
telefonica con Michael Bloomfield, i confronti quotidiani con Joan Baez e le
scalate dialettiche di sesto grado con lo stesso Dylan riportano “i pensieri, i
commenti, i sogni sconclusionati e intimi al tempo stesso, di una bellezza che
a volte va oltre le parole e la musica e a volte si rivela profetica, il tutto sprigionato da una combriccola di banditi in viaggio per l’America”. Ne fanno
parte Leonard Cohen, Scarlet Rivera, Roger McGuinn, Emmett Grogan, Robbie
Robertson, Allen Ginsberg, Ramblin’ Jack Elliott e poi “party girls &
broken poets”, come direbbe Elliott Murphy, che Larry Sloman sbatte senza
soluzione di continuità in un zingaresco diario di viaggio. All’alba del 1975,
utopie, rock’n’roll e poesie e il fantasma di Jack Kerouac, valgono un pass,
una farmacia, un cambio di gomme. Ratso non mente: la vita on the road (con o
senza Dylan) è dura. Il resto è leggenda.
lunedì 27 gennaio 2014
mercoledì 22 gennaio 2014
H. P. Lovecraft
Biografia
di uno scrittore da quattro soldi
è un piccolo libro (ottanta pagine, più o meno) che rivela moltissimo di H. P.
Lovecraft e, per estensione, di tutta la letteratura fantastica. In gran parte
è una sorta di diario sostenuto dagli spunti autobiografici, mentre più ci si
addentra e più si prende coscienza della portata del suo lavoro. Su Danse
Macabre, Stephen King lo
ricordava così: “Lovecraft è stato definito uno scribacchino, descrizione che
rifiuto con forza, ma che lo sia stato o non lo sia stato, e se era uno
scrittore della cosiddetta letteratura (dipende dalla vostra tendenza
letteraria) non importa molto in questo contesto, perché in ogni caso
Lovecraft prese il suo lavoro molto sul serio. E si vede”. Il carattere
popolare della scrittura di H. P. Lovecraft, e per esteso della letteratura
del fantastico, godono proprio di quell’impegno che in Biografia di uno
scrittore da quattro soldi viene
ribadito così: “Quello che insisto a fare, è cercare di riprodurre atmosfere e
sensazioni al meglio delle mie possibilità. I risultati potranno essere miseri,
ma preferisco puntare a un’espressione letteraria di valore, piuttosto che
accettare gli standard artificiali di una narrativa scadente”. Spulciando la Biografia
di uno scrittore da quattro soldi
si scopre, prima di tutto, il nucleo della letteratura fantastica secondo
Lovecraft che è “un vago disagio nei confronti dell’era moderna, in modo da
pensare al tempo come a un’entità mistica e portentosa, all’interno della quale
si può scoprire ogni genere di meraviglia inaspettata”. La traduzione di questa
percezione in scrittura avviene secondo un paio di schemi molto efficaci.
Primo: “i racconti fantastici possono essere raggruppati in due categorie
approssimative: quelle in cui l’orrore o la meraviglia sono legati direttamente
a una condizione o un evento, e quelli che riguardano le azioni dei personaggi
e la loro connessione alla condizione particolare o all’evento bizzarro”.
Secondo, fondamentale assioma: “E’ l’atmosfera, e non l’azione, il più grande
obiettivo della narrativa fantastica”. E’ il carattere popolare della sua
scrittura quello che emerge in questa Biografia di uno scrittore da quattro
soldi, sottolineato in
modo ironico anche dal titolo (quanto mai appropriato) perché poi “ci sarà
sempre una piccola percentuale di persone che brucerà di curiosità per lo
spazio esterno inesplorato, che desidererà ardentemente di scappare da quella
prigione chiamata realtà sconosciuta. La meta di questi viaggi sono le terre
incantate, piene di avventure incredibili e infinite possibilità, che i sogni
aprono a noi, o che sono evocate, per un secondo, dalla visione di foreste
impenetrabili, torri singolari o tramonti fiammeggianti”. La sua influenza è
enorme, palese e cruciale: basta scorrere l’elenco di note e soggetti appena
accennati in coda alla Biografia di uno scrittore da quattro soldi per trovare una mezza dozzina di trame di
altrettanti romanzi di Stephen King, per dire quanto il suo miglior allievo
abbia imparato dal maestro.
domenica 19 gennaio 2014
William Burroughs
E’ noto che, dai
Soft Machine ai Nirvana, il legame di William Burroughs con il rock’n’roll è
stato lungo, esteso e proficuo. Gli elementi della simbiosi sono rimasti gli
stessi: la condivisione dello stesso underground, il gusto per lo scarto di
lato, per la provocazione e la ribellione, lo spirito iconoclasta e
irriverente, la lingua dura e tranchant, tutti gli spigoli vivi di un
lucidissimo visionario convinto che “il linguaggio è a tutti gli effetti un
virus che ha raggiunto una condizione di equilibrio con l’organismo ospitante,
e quindi non è avvertito come tale”. E’ questa vitale considerazione che ha
spinto William Burroughs alla ricerca di nuovi legami tra forme d’arte diverse,
per certi versi proiettate in sensi contraddittori. L’origine stessa del
cut-up, la parte più innovativa della sua scrittura, proviene dalle arti
figurative, come racconta in Rock’n’Roll Virus: “Che cosa sono le parole? In che direzione stanno
andando? Il metodo del cut-up tratta le parole come un pittore usa i colori,
materiali grezzi con regole e significati loro propri”. Nell’incontro con la
musica, dove si è sempre confessato ignorante e inadeguato, William Burroughs
aveva visto invece qualcosa “in grado di evocare una situazione del passato, in
modo molto più accurato rispetto, per esempio, a un sottofondo neutro fatto
solo di parole”. Rock’n’Roll Virus raccoglie interviste che, a seconda degli
interlocutori, si rivelano dialoghi dagli esiti imprevisti: David Bowie, Patti
Smith, Blondie, Devo. Molto degli esiti dipende dallo differente spessore dei
convenuti: l’intervista con i Blondie si risolve in una specie di chiacchiera
omnicomprensiva che racchiude opinioni e divagazioni dagli UFO all’assassinio
di Kennedy. Quella con Patti Smith, con William Burroughs che sembra persino in
soggezione, è tutta concentrata sulla protagonista di Horses e sulla sua passione per il rock’n’roll.
Più articolate e interessanti quelle con Robert Palmer e David Bowie, che
trarrà spesso ispirazione dal lavoro di Burroughs. In un modo o nell’altro, la
musica è un punto di partenza: “Quello che mi ha sempre interessato è la
libertà che c’è nelle dissonanze. Mi è sempre piaciuto che la pagina fosse un costringere
liberamente ovvero un
instradare le parole in una nuova partitura che è poi la pagina. Fondamentale è
il tono, senza ombra di dubbio. La scrittura diventa così una partitura di
parole, dove il respiro del corpo e quello della mente si muovono insieme,
proprio come nella buona musica, senza niente di scontato”. Anche nella natura
frammentaria di Rock’n’Roll Virus emerge comunque la personalità di Burroughs: quando
confessa limiti e ambizioni: “E’ questione di raggiungere un grado di
precisione sufficiente. Se sapessi veramente scrivere, potrei realizzare qualcosa che uccidesse
tutti quelli che leggano. Lo stesso vale per la musica e per qualsiasi tipo di
effetto desiderato che si possa produrre sviluppando un sufficiente controllo
sulle proprie conoscenze o su una tecnica specifica”. Sempre validissimo.
domenica 5 gennaio 2014
Dorothy Parker
Testimone
coraggiosa, scomoda e vitale della prima metà del ventesimo secolo, essendo
nata nel 1893 e scomparsa nel 1967, Dorothy Parker ha una precisione chirurgica
nel descrivere i modi affettati della borghesia, le convenzioni e i cliché
consumati nell’ambito ristretto delle famiglie. I suoi ritratti dei vizi e
delle abitudini della nascente middle class sono impietosi e anche
nell’eleganza e nella raffinatezza della sua scrittura, comprese le formali
presentazioni dei personaggi che sono tutti e sempre Mr e Mrs, Dorothy Parker
non concede nulla ai luoghi comuni casalinghi, che sono il suo bersaglio
preferito. La famiglia, in particolare la sfera matrimoniale, con tutti i
pregiudizi e le idiosincrasie del caso è la sua principale fonte di ispirazione
e nello stesso tempo il fondale delle storie e Dorothy Parker è sferzante,
impietosa, a tratti persino cinica, anche perché “l’innocenza è una gran cosa,
una cosa deliziosa, persino attraente, nel momento e nel luogo opportuni: ma
portata alle estreme conseguenze è semplicemente ridicola”. L’ampia galleria di
caratteri e volti rappresentati in Eccoci qui è un esempio più che sufficiente:
Dorothy Parker ne illustra e ne rilegge i tic persino con una sottile vena di
sana perfidia, incastrando i suoi personaggi nell’angolo che loro stessi hanno
ricavato tra le mura domestiche. Siano i pregiudizi razziali (e razzisti) di Composizione
in bianco e nero o
l’inversione repentina, dalla frivolezza alla depressione, di Hazel Morse in Una
bella bionda, o i
suggerimenti per comprendere le trame dell’amore che un personaggio rispecchia
nell’altro in Consigli alla piccola Peyton o ancora le brutali deviazioni che Mr Durant impone per sentire “nella coscienza che
era tutto sistemato, tutto pronto, per ricominciare da capo”, Dorothy Parker
incide in modo indelebile le psicologie dei protagonisti che lievitano frase
dopo frase e in pochissime pagine rimangono inchiodati alla loro mediocrità.
Succede con Mr e Mrs Wheelock, e la figlia Sister, ritratti nel bucolico
pomeriggio per Che bel quadretto
e così per le attenzioni che gli impeccabili Mr e Mrs Matson dedicano al figlio
adottivo, Il piccolo Curtis:
le apparenze e i modelli di comportamento danno “la sensazione di aver fatto
qualcosa di compiuto”, solo che nel giro di poche pagine, una dozzina al
massimo, Dorothy Parker s’incunea nelle pieghe delle contraddizioni e solleva,
con una scrittura algida, puntuale, ancora attuale oggi a distanza di quasi un
secolo, il sipario delle ipocrisie e delle contraddizioni, delle frustrazioni e
dei sotterfugi di un’umanità edulcorata. Siano novelli sposi o consumati
coniugi, spesso quello che lega gli uomini e le donne di Eccoci qui, è “un silenzio carico di significati”. E’
proprio in quella terra di nessuno che la voce e lo stile, e anche lo spirito
indomito, di Dorothy Parker fanno emergere le tensioni sommerse, senza
spiegarle, e lasciano al lettore lo spazio e il tempo per immaginarsi
l’evoluzione delle vite e dei sottintesi dei racconti di Eccoci qui. Da riscoprire.
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