tag:blogger.com,1999:blog-4150295176884103642024-03-16T11:51:24.804-07:00BooksHighwayMarco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.comBlogger1194125tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-51160482692607949512024-03-11T03:23:00.000-07:002024-03-11T03:25:06.352-07:00Sigurd F. Olson<p style="text-align: justify;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"></i></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 24px; text-align: center;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNhLh5O9M1Sx7Cv7UXR3cjYP2-a0VQjh9QTyEplN5njDU6PIECjLdJ3v0D-5ZUyWXZZvM3enlSdMewhnXWZgQzStXyZ6K-a1eEcrpXov-ot-qXaupM4E3pnmEHNNGSkFU9STAQ8I6MFbCVyjIP_Jem6MQNmiWVGPMzYQAchQzzq-uFVR8HNUyZ5-9Fvg8/s665/Sigurd%20F.%20Olson.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="665" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNhLh5O9M1Sx7Cv7UXR3cjYP2-a0VQjh9QTyEplN5njDU6PIECjLdJ3v0D-5ZUyWXZZvM3enlSdMewhnXWZgQzStXyZ6K-a1eEcrpXov-ot-qXaupM4E3pnmEHNNGSkFU9STAQ8I6MFbCVyjIP_Jem6MQNmiWVGPMzYQAchQzzq-uFVR8HNUyZ5-9Fvg8/s320/Sigurd%20F.%20Olson.jpg" width="204" /></a></i></div><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"><span style="font-family: georgia;"><i>Il canto selvatico</i></span></span><span style="background-color: transparent; font-family: georgia; text-align: left;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> ha un indice composto dalle quattro stagioni attraversate come se fossero un’unica esperienza, frutto di un’immersione nella wilderness con tutti i sensi allertati (“Ovunque ci si trovi, è certo che si scoprirà qualcosa di memorabile”). La pratica della pesca (soprattutto), della caccia, l’osservazione e l’esplorazione conducono Sigurd F. Olson a considerazioni più ampie e approfondite rispetto al loro esercizio: “Sempre mi accompagnano la ricerca e l’ascolto, non solo per me stesso ma anche per chi era con me, e ho scoperto che ogni volta che riaccendevo un barlume di quell’originario sentimento di comunione e appartenenza conosciuto fin da bambino, ogni volta che intravedevo anche solo per un istante la meraviglia conosciuta allora, gioia e felicità mi colmavano”. Il viaggio a piedi lungo le rive o dentro il fiume in canoa (“Il movimento della canoa somiglia a quello di un giunco al vento. Il silenzio ne fa parte, così come lo sciabordio dell’acqua, il canto degli uccelli e il soffio del vento fra gli alberi. La canoa appartiene al mezzo che attraversa, al cielo, all’acqua, alle rive. Un uomo è parte della sua canoa e di conseguenza parte di tutto ciò che essa conosce”) lo porta a considerare che i laghi e gli stagni e le pozze nei torrenti hanno la stessa dignità. Le escursioni di Sigurd F. Olson sono volte in direzione di una dimensione che è nello stesso tempo primordiale e inedita, per quanto trascurata a favore di una realtà urbana, meccanica e artificiale che l’essere umano si è autoimposto in virtù di chissà quali obiettivi. Saganaga, Manitou, Lac la Croix, Isabella Skylien Trail, Low Lake, Gabemichigami, Kawishiwi, Snowbank Lake sono “luoghi in cui il tempo non significava niente e l’uomo poteva ritrovarsi e ascoltare i propri sogni”. Il rispetto per le origini native conduce a rivedere l’armonia tra gli esseri viventi e non: dagli alberi, le cui liriche descrizioni rivelano una relazione speciale agli animali (le trote, le oche selvatiche, lo scoiattolo, il germano reale sono protagonisti assoluti) fino alle pietre perché Sigurd F. Olson vorrebbe scambiare le sue piccole preoccupazioni “con un po’ della loro stabilità e calma” e ognuna di loro rappresenta una terra in comune. Nello stesso modo, raccoglie nodi di legno per conservarli e bruciarli nei momenti speciali, le chiacchiere con gli amici, perché “più bello che trovare nodi c’è solo vivere in un luogo remoto, portarsi via qualcosa dalle terre selvagge che nessun altro avrebbe trovato per te, una cosa che non vorresti che qualcun altro facesse, tanta è la gioia di farlo tu da solo”. </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"><i>Il canto selvatico</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un’apologia incontrastata e insindacabile della wilderness, la splendida realtà della percezione della natura nel suo svolgersi diretto che si apre e si evolve come un processo di identificazione con il paesaggio e il territorio. Sigurd F. Olson scrive che “la ricerca stessa è una ricompensa, poiché nel processo attingiamo ai profondi pozzi dell’esperienza umana, e questo ci fa sentire di appartenere a un’esistenza in cui la vita era semplice e le soddisfazioni reali”. Quella consapevolezza riguarda lo sguardo, il movimento, il superamento delle difficoltà, perché “il piacere estetico non va sempre di pari passo con quello fisico, che non si possono apprezzare appieno odori, panorami e suoni se ogni passo è uno sforzo”. Finalmente una smentita dei luoghi comuni per cui faticare e rischiare sono una componente irrinunciabile, dato che poi sono molto più importanti “i tramonti, il colore delle nuvole e delle foglie, i riflessi sull’acqua”. La semplicità di ogni passo che sottintende </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il canto selvatico</span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un’elegia alla scoperta del “silenzio della natura, quel senso di unità generato solo dall’assenza di immagini o suoni che ci distraggano, un’unità percepita dall’orecchio e dall’occhio interiori, quando sentiamo e siamo consapevoli con tutto il nostro essere piuttosto che con i sensi”. Sigurd F. Olson si premura di precisare più volte che “il silenzio appartiene al mondo primitivo. Senza di esso la vista di un paesaggio immutato non è altro che rocce, alberi e montagne. È il silenzio a dargli valore e significato”. Ed è lì che si può sentire quella che chiama “musica selvatica”, ovvero “il gemito e lo scricchiolio del ghiaccio che si forma sui laghi, il fruscio degli sci o delle racchette da neve sulla neve asciutta: tutta musica selvatica, musica per i nativi per coloro che hanno orecchie per udire”. Le stagioni ci sono ancora tutte, basta ascoltarle<i>.</i></span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-48073755156012716472024-03-06T06:40:00.000-08:002024-03-06T06:41:22.134-08:00Louise Glück<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyeO5iDVDeyDm0S2NsHWaFmD20DkVMA6Yq01GnPFTu8LnKw2hZPv5FlN1qjUoNh4L8SE89_InOo4M32hGVCkMj6C5yYtix8AXSJdEMTHbkGt2adXPxNvuoeXorVr2S_DTMKOaaS7lk9n6CJA4hrIsBd3dOTwTwxi6chdKdvNO_kDLudOE1e9BlETijcQQ/s1500/Louise%20Glu%CC%88ck.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="980" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyeO5iDVDeyDm0S2NsHWaFmD20DkVMA6Yq01GnPFTu8LnKw2hZPv5FlN1qjUoNh4L8SE89_InOo4M32hGVCkMj6C5yYtix8AXSJdEMTHbkGt2adXPxNvuoeXorVr2S_DTMKOaaS7lk9n6CJA4hrIsBd3dOTwTwxi6chdKdvNO_kDLudOE1e9BlETijcQQ/s320/Louise%20Glu%CC%88ck.jpg" width="209" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Nella <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Notte fedele e virtuosa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> c’è una “teoria della memoria” che si sviluppa per gradi nel racconto altalenante di Louise Glück. La notte “così desiderosa di contenere percezioni strane” è il momento propizio per salvare il pensiero di una bambina spaventata davanti al treno (e non a caso succede in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Utopia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">) mentre “tutto il resto è ipotesi e sogno”. Le composizioni sono lunghe ballate che si snodano nella lingua lineare e immediata di Louise Glück, come in un personalissimo diario che presenta così: “La mia storia comincia molto semplicemente: potevo parlare ed ero felice. Oppure: potevo parlare, dunque ero felice. Oppure: ero felice, dunque parlavo. Ero come un fiotto di luce che attraversa una camera scura”. Le cronache famigliari vedono l’infanzia come una tavolozza di colori che viene riscoperta, un canovaccio utile per leggere i dettagli dei ricordi che si accumulano in una vita. Un pezzo dopo l’altro, come a tracciare un quadro generale, dice ancora Louise Glück: “Naturalmente in un certo senso non ero a mani vuote: avevo le mie matite colorate. In un altro senso è questo che voglio dire: avevo accettato dei surrogati”. I versi di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Cornovaglia </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">suggeriscono alcune possibilità.</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Prima, è la visione di una parola che “cade nella nebbia, come la palla di un bambino nell’erba alta dove rimane seducente lampeggiando e brillando finché si scopre che i barbagli d’oro sono comuni ranuncoli di campo”. Poi, “la notte avanzava. La nebbia turbinava sopra i lampioni accesi. Cioè dove era visibile, immagino; altrove era semplicemente nell’aspetto delle cose, confuse dove prima erano terse”. Nel confrontarsi con “un silenzio di parole risentite”, Louise Glück colloca la lettura di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Un romanzo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, dove “forse le parole saranno meno minacciose, se ricorderai come le hai sentite la prima volta, dalla voce di una bambina”. Si rivolge a se stessa, indagando in continuazione il passato e in contemporanea allargando lo sguardo a un universo fatto di piccoli schizzi, come succede in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Avvicinamento all’orizzonte </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">(“Così cominciamo. C’è un senso di allegria nell’aria, come se cantassero uccelli. Dalla finestra aperta arrivano ventate dal profumo dolce”) o in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Mezzanotte</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: (“Finalmente la notte mi circondò; ci galleggiavo sopra, forse dentro, o mi portava come un fiume porta un battello, e allo stesso tempo vorticava sopra me, tempestata di stelle e tuttavia oscura”). L’osservazione e l’esercizio della percezione sono</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">una costante e questo, come scrive </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La coppia nel parco</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, “dovrebbe spiegare la musica enigmatica che proviene dagli alberi”. I rilievi sono tantissimi, passano da una canzone di Jacques Brel alle sfuggenti immagini urbane (“La città è dove sparisco”) anche se poi Louise Glück ritorna e riprova, e nel frattempo rammenta: “Era tutto alle mie spalle, tutto nel passato. Davanti, come ho detto, c’era silenzio”. La domanda che sovrasta la </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Notte fedele e virtuosa </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">è quella che spicca, anche per contrasto, in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Storia di un giorno</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: “Ma se l’essenza del tempo è mutare, come può una cosa qualsiasi divenire nulla?”, e la risposta sembra arrivare un po’ più in là, quando scrive: “Quanto è tutto tranquillo, silenzioso, come un pomeriggio a Pompei”. L’ironia è compresa nel prezzo e il commiato è il passo successivo: “Penso che qui vi lascerò. Viene da pensare che non c’è conclusione perfetta. In effetti, ci sono infinite conclusioni. O forse, una volta che si incomincia, ci sono solo conclusioni”. L’indecisione è un universo fluttuante e come scrive in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La serie bianca, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">“la fine veniva e andava”, solo la poesia rimane sulla soglia di una casa popolata di fantasmi.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-52305849760448277942024-03-05T02:08:00.000-08:002024-03-05T02:08:29.495-08:00Daniel Keyes<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgl5Ov9xQff3aG2wRV2SdbFG3p9XA6PolOp9m2TG2AraUx7mTonbXNEPR9Iu6LDwq1ZqXdymHLjE8-7bq-mVlYeNPIFVXE1VlGKL1OW16wsUiNAVwX1HphgDBKps9i7Nb921n4DWIwDG5WY6L-1MpSM2LYooI5EO3uOD4wqqwjEcjBAm27K6Cm7-X3fd4/s1500/Daniel%20Keyes.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="977" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgl5Ov9xQff3aG2wRV2SdbFG3p9XA6PolOp9m2TG2AraUx7mTonbXNEPR9Iu6LDwq1ZqXdymHLjE8-7bq-mVlYeNPIFVXE1VlGKL1OW16wsUiNAVwX1HphgDBKps9i7Nb921n4DWIwDG5WY6L-1MpSM2LYooI5EO3uOD4wqqwjEcjBAm27K6Cm7-X3fd4/s320/Daniel%20Keyes.jpg" width="208" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">L’intelligenza è un desiderio assoluto che Charlie Gordon associa con molta spontaneità alla conoscenza e, in particolare, alla scoperta di sé e di una nuova consapevolezza della propria persona. Per più di trent’anni della sua vita è rimasto prigioniero della sua ingenuità e delle sue lacune, poi viene coinvolto in un tentativo di cura e di modifica delle attività cerebrali, destinato a rivoluzionare la cultura scientifica. Le intenzioni sono ammirevoli ed è in buona compagnia perché lo stesso procedimento è applicato a un simpatico topolino, Algernon. La modifica dell’intelligenza per via chirurgica e farmacologica però è instabile e provvisoria, come si scoprirà, ma sono più problematiche le alterazioni sociali che provoca nell’immediato. All’inizio Charlie non riesce a scrivere neanche in modo sensato, nonostante l’impegno. Terminare una frase è una tortura, ortografia e grammatica neanche a parlarne. Poi comincia a prendere padronanza delle principali proprietà della conoscenza, i progressi si fanno via via più importanti e sempre più veloci. Il diario comincia a diventare comprensibile. Per Charlie Gordon, la rinnovata intelligenza e la fame di conoscenza sono una corsa nel vuoto e un cambiamento troppo radicale. Prima ribalta la sua condizione di garzone in una panetteria, con conseguenze imprevedibili, poi lo sviluppo delle capacità intellettuali lo porta da cavia a testimone del suo esperimento, e ancora più avanti. Un salto di qualità che lo renderà in grado di esprimersi “a proposito delle varianti culturali e della matematica neo-bouleana e della logica post-simbolica”. Più di tutto, la nuova capacità intellettiva lo spinge a recuperare ricordi ed emozioni sepolte nel passato, compiendo un viaggio a ritroso nel tempo, verso le sofferenze famigliari, fino a ritrovare la madre e il padre e a confrontarsi con i traumi dell’infanzia (compreso l’elettroshock) e con quello che riemerge dai ricordi e nei sogni. L’associazione imperfetta tra intelligenza e subconscio tende ad alimentare i conflitti in modo esponenziale e a quel punto le reazioni sono incontrollabili. Charlie si trova ad affrontare l’inarticolato linguaggio dell’amore (e del sesso) con Alice e Fay e diventa un’incognita anche per il professor Nemur e il dottor Strauss, i fautori del test. Le modifiche chimiche hanno un funzionamento repentino in entrambi i sensi e questo vale anche per Algernon. Sono tutti e due cavie, ma Algernon non ha il dono e il peso dell’evoluzione del linguaggio e di conseguenza dei rapporti umani. Resta barricato in un angolo. L’intelligenza è limitata nel tempo, il progresso è retroattivo e il ciclo, tanto veloce quanto inverso,<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">si completa con l’involuzione di Charlie che ben presto torna a essere la persona limitata di prima. A sottolineare l’ultimo passaggio è ancora il legame con il piccolo topo: all’inizio c’era la competizione, poi la condivisione dello stesso, amaro destino, fanno di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Fiori per Algernon</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> un romanzo che tocca in profondità l’animo dei suoi protagonisti e, a distanza di mezzo secolo, pone degli interrogativi sull’intelligenza che sono sempre più attuali. Daniel Keys ha saputo concentrare tutta una spirale di speculazioni scientifiche e filosofiche in personaggi indimenticabili, a partire da Charlie Gordon, va da sé, che impongono a </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Fiori per Algernon</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> un ritmo incessante e ipnotico e gli conferiscono la statura di un classico che, una lettura dopo l’altra, si rivela ogni volta più grande e importante.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-48395500426605924172024-02-17T00:45:00.000-08:002024-02-18T09:30:08.575-08:00Gina Berriault<p style="text-align: justify;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></i></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhch404vgHLTh-4UqCiVC4yz7bVkQmTEMM5phVDQTYFWli14_9_wHxElX60TA6J_J-Q-8P50cIcgcn8SGvc0UQbEuMLTrAd_A1ao01cloVOpESdAOoYxpWlVgdfzWI9uVIwxBfxigHjMYvOykoBs4pU3Lel5evmRAIj-hK7bCfoXtP7gdEz-BQH-FMDo30/s775/Gina%20Berriault.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="775" data-original-width="520" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhch404vgHLTh-4UqCiVC4yz7bVkQmTEMM5phVDQTYFWli14_9_wHxElX60TA6J_J-Q-8P50cIcgcn8SGvc0UQbEuMLTrAd_A1ao01cloVOpESdAOoYxpWlVgdfzWI9uVIwxBfxigHjMYvOykoBs4pU3Lel5evmRAIj-hK7bCfoXtP7gdEz-BQH-FMDo30/s320/Gina%20Berriault.jpg" width="215" /></a></i></div><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"><span style="font-family: georgia;"><i>Le luci della terra</i></span></span><span style="font-family: georgia; text-align: left;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si perdono nel confronto del mare perché restano avvolte in una fitta nebbia di ricordi incontrollabili, rimpianti che proliferano come fantasmi, nessuna alternativa se non un falò in riva all’oceano, e va male pure quello. Gina Berriault segue personaggi “incapaci di comprendere il mondo e ostinati al modo in cui bisognava immaginarselo”: le loro relazioni sono claudicanti e faticose e il più delle volte sono tutti sull’orlo di una crisi di nervi, con una vocazione al suicidio, neanche tanto velata. Sono obnubilati da quello che chiamano“il presagio della perdita”, il senso latente di essere abbandonati che non li lascia mai. Ilona Lewis, più di tutti, è rimasta sola: il fratello, Albert, si è trasferito a Chicago e la figlia Antonia è in viaggio sull’Himalaya. Le lettere sono scambi di parti vitali, ma non sortiscono particolari effetti mentre Ilona, convinta che “dietro l’incertezza dell’amore c’è la certezza della complicità”, insegue Martin Vandersen, amante e scrittore che sta vivendo il breve abbaglio della notorietà e un bel momento di confusione indotto dalla provvisoria fama. A dire il vero, sono tutti scrittori (anche Ilona) a diversi gradi di disperazione. Per dire, Claud, un altro amico fragile, “ogni volta che trovava il libro di uno dei suoi scrittori preferiti a casa di qualcun altro provava una fitta di gelosia, come se lo scrittore fosse stato solo suo, il suo amico più caro”. Poi ci sono Jerome, che dopo anni di tribolazioni decide di distruggere il suo manoscritto, e la stessa Ilona che nell’insistere con Martin, crede che “la felicità degli amanti era realtà, e l’immaginazione non le si avvicinava nemmeno”. </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"><i>Le luci della terra</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un breve romanzo imperlato di dolore, ma con una consapevolezza intima della sofferenza e delle difficoltà che le persone devono superare per avvicinarsi veramente, e conoscersi. La scrittura raffinata e superiore di Gina Berriault, fatta di frasi precise e taglienti, è spietata con tutti i suoi personaggi e se impone un confronto complesso è perché “chiunque ci guidi più a fondo nell’essenza delle cose all’inizio pare un nemico”. Non si fanno sconti: anche delle innocue campane a vento portano ricordi brutali e la sincerità resta l’ultima spiaggia, almeno per Ilona: “Se ho dei problemi, e ne ho, sono di quel genere che va bene avere, perché sono umana e provo sentimenti, e quei problemi non riguardano solo me, riguardano molte altre cose più grandi di me”. </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"><i>Le luci della terra</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> testimoniano passaggi delicati nella cornice di San Francisco e della costa californiana, finché Ilona non è costretta a raccogliere le spoglie del fratello a Chicago. La tragedia in sé è “un senso di vergogna per la paura della perdita e per la perdita che di fatto avevano subito” e quando lei, e Claud, e Martin si accorgono che un abbandono “era naturale quanto il respiro”, è troppo tardi e la somma di solitudini trasforma </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Le luci della terra</span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> in un labirinto esistenziale che Gina Berriault sa architettare con grande equilibrio, ma anche con un calore inaspettato. Molto lo si deve al carattere di Ilona che riesce ad ammettere con un certo candore: “Se chini la testa per tanti anni sull’infinità di ciò che non sai, sull’immaginazione che è il sostituto del sapere, rimarrai sorpresa quando la rialzerai, scoprendoti più vecchia di quando avevi iniziato”. È il limite implicito di un’ossessione che “si esaurisce da sola o esaurisce la sua preda”, lasciando in eredità soltanto qualche traccia sulla battigia e le scintille di un libro che brucia da solo<i>.</i></span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-40280329724397804372024-02-15T00:53:00.000-08:002024-02-15T00:53:28.491-08:00Lou Berney<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjuOKE00LPNFZ1SNSX1jhOyRRqVsKZoojJXNyEKiMTnrDhnc8MGCnfNG6idBcK65PxvYlPcMwBCAyLu9jKfiZQOZ6Zxk60ar2nlx4qB-GQpOP0C_UtInhbiJJ_GZjGneAAhEX13NnqtJIdU7Es1IMS1o7f16baymi8bPYyEbDh1Q2YvJDWkO3TFmTj8ADM/s682/Lou%20Berney.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="682" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjuOKE00LPNFZ1SNSX1jhOyRRqVsKZoojJXNyEKiMTnrDhnc8MGCnfNG6idBcK65PxvYlPcMwBCAyLu9jKfiZQOZ6Zxk60ar2nlx4qB-GQpOP0C_UtInhbiJJ_GZjGneAAhEX13NnqtJIdU7Es1IMS1o7f16baymi8bPYyEbDh1Q2YvJDWkO3TFmTj8ADM/s320/Lou%20Berney.jpg" width="199" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">In <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Libra, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">il romanzo che Don DeLillo ha dedicato a Lee Harvey Oswald, un personaggio definisce l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy “un’aberrazione nel cuore della realtà”. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">November Road</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> comincia da quel fatidico e irrisolto momento della storia americana, travolta dal fatto che, come scrive Lou Berney, tutti, da lì in poi,“temevano un futuro incerto. Temevano che la loro vita non sarebbe più stata la stessa”. Se questo vale per la gente comune che si è trovata di fronte a quel varco con le immagini in bianco e nero della televisione, figurarsi per chi è stato parte della macchinazione che ha cambiato il destino di un’intera nazione. Rovistando in libertà negli annali storici, Lou Berney sceglie un punto di vista insolito, svicolando dalle verità ufficiali e trovando i suoi protagonisti nell’ombra. Primo fra tutti, Frank Guidry, un luogotenente di Carlos Marcello, imperatore indiscusso della mafia americana dell’epoca: ha portato una macchina a Dallas e ci mette meno di un secondo a capire che i suoi giorni sono contati. Ogni cospirazione che si rispetti prevede il taglio dei rami secchi, perché i mandanti rimangano occulti e al sicuro per il resto della vita. L’eliminazione del nemico è solo la parte più appariscente e pericolosa, l’ondata di angoscia è dovuta al fatto che l’organizzazione di Carlos Marcello è ramificata e spietata. Per Frank Guidry, le opzioni sono limitate e la fuga s’impone con urgenza. Lo scenario di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">November Road</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è vasto in apparenza perché comprende un bel pezzo di America, da New Orleans a Los Angeles passando per Las Vegas, ma limitato dalle pareti delle camere di motel e, ancora di più, dagli abitacoli delle automobili, dove avviene gran parte della storia. È una lotta per la sopravvivenza che Lou Berney sa gestire con il dono della chiarezza e della semplicità, facendo risaltare le limitate opportunità dei criminali e l’ottusità delle loro scelte. Ciò diventa ancora più evidente quando Frank Guidry incontra Charlotte, che è quanto di più distante da quel milieu. Lei è in fuga (con le figlie, Joan e Rosemary, e il cane Lucky) da un matrimonio asfissiante e l’incrocio dei loro destini dipende dall’idea che “non c’era bisogno che qualcuno ti predicesse il futuro se potevi creartelo da solo”. In </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">November Road</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, l’autosuggestione è l’elemento per cui tutti si convincono che hanno ancora una possibilità, compreso Paul Barone, il killer sguinzagliato per eliminare testimoni e pedine sacrificabili che si lascia alle spalle un’infinita scia di sangue. L’inseguimento non ha tregua e il ritmo è dettato dal jazz (Art Pepper, John Coltrane, Miles Davis) e dalle evenienze e dagli incidenti on the road: Lou Berney usa il romanzo (noir) per mostrare come il complotto si autoalimenta, moltiplicandosi senza controllo. I suoi personaggi sono in balia delle loro stesse scelte perché è vero che “con ogni decisione creiamo un nuovo futuro. E distruggiamo tutti gli altri futuri”, ma, come un effetto collaterale imprevisto, la sensazione di insicurezza è un’ombra pesante come un sudario intriso di paura. Diceva Don DeLillo: “La gente ha sviluppato l’impressione che la storia sia stata segretamente manipolata. Documentazione persa e distrutta. Documenti ufficiali sigillati per cinquanta o settantacinque anni. Una quantità di omicidi strani e suicidi che hanno coinvolto persone implicate nei fatti del 22 novembre. Così, a partire dallo shock iniziale, istintivo, credo che abbiamo sviluppato un sentimento molto più profondo di inquietudine per la nostra mancanza di controllo sulla realtà”. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">November Road</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> lo racconta in modo più prosaico, mettendo un fotogramma dopo l’altro: una telefonata, la pioggia sulla strada, una sigaretta che si accende, l’apparizione di un’arma, una portiera che si apre, un bagagliaio che si chiude, una finestra sul deserto, capolinea.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-28261088028080171602024-02-08T07:02:00.000-08:002024-02-08T07:03:03.316-08:00Greil Marcus<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtwNoCd_luhhoyWPdy2ijY6XzzKVRs7uNpp8bTSiiJfoTaz6sMNFIttoCWq_D8YL7IE2Z9CTywUd2FSPOtKjtYQ3NZj7_N-zLTDoNnW1q620eSu2thzh3PFlVq6_0XrUj3uLOF-OToVTmjLWE24SBZZCNxGZYtQ7qudofo8qf-cNYmwqVxzPAfywHelZo/s1463/Greil%20Marcus.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1463" data-original-width="1032" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtwNoCd_luhhoyWPdy2ijY6XzzKVRs7uNpp8bTSiiJfoTaz6sMNFIttoCWq_D8YL7IE2Z9CTywUd2FSPOtKjtYQ3NZj7_N-zLTDoNnW1q620eSu2thzh3PFlVq6_0XrUj3uLOF-OToVTmjLWE24SBZZCNxGZYtQ7qudofo8qf-cNYmwqVxzPAfywHelZo/s320/Greil%20Marcus.jpg" width="226" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Fin dalla descrizione di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Light My Fire</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, è evidente che Greil Marcus non è uno che semplifica, anzi, tende ad aggrovigliare le storie e, non a caso, cita a lungo </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Vizio di forma di </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Thomas Pynchon e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Great Jones Street </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">di Don DeLillo, due romanzi già abbastanza tortuosi, per introdurre i Doors. Ci sta perché sono creature particolari anche per la cultura pop che “è paesaggio e cambio di stagioni, guerra e pace, abbattimento di foreste e costruzione di città, ritorno alle religioni e panico morale, benessere e povertà, avventura e scoperta, cittadinanza ed esilio”. Di questo passo si arriva in un baleno a Charles Manson, ma all’inizio c’è soltanto Elvis, una bella ossessione per Greil Marcus, e non solo: “Come tanti prima e dopo di lui, Jim Morrison era consapevole che Elvis Presley aveva qualcosa che nessun altro avrebbe mai avuto, e che lui desiderava raggiungere nella maniera più appassionata, più misteriosa e meno ovvia possibile; e questo non era un segreto”. Quell’aura irraggiungibile veniva da una mutazione più ampia e profonda e, secondo Greil Marcus, “in questo scenario, i Doors erano una presenza. Erano una band che la gente sentiva di dover vedere, non per imparare, scoprire, ascoltare un messaggio o conoscere la verità, ma per essere al cospetto di un gruppo di persone che sembravano accettare il momento presente per quello che era. Nel loro comportamento generale, accigliati, non un rock’n’roll beffardo ma un’esibizione impastata di sfiducia e dubbio, non promettevano un lieto fine. Le loro canzoni migliori dicevano che il lieto fine non era interessante, e che era immeritato”. C’erano soltanto loro e i Velvet, sull’altra costa, a New York, a mettere un’ipoteca sul futuro e su questo non c’è il minimo dubbio, però le ricche deduzioni di Greil Marcus riescono a superare i luoghi comuni e ci mostrano qualcosa in più: “In certi momenti nella musica migliore dei Doors, prendiamo per esempio l’ultimo e inesorabilmente lento e tranquillo minuto di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">The End</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, puoi sentire una persona credere che quello che ha da dire valga il tempo che gli altri si prendono per ascoltarla. Poi tutto svanisce; quella persona abbandona il palco per non tornare più”. Il tempo, in effetti, è l’ossessione del breve lustro dei Doors, ma Greil Marcus procede come se seguisse una spirale, nemmeno tanto ordinata, che passa in continuazione da un piccolo particolare a una panoramica sterminata: “L’eco di quel momento sospeso è un enorme silenzio palpitante, l’esplosione con cui non finisce il mondo, e questo fu, per alcuni, precisamente come sentirono il mondo dopo la fine dell’esibizione, l’esibizione del concerto, l’esibizione dei tempi”. Coincide in gran parte, come non poteva essere diversamente, con un’accorata analisi degli anni Sessanta, dove Greil Marcus si spende con generosità per trovare qualcosa di originale da ribadire su quel periodo storico: “Questo è ciò</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">che fa paura: il concetto che gli anni Sessanta non furono un periodo grandioso, semplice e romantico da vendere agli altri come un bel posto da ammirare, ma un posto nell’esatto momento in cui viene creato, dove la gente sa che non potrà mai abitare, e che sa non potrà nemmeno abbandonare”. Le digressioni e le iperboli di Greil Marcus sono temerarie e spesso distanti dai Doors: parla di architettura, cronaca, politica, sviluppa un’ardita connessione tra Eduardo Paolozzi e Chuck Berry, all’interno di una deviazione più ampia sulla pop art che si conclude così: “Dimentica l’arte. Tu sei un salame. Io sono un salame. Il mondo è carne”. Detto questo, quando si attiene al tema principale, non sbaglia mai bersaglio: “Se la musica con cui si presentavano i Doors diceva qualcosa, diceva che non stava scherzando. C’era una serietà di intenti a suo modo eccitante. C’era una sorta di consapevolezza sulle conseguenze: passare attraverso i drammi interpretati in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">The Doors</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> significava correre un rischio, uno solo; una volta uscito potevi non essere più lo stesso. Questo era ciò che voleva la gente; questo era quello che sperava; questo era quello che ascoltavano. Quella promessa seducente era tutto ciò che ascoltavano”. Per Greil Marcus è proprio in quell’attimo che prende forma il fenomeno per cui “ciò che è destinato a scomparire è destinato a durare, dice la sfida pop a chiunque tema il pop, ma ciò che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">è</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> certo è che cambierà il principio secondo il quale si presume che alcune cose siano fatte per durare e altre per essere dimenticate”. La contorsione va presa così com’è e non c’è risposta se non nel fatto che “il più delle volte ci ritroviamo arenati nella storia che va avanti senza di noi, incapaci di uccidere in noi stessi il concetto che le cose possano migliorare, o essere solamente differenti e più vive di quello che sono”. I Doors e Jim Morrison in particolare avevano immaginato e visto “il presagio che il futuro, un futuro vicino, conteneva storie che nessuno immaginava di voler ascoltare, che la gente non avrebbe potuto ignorare, che avrebbero tenuto le persone sveglie, preoccupate per ogni piccolo strano rumore, terrorizzate e disgustate dalle loro stesse fantasie”. Arrivati lì in fondo, tra tutte le erudite acrobazie di Greil Marcus, il collegamento tra </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Strange Days</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Blade Runner</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> appare più innato che spontaneo, e da solo spiega quanto i Doors fossero proiettati in una dimensione inesplorata.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-36961269883221314562024-02-01T02:12:00.000-08:002024-02-01T02:12:36.234-08:00Rachel Carson<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh6mCvpfhhKrdMikJevG5feUWVTmdvnPSSnyL3n-j_JrymuADlKtjcBTuc-pCI9GFyC6WPFvZ6_AiZo0nN6WdrFqlDULn2W2TcNOvEJkIIEz6ayEQvwYQ7g_f3Lx2FP8864uSnNCDNHjar4YOJkOZQXKzqCYoV-PD46OAu0cN6fiIrJdHDuUnVsGobeSTk/s756/Rachel%20Carson.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="756" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh6mCvpfhhKrdMikJevG5feUWVTmdvnPSSnyL3n-j_JrymuADlKtjcBTuc-pCI9GFyC6WPFvZ6_AiZo0nN6WdrFqlDULn2W2TcNOvEJkIIEz6ayEQvwYQ7g_f3Lx2FP8864uSnNCDNHjar4YOJkOZQXKzqCYoV-PD46OAu0cN6fiIrJdHDuUnVsGobeSTk/s320/Rachel%20Carson.jpg" width="227" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Avviso ai naviganti: <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il mare intorno a noi</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un intenso concentrato di geografia, biologia, meteorologia, geologia, astronomia e un’altra mezza dozzina di materie scientifiche che Rachel Carson assembla e attraversa con sublime nonchalance. Le sue esplorazioni marine partono dagli abissi e dagli “oscuri inizi” del nostro pianeta, quando i fondali oceanici hanno avuto un ruolo determinante nella creazione della vita, animale e vegetale. Rachel Carson dimostra di sapere gestire un soggetto, quello del mare, che non è soltanto fluttuante, e in gran parte irraggiungibile, ma è naturalmente collegato a una miriade di fenomeni, che influenza e a sua volta subisce. Il vento, le precipitazioni, gli elementi in generale, i fiumi e le eruzioni vulcaniche, nonché l’azione dell’uomo contribuiscono a una mutazione senza fine. L’eccezionale capacità di Rachel Carson nelle spiegazioni della complessità dell’erosione e della salinità, dell’estinzione di intere specie, dei modelli di navigazione e delle derive dei continenti, del mistero dei canyon sottomarini o della formazione degli tsunami rende </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il mare attorno a noi</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> un viaggio affascinante e magnetico. Le descrizioni sono ricchissime ed entusiaste e portano a scoprire che i sedimenti delle dorsali sottomarine sono il libro della memoria della terra così come le isole apparse all’improvviso e poi perdute per sempre, da Atlantide a Krakatoa, sono gli effetti di un globo instabile e precario. Basterebbe l’esposizione con cui chiarisce la configurazione delle maree rispetto alla triangolazione tra terra, luna, e sole, ma poi bisogna districarsi tra globigerine e radiolari, la riproduzione del grunion e le abitudini dei calamari, le saghe norrente e i commerci mediterranei, gli ecosistemi nelle isole, l’evoluzione della specie e la “biografia” delle onde che la Carson racconta così: “Non vi è dunque acqua che appartenga interamente al Pacifico o interamente all’Atlantico o all’Oceano Indiano o all’Antartico. Le onde che oggi ci rallegrano a Virginia Beach o a La Jolla, anni prima possono aver lambito la base di un iceberg antartico o aver brillato nel sole del Mediterraneo, prima di spostarsi attraverso le buie e invisibili vie dell’acqua fino al luogo dove oggi le troviamo. Sono le profonde e nascoste correnti quelle che fanno un tutt’uno degli oceani”. Razionale e poetica nello stesso tempo, la sua è una circumnavigazione degli oceani, seguendo le correnti e le scie di navigatori ed esploratori che risalgono a secoli e secoli fa, compresi Coleridge, Melville, Poe, Darwin, Conrad. Le tracce nella storia aiutano Rachel Carson a collocare il mare nell’arco temporale della presenza umana, ma la sua indagine si inoltra alle origini della terra, e non lo nasconde: “La più sicura promessa risiede però probabilmente nel sottile pulviscolo di vita che rimane nelle acque superficiali, costituito dalle invisibili spore delle diatomee, alle quali non occorrono che il tocco del tiepido sole e i prodotti chimici fertilizzatori per rinnovare la magia della primavera”. Il vero tema che affiora è nell’interazione tra gli esseri viventi e gli eventi climatici che vede </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il mare intorno a noi</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> come se fosse uno sterminato laboratorio open air e la sua analisi mette in un angolo i luoghi comuni sul riscaldamento globale. Non lo nega, anzi lo intuisce e lo conferma (già nel 1961) ma lo colloca in una dimensione più ampia che peraltro non esclude sia l’anticipo di una glaciazione, come peraltro in molti hanno ribadito spesso dopo di lei, compreso, tra gli altri, Kary Mullis. La meraviglia e lo stupore che la distinguono non le impediscono di sottolineare i rischi ambientali rispetto alle esigenze umane, che rimangono piuttosto limitate, se non proprio distruttive. Questo Rachel Carson lo dice subito nelle primissime pagine, perché poi, pur suggerendo un’infinità di stimoli, con uno stile unico, arriva a condividere con umiltà, quella “sensazione dell’ignoto e dell’arcano che non si scinde mai completamente dal mare”. Una lezione magistrale.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-9595917583411787182024-01-24T23:23:00.000-08:002024-01-24T23:23:34.347-08:00Chris Frantz<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh-1GTZSLyKKzllk6ILEfqcgZA37JfFQKGmjE1WboZJEv1GS4xgu9EPz4bYVDHJz21pXaKpqona4pybngLrgYZggeqzizVgWA_DUOAE2-nA9QTefzU08IIzxbBlw0ZTP79mhVfRAAMbUXAbzf0G17eZNB5SXpHcqTdqPrcfyOhdmmcDhdQRkDNEg0fQ4xo/s1489/Chris%20Frantz.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1489" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh-1GTZSLyKKzllk6ILEfqcgZA37JfFQKGmjE1WboZJEv1GS4xgu9EPz4bYVDHJz21pXaKpqona4pybngLrgYZggeqzizVgWA_DUOAE2-nA9QTefzU08IIzxbBlw0ZTP79mhVfRAAMbUXAbzf0G17eZNB5SXpHcqTdqPrcfyOhdmmcDhdQRkDNEg0fQ4xo/s320/Chris%20Frantz.jpg" width="215" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Parafrasando il titolo del disco più famoso dei Talking Heads, <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Remain In Light</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, Chris Frantz, che insieme alla moglie Tina ha fornito la struttura portante, affida a un memoir il lungo racconto delle gesta artistiche e delle peripezie famigliari. La passione per la musica e per l’arte in età giovanile, il senso per il ritmo, la prima batteria, gli inizi nei loft di una New York in fiamme, sporca e pericolosa, il CBGB con Patti Smith, i Ramones, i Television, la Factory con Andy Warhol che “era il più famoso degli artisti, vivi e morti”, i primi contatti con l’industria discografica, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Pyscho Killer</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, la vita on the road, i successi (non pochi) e le sconfitte (altrettante) si alternano senza soluzione di continuità. Prendendolo così com’è, senza pretese e sapendo che si tratta pur sempre di una prospettiva del tutto personale, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Remain In Love</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è una lettura piacevole e molto aderente alla realtà dei Talking Heads, che sono stati una rock’n’roll band atipica, ma con un’importanza capitale nella ricerca e nell’evoluzione dei suoni e delle immagini, compresa la deviazione nella breve e fortunata esperienza dei Tom Tom Club. Detto questo, Chris Frantz è ben lontano da considerarsi uno scrittore e la ricostruzione è cronologica, senza particolari sbalzi e anche un po’ meccanica. Lo schema passa dai Talking Heads alla relazione tra Chris Frantz e Tina Weymouth che viene riportata di continuo al centro dell’attenzione. L’adorazione del marito verso la moglie, ed entrambi colleghi nei Talking Heads e nei Tom Tom Club, non è in discussione, ma lo stile è una stratificazione di aneddoti e non va molto più in là di una scrittura elementare, compreso il tono melenso quando parla della consorte. Se bisogna riconoscere a Chris Frantz una certa onestà di fondo, va detto che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Remain In Love</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> non supera i limiti congeniti dell’autobiografia. Il racconto, almeno dal punto di vista della prosa in sé, è troppo limitato: lo stile resta a metà strada tra un diario di viaggio e la cronaca di una rivista specializzata. I resoconti</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">dei tour, eccessi e avventure compresi, sono anche accattivanti, ma restano ancorati all’epica punk e rock’n’roll, senza che Chris Frantz si preoccupi di approfondirne le principali tematiche. Così, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Remain In Love</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si traduce in un susseguirsi ininterrotto di session, tour, backstage, soundcheck e incontri e scontri. Al suo attivo va senza dubbio aggiunta una congrua dose di sincerità visto che, se in via generale la sua versione dei fatti è bonaria un po’ con tutti, non manca di evidenziare i contrasti e le difficoltà con David Byrne, Johnny Ramone, Brian Eno, Phil Spector o gli Happy Mondays così come racconta senza alcuna censura il piano inclinato della dipendenza dalla cocaina, uno dei tanti benefit offerti dallo showbiz. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Remain In Love</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è accomodante, o almeno prova a esserlo, inserendo in parallelo alla tortuosa vita dei musicisti, l’idea di una famiglia solida che alla fine si ritrova a veleggiare tra i Caraibi e la costa atlantica, suggerendo a Chris Frantz una spicciola metafora: “Si potrebbe dire che abbiamo navigato per anni per il mondo inesplorato dell’arte e del rock’n’roll, superando tempeste, acque agitate e maree mutevoli”. La barca galleggia ancora, ma all’orizzonte è calma piatta.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-2008580745686951842024-01-17T06:01:00.000-08:002024-01-17T06:01:51.635-08:00Robert Greenfield<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 24px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0-CxXPtp5EOedbdSLjTOMS7oW0mCExCDSOfcnAnxAHORF7O8VOGDfnAQLF2z48IrTZ7nfgRrRm5KCD2vMxrcnpfTxxEfk1qJxZttkV0PhGB0iDI-L5L17tvWrxyXScDHS4IqCXYU9CSagkDmmHGViGiG4jpG_NGhhQcAQ29volHptaRu6dge6R40VEiQ/s1500/Robert%20Greenfield.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="1102" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0-CxXPtp5EOedbdSLjTOMS7oW0mCExCDSOfcnAnxAHORF7O8VOGDfnAQLF2z48IrTZ7nfgRrRm5KCD2vMxrcnpfTxxEfk1qJxZttkV0PhGB0iDI-L5L17tvWrxyXScDHS4IqCXYU9CSagkDmmHGViGiG4jpG_NGhhQcAQ29volHptaRu6dge6R40VEiQ/s320/Robert%20Greenfield.jpg" width="235" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Jessica Lange, una che l’ha conosciuto molto bene, ha saputo ravvisare in Sam Shepard “quella sregolatezza, quella sregolatezza tipicamente americana”. Il tratto che si distingue in questa corposa e a suo modo definitiva biografia è proprio quello e si sviluppa fin dalle prime battute, dove Robert Greenfield racconta: “Quando Sam Shepard stava crescendo, la California era ancora la nuova frontiera dove tutto sembrava possibile, il vero West dove prevaleva ancora lo spirito del fuorilegge. Negli anni, questa sensibilità permeò il suo lavoro, consentendogli di mettere in scena una visione della vita americana mai vista prima sul palco”. Il rapporto conflittuale con il padre, un ufficiale dell’aeronautica militare reduce dalla seconda guerra mondiale, e il suo alcolismo saranno una costante, così come le fughe repentine e senza meta. Un’inquietudine che ha trovato il suo approdo naturale a New York, dove Sam Shepard comincia a scrivere: “C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Non intendo farla passare per un’allucinazione, ma di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi sono limitato a mettere per iscritto”. Non si è fatto mancare nulla: Patti Smith a Joni Mitchell nel turbinio del Rolling Thunder (dove Dylan appare in una stanza per poi ricorrere ovunque fino alla fine), Londra e </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Zabriskie Point, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">gli Holy Modal Ramblers e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Paris, Texas</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, più di tutto la drammaturgia dalle minuscole sale del Lower East Side al premio Pulitzer, fino alla definizione del critico teatrale Michael Smith, per cui “la sua voce è distintamente americana ed è sua e di nessun altro”. Refrattario alle lusinghe dello showbiz, per tutta risposta al successo delle sue opere, Sam Shepard si è comprato una chitarra Stratocaster con il primo contributo della fondazione Rockfeller, giusto per qualificare la geografia di un indomito sognatore. Lì si addentra Robert Greenfield, che non ha soltanto una gran dimestichezza con il rock’n’roll, materia che ha bazzicato a lungo e che permea tutta la vita di Sam Shepard. Ha anche il pregio, non relativo, di una certa empatia con il protagonista. Una caratteristica non così scontata e quanto mai necessaria vista le turbolenze biografiche che si appresta a raccontare. Robert Greenfield lo fa con un tono molto rispettoso, ma senza esclusione di colpi, cercando di dare voce a Sam Shepard attraverso i suoi personaggi, quelli teatrali e quelli dei racconti e dei romanzi. Una saggia decisione perché Sam Shepard delegava alla fiction molte delle sue evoluzioni esistenziali, anche se Robert Greenfield ammette: “Non è mai stato facile da descrivere né da capire. Complicato e complesso sia come artista che come uomo, ha creato opere di prim’ordine pur rimanendo sempre un enigma, non solo per gli altri, ma anche per se stesso”. Lo stesso drammaturgo conferma l’impressione in una corrispondenza con l’amico Johnny Dark dove scriverà il 28 novembre 1983: “So di avere due parti in me che sono proprio incompatibili. Una è totalmente indisciplinata & vuole solo darsi all’avventura... E l’altra parte ha quest’aria da vita ordinata e disciplinata”. La contraddizione avrà riscontri dolorosi e in qualche modo curiosi, insiti già nel vero nome, Steve Rogers, che è lo stesso di Captain America, come se fosse una versione strampalata dell’eroe di Brooklyn. Ancora di più quando in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Uomini veri</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> interpreta Chuck Yeager, forse il più famoso pilota americano, lui che ha sempre odiato volare, preferendo guidare per migliaia di chilometri e chilometri, da costa a costa, in cerca di un luogo o di qualcosa mai ben definito, con Hank Williams nello stereo e le mani strette al volante. Puro movimento, finché un giorno, poco prima di tirare il sipario, Sam Shepard ha confessato: “Siamo diventati un’opera di Beckett... Sì, un’opera di Beckett”. L’assurdità della catastrofe acquista un senso in un frutto impazzito che, di motel in motel e di strada in strada, si è portato dietro un elenco spettacolare di attori e registi che si sono formati nelle sue pièce: Tommy Lee Jones, Gary Sinise, John Malkovich, Ed Harris, Ethan Hawke, Harvey Keitel, Sean Penn, Nick Nolte, Philip Seymour Hoffman, nonché l'intero immaginario di un’America che “non c’è più” e che forse è esistita soltanto nel gran teatro della sua mente.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-22430064641649513492024-01-15T01:27:00.000-08:002024-01-15T01:27:27.357-08:00Will Hermes<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3yY-a_MmHUR5WcQ55ZtcgikLF4G1_BmbF7crVQ9m2CR644OD6e0ARamC72RAoHbrqVrDKCPHCJgpLhklM9tKNPUJU_PFdJ8eW42Ea_R4Hz8VASa96Gyw8ztS6-BC9KDOA-Krd6FkMi36PR6z0raPo2Zj6e0BrRdEeYMFHR0KsTrm_P_EiH7tl7NZZv4c/s1357/Will%20Hermes.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1357" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3yY-a_MmHUR5WcQ55ZtcgikLF4G1_BmbF7crVQ9m2CR644OD6e0ARamC72RAoHbrqVrDKCPHCJgpLhklM9tKNPUJU_PFdJ8eW42Ea_R4Hz8VASa96Gyw8ztS6-BC9KDOA-Krd6FkMi36PR6z0raPo2Zj6e0BrRdEeYMFHR0KsTrm_P_EiH7tl7NZZv4c/s320/Will%20Hermes.jpg" width="236" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Dopo aver ascoltato Lou Reed per la prima volta, Suzanne Vega ha detto: “Cominciai a capire che potevo sperimentare. Si poteva scrivere una canzone senza un ritornello né una melodia. Non c’erano vincoli”. Sì, Lou Reed è stato l’artefice di una rivoluzione copernicana e Will Hermes ha bisogno di una biografia notevole e imponente per spiegarlo. Sono settecento pagine abbondanti e non tutte paiono così indispensabili: la ricostruzione delle radici famigliari che nei secoli arrivano fino in Polonia è macchinosa e fin troppo dettagliata. È vero che la cultura mitteleuropea avrà un peso significativo nell’espressione di Lou Reed, ma la sua proiezione verso il futuro meritava un altro slancio che viene compresso tra l’elettroshock, Delmore Schwarz, l’università e le origini primordiali di una personalità complessa. Con l’arrivo dei Velvet, la storia prende tutto un altro ritmo. Hanno cambiato il volto del rock’n’roll e Will Hermes puntualizza che per loro “l’attitudine estetica punk era un modo per sopravvivere in un mondo che voleva a tutti i costi ucciderti: il punto non era glorificare il punk, e neanche mandare affanculo il mondo, ma essere onesti sulle strategie che le persone adottano in una situazione disperata”. Lou Reed è davvero l’interprete di quel salto nel vuoto e aveva ragione John Cale: “Scriveva di cose di cui non parlava nessuno”. Su questo Will Hermes si spende con generosità ricamando a lungo sulle qualità letterarie di Lou Reed. Nessun dubbio, in proposito, inclusa l’influenza di Andy Warhol sui Velvet Underground: “Dal punto di vista estetico, Warhol sicuramente rafforzò e probabilmente amplificò l’idea di Reed di trovare la bellezza nel brutto, nel banale, nel vituperato e nel disprezzato; Warhol condivideva la predilezione di Reed per la ripetizione, il rumore, la distorsione e la frequente aspirazione alla trascendenza”. New York è limitata a una parte, il Lower East Side, come territorio in cui si incrociavano le tensioni di “una città che in fondo rispetta solo gli imbrogli”. Una definizione quanto mai pertinente, fin dalle prime esperienze nel music business, un mix tra ladrocinio e passione che come al solito Lou Reed affrontò a modo suo e che si può riassumente con una presentazione dal vivo dei Velvet Underground: “Non voglio che nessuno di voi ascolti le nostre canzoni in modo superficiale, perché sarebbe contro la politica nazionale, che fa pure rima, comunque. I poeti sono fatti così”. Patti Smith non comprendeva “l’intensità” di alcuni tratti come scrive in <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">A Book of Days </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">perché Lou Reed sapeva essere una bella spina nel fianco (eccome) e Will Hermes non risparmia nulla: i matrimoni e le separazioni, i contrasti con i manager e i discografici, i litigi con i musicisti, dai Velvet in avanti, la necessità di avere il controllo di sé, del suo lavoro e del suo personaggio. Interessante il parallelo con</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> Frankenstein</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e Mary Shelley, anche lui una creatura che si ribella al proprio creatore solo che nel caso di Lou Reed le due figure coincidevano tant’è che Will Hermes lo definisce “un ventriloquo compassionevole che sembrava sempre intento a comprendere se stesso e il suo soggetto”. È proprio nel passaggio dai Velvet a Lou Reed che si addensa la popolazione che affolla la sua biografia: David Bowie, Jim Carroll, Jonathan Richman, Lenny Kaye, Iggy Pop, Lester Bangs, la stessa Patti Smith. Dalle gestazioni di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Transformer </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Berlin </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">in poi, disco per disco, c’è tutto: la reunion provvisoria dei Velvet e la tragica storia di Nico, Doc Pomus, l’omaggio a Edgar Allan Poe e l’incontro con i Metallica. Al centro c’è comunque la personalità tormentata di Lou Reed, il tentativo di limitare i danni (“Mi hanno detto che devo sorridere quando dico una battuta. Così mi sto allenando”) poi i riconoscimenti (tardivi), l’incontro con Laurie Anderson e gli ultimi, drammatici momenti. Resta la brutale bellezza di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">New York</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, (l’album e la città, insieme) e in particolare la puntualità di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Halloween Parade</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, come dire la nemesi di tutto un demi monde cominciato con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Walk on the Wild Side</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e finito con le fosse comuni per l’AIDS nel Bronx, per non dire dell’11 settembre. Quella mattina, Lou Reed commentò: “Siamo a New York, sono cose che capitano”. Incredibile.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-43997396577601743752024-01-08T06:48:00.000-08:002024-01-08T06:48:26.514-08:00Rachel Carson<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhiTLZOFydjoInXw3rlM-oYR1cB1pxGz54HEOwpy9FYcG36QyiTtLIn-KOkYzfVEIrKUXdihf_TytaYuCOyHUYL6TkyM4C2-AvfG5TTgEdWD4wX8nn_eXxrweaU7s4tWbY-MnkCpHhPrEaPRZ6eqczrnyxDjZs_HeMQD7f4RojE4BOEpOXLxxUuRW70diI/s630/Rachel%20Carson.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="630" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhiTLZOFydjoInXw3rlM-oYR1cB1pxGz54HEOwpy9FYcG36QyiTtLIn-KOkYzfVEIrKUXdihf_TytaYuCOyHUYL6TkyM4C2-AvfG5TTgEdWD4wX8nn_eXxrweaU7s4tWbY-MnkCpHhPrEaPRZ6eqczrnyxDjZs_HeMQD7f4RojE4BOEpOXLxxUuRW70diI/s320/Rachel%20Carson.jpg" width="215" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Il silenzio tra le dune, i suoni negli abissi, le rotte segrete delle anguille, i movimenti dei molluschi, lo stupore di fronte a un’onda, a uno scoglio, a una conchiglia: Rachel Carson parte e ritorna all’oceano che “è una presenza immediata, perentoria, impossibile da ignorare”. È all’inizio di tutto ed è anche una parte consistente di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una favola per il futuro</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, perché “il vero spirito del mare non risiede nell’onda delicata che lambisce una spiaggia balneare immersa nella luce del sole d’una giornata estiva. Piuttosto, è in una costa solitaria all’alba o al tramonto, oppure nel buio d’una tempesta o della mezzanotte, che percepiamo un qualcosa di misterioso e lo riconosciamo come realtà del mare”. La sua contemplazione, a cui Rachel Carson dedica una vasta gamma di descrizioni, ci fa capire che “il tempo è come il mare, contiene tutto quando ci ha preceduti, prima o poi ci spazza via sommergendoci e lava e cancella le tracce della nostra presenza”. Questa dedizione marina è un’ouverture quanto mai pertinente nel complesso di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una favola per il futuro</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">:</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">si tratta di una corposa antologia di articoli, discorsi e lettere comprensiva delle introduzioni a </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primavera silenziosa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e a </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il mare intorno a noi </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">che offre un punto di vista intimo del lavoro e dell’espressione letteraria di Rachel Carson. Materiali che provengono da uno spettro molto ampio della vita e della sua carriera e sono raccolte in un volume curatissimo da Linda Lear, già sua biografa. Per la loro estensione rappresentano un’efficace panoramica della percezione di Rachel Carson e della sua premura rispetto alla conservazione e alla protezione dell’ambiente. Se la biologia è solo l’inizio, il mare è il punto di partenza, ed è la fonte primaria di ispirazione per Rachel Carson così come lo è stato per la vita in generale. A bordo di un peschereccio, nelle Everglades o lungo una costa atlantica, il punto di vista somma la scrittura scientifica e quella più narrativa, gli aspetti razionali e quelli emotivi. Le descrizioni sono appassionanti, non di rado poetiche, e prediligono “meraviglia e umiltà” tant’è che il rapporto con il mare non è soltanto metodico: c’è un processo di identificazione e di riflessione che si protrae nelle esplorazioni di Rachel Carson. La generazione della vita nell’acqua del mare resta un mistero anche per lei, e la ricerca di una risposta passa attraverso una prosa essenziale e spontanea: “La materia della scienza è la materia della vita stessa. La scienza è parte della realtà della vita; è il cosa, il come e il perché di tutto quello che ricade nella nostra esperienza. È impossibile capire l’essere umano senza comprendere il suo ambiente e le forze che lo hanno forgiato, fisicamente e mentalmente”. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Comprendere la biologia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> nella limpida spiegazione di Rachel Carson “significa capire che il flusso della vita, che scorre da un passato indistinto verso un futuro incerto, è in realtà una forza unificata, benché composta da un numero e una varietà infiniti di vite separate. Nella sua essenza, la vita è vissuta allo stato libero”. Questo è vero così come la certezza che “fin dall’inizio del tempo biologico, vi è stata la più intima interdipendenza possibile tra l’ambiente fisico e la vita che esso sostiene”. Detto questo, un tratto comune e ricorrente in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una favola per il futuro</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è l’urgenza di avvertire un pericolo, oggi più necessaria che mai: “Il genere umano si è spinto molto lontano, in un mondo artificiale di sua creazione. Ha cercato di isolarsi, nelle sue città di acciaio e cemento, dalle realtà della terra, dell’acqua e del seme che germoglia. Ebbro nel percepire il suo stesso potere, sembra spingersi sempre oltre, in nuovi esperimenti per la distruzione del sé e del suo mondo”. Nel tentativo di riportare l’attenzione alle corrispondenze e i vincoli naturali, Rachel Carson si prodiga nel sollevare le questioni ambientali, della condivisione e della tutela del pianeta su cui viviamo, dagli sforzi in difesa a </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primavera silenziosa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> fino agli ultimi giorni, e sono avvertimenti sempre validi. Nella ricca composizione di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una favola per il futuro</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> c’è però spazio per un ennesimo, piccolo gioiello: lo script per un programma televisivo sulle nuvole, che riesce a sommare una rara e preziosa capacità divulgativa con una grazia unica, e allora ricorrono le parole di Richard Jefferies quando diceva: “Le ore in cui la mente è assorbita dalla bellezza sono le uniche in cui viviamo veramente. Tutto il resto è illusione, o mera resistenza”. Se c’è </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una favola per il futuro </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">si trova lì, e da qualche parte, là in mezzo al mare.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-23243758859023697192024-01-03T02:13:00.000-08:002024-01-03T02:14:53.425-08:00T. C. Boyle<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 24px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6bn1FpoUJGXUF2JkRFdIfj7hXYo7PuUS-v31AesMUEZfjkxabeaDGZJwDf1W6c1qoF__gkYp45VaHTOI4nNNC0BARzU9O7FEJ6wrGKC2DUCywsmeAMMmjqVHoSQR1OJrAr-GzdJYq1_Cz7FyHJDOTAfsQne3Qn4PwcYznEfYzNauw6eTbPZKoUx97sus/s1361/T.%20C.%20Boyle.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1361" data-original-width="882" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6bn1FpoUJGXUF2JkRFdIfj7hXYo7PuUS-v31AesMUEZfjkxabeaDGZJwDf1W6c1qoF__gkYp45VaHTOI4nNNC0BARzU9O7FEJ6wrGKC2DUCywsmeAMMmjqVHoSQR1OJrAr-GzdJYq1_Cz7FyHJDOTAfsQne3Qn4PwcYznEfYzNauw6eTbPZKoUx97sus/s320/T.%20C.%20Boyle.jpg" width="207" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Il senso delle proporzioni e il gusto della prospettiva dell’architettura di Frank Lloyd Wright non hanno trovato altrettante corrispondenze nella sua storia sentimentale e famigliare. Rileggerne la figura attraverso </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Le donne </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">è un processo molto interessante che permette a T. C. Boyle di allargare la visuale e nello stesso tempo di sfoderare un ritmo con una cadenza jazzistica che non concede un attimo di tregua. La teatralità dei personaggi, proprio a partire dalle tre mogli (Kitty, Miriam, Olgivanna) e senza dimenticare la relazione con Mamah, garantisce carburante a sufficienza, anche se in sostanza lo schema un po’ si ripete: l’amante e/o la consorte di turno entra nella vita di Frank Lloyd Wright e la mette a soqquadro e da lì T. C. Boyle, prendendosi tutte le licenze necessarie catalizza l’attenzione. La prosa, ricca, avvincente e perfettamente mirata, comprende i continui eccessi, gli alti e i bassi, i colpi di testa, tutti gli aspetti emotivi che, non di rado, in mezzo ai drammi matrimoniali, diventano comici e surreali. Le esagerazioni della narrazione di T. C. Boyle corrispondono alla complessità della figura di “Frank Lloyd Wright, il grand’uomo, incantatore di stranieri, seduttore di donne, dio del proprio universo”, volitivo e pantagruelico, eppure “sempre sull’orlo del disastro, economico e professionale”. Un’esistenza costellata da trasferte (memorabile quella in Giappone) coincidenze, casi e destini, turbolenze e risse, che trova nel feudo di Taliesin nel Wisconsin il luogo d’elezione dove, a seconda del momento specifico, prendono forma l’ordine e/o il caos. Sato Tadashi, il protagonista e narratore che ci guida tra </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Le donne</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">, uno dei tanti apprendisti che hanno condiviso gli spazi e il volubile clima attorno a Frank Lloyd Wright lo illustra così: “Quella era casa mia, la mia casa ideale, se il mondo fosse stato un posto migliore e a governarlo fosse stata l’estetica invece che la necessità. E la crudeltà”. È proprio da lì che T. C. Boyle</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">fa partire il viaggio a ritroso nel tempo e il senso inverso della ricostruzione implica non poche sorprese, a partire dalle repentine apparizioni di Miriam. È inevitabile segnalarla come il personaggio più appariscente tra tutte </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Le donne</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> di Frank Lloyd Wright. Lei, “un’arpia ingioiellata e con turbante, gli artigli di fuori e le mascelle spalancate in un disumano grido oltraggiato, non cerchiamo e non avremo pietà” è quella che più di tutti sconvolge i piani di Frank Lloyd Wright e si ribella al suo volerla soltanto come “qualcosa di decorativo”. La sua figura coinvolge T. C. Boyle nel renderla così appariscente, compreso il burrascoso e interminabile divorzio che completa il ciclo di matrimoni e separazioni. Il meccanismo a orologeria è ben congegnato con un finale perfetto (che potrebbe essere benissimo l’inizio): </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Le donne</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> è un lavoro coraggioso che immagina e rielabora i tempi Frank Lloyd Wright anche se, alla fine, “la questione, la questione dell’amore, rimase senza risposta, allora e in seguito”, e su questo non c’è ombra di dubbio.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-19887594288165015932024-01-02T01:44:00.000-08:002024-01-02T01:45:09.659-08:00Saul Bellow<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGCKMKj6GVwPDx_Nhq4Ru4jrmrFdEG7kplSoasUa6U8s_wMrQ9z0doccgTNz4wSnfT6Qv_BAbVuiSq8YZ9qcIGPB5wqIu-uAsqOtJ3tsy-Ilmr6p4HKBdGPhudGEhaXZZu1GSv7kPoo7RVv65s1UIoWBcVuZVZUyL8OHwdLs3heDS6mqXR9WWGGT17c4A/s900/Saul%20Bellow.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="573" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGCKMKj6GVwPDx_Nhq4Ru4jrmrFdEG7kplSoasUa6U8s_wMrQ9z0doccgTNz4wSnfT6Qv_BAbVuiSq8YZ9qcIGPB5wqIu-uAsqOtJ3tsy-Ilmr6p4HKBdGPhudGEhaXZZu1GSv7kPoo7RVv65s1UIoWBcVuZVZUyL8OHwdLs3heDS6mqXR9WWGGT17c4A/s320/Saul%20Bellow.jpg" width="204" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">“La bellezza è solo per i coraggiosi” scrive Saul Bellow e per inoltrarsi in <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">Ne muoiono più di crepacuore</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"> bisogna mettere in conto una prova e insieme un’esperienza dovuta al fatto “che l’essere umano non riesce a chiudere intorno a sé l’indumento che ha scelto. Forse l’artista non riesce ad abbottonarsi bene per via degli obblighi che ha verso il suo prossimo”. Il protagonista, lo zio Benn è a suo modo un eccentrico e un outsider, per quanto apprezzato e appassionato botanico, nonché libero pensatore. Le conversazioni tra Benn e il nipote Kenneth sono l’occasione per trasformare la storia in un delirio (molto) teatrale: l’intricato ménage genera un flusso incontrollabile, dove il linguaggio si riversa in mille rivoli. Il ritmo della scrittura non perde una battuta nemmeno per sbaglio: è un fluire costante, un florilegio di argomentazioni e di divagazioni senza sosta, come se ci fosse una corrente alternativa che comprende Billie Holiday ed Edgar Allan Poe, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">Psycho</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"> e che tende a “creare una coscienza”, primo e importante passaggio evolutivo di cui tenere conto. Diceva Saul Bellow del suo eroe per caso: “Lo zio è una persona vera. Non devia mai dalla sua natura originaria” e, conseguenza diretta e immediata,</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">“desiderava era di vivere tranquillo, due esseri legati l’uno all’altro dall’amore e dalla tenerezza: è questa una meta universale”. L’incontro, e poi il matrimonio, con Matilda solleva un vespaio incredibile laddove “se ne conclude insomma che uomini e donne sono decisi a ottenere (o a strappare) gli uni dagli altri ciò che non si può ottenere in nessun modo”. La liaison è particolarmente tormentata: se è vero che “l’amore è uno di quei poteri dell’anima non soggetto a coscrizione. Crea la bellezza, crea la forza: certe volte per scopi speciali, quando è veramente ispirato, crea addirittura dei nuovi organi. Senza l’amore, la coscienza critica riduce il prossimo nelle sue parti costituenti, lo disintegra”, è altrettanto necessario notare che “Benn era un artista delle piante che non era qualificato per diventare un artista dell’amore”. Gli intrighi che avvolgono Matilda e la famiglia spostano l’attenzione verso l’economia e la politica americane, dove “la maggior parte delle persone sono costruite, per lo più da loro stesse” e qui il tono della commedia e il sarcasmo pungente riescono a evidenziare molto bene certi processi: “Visti così, nero su bianco, i fatti erano terribili. Nessuno dava la minima importanza allo zio quando rimaneva un innocuo eccentrico con il pallino della morfologia, non più preoccupante di uno che vada in giro a registrare versi d’uccelli, ma non appena fa una mossa per salire a un livello sociale più significativo, ecco che attira l’attenzione di gente il cui interesse sarebbe meglio non risvegliare”. Funziona così e la sfida è vivere “nel mezzo di un grande frastuono politico” con un minimo di lucidità che di sicuro a Saul Bellow non è mancata: “Anche gli USA, questa enorme impresa post-storica che regge i nostri destini, perdeva di slancio, s’afflosciava, si faceva molle. A questo punto affiorò dentro di me l’orribile sospetto che il prezzo del dinamismo degli USA fosse più alto di quanto non avessi calcolato”. L’identità non è solo una questione nazionale (“Che altro è infatti la vita in una moderna democrazia, se non la ricerca di un modello da interpretare? Nessuno dice: voglio essere me stesso. Tutti dicono: vediamo chi scegliere di essere”) e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">Ne muoiono più di crepacuore </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">è</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0);">un libro scomodo, enorme, per come si sviluppa, per come circonda il lettore e scava nelle interazioni personali e politiche senza falsi pudori. Un romanzo tortuoso e provocatorio, inesauribile e pirotecnico, e spesso e volentieri disorientante, ma che apre uno squarcio sul mondo moderno, come pochi altri sono riusciti a fare, quando Saul Bellow sentenzia: “Il segreto nel nostro essere chiede ancora di venire svelato. Solo adesso capiamo che arrovellarsi per risolverlo e rigirarlo su tutte le parti non serve a nulla. Il primo passo è di fermare queste oscillazioni della coscienza che mi tengono sveglio. Solo, prima di ordinare alle oscillazioni di fermarsi, prima di pagare il conto e di andarsene, bisogna porsi in una posizione tale per cui i sussidi metafisici possano avvicinarci”. Se da una parte il sistema si autotutela e muta come un virus per salvaguardarsi (“Tutti i regimi sono più o meno fatti così. Grandi inquisitori che proteggono la fragile moltitudine”), dall’altra viene in soccorso la fantasia “proprio perché il mondo comune, il mondo cosiddetto normale, ci spinge in quella direzione con le maree irrazionali che vi penetrano”. Oggi più attuale che mai.</span> </div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-53913846999916524842023-12-30T03:25:00.000-08:002023-12-30T03:25:28.072-08:00Robert Stone<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFUHomkYAcfPFVrmKAoD_hQqX-hFhBEcPmAV9FSzXnfHl6WvVrCpns9S_cz9SgvU_IeU_m5SQORNcJ0rMSH-YA_y5mYjDs3S8v60wgF2Mx4iJ7SymxcVm6L-mjukY6utDxyfQN_NmoxFQkoHJdvjU7DDea_AP0lqiTD8A-vqCiJkc_ZZw7jOkJ6oEiEHU/s727/Robert%20Stone.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="727" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFUHomkYAcfPFVrmKAoD_hQqX-hFhBEcPmAV9FSzXnfHl6WvVrCpns9S_cz9SgvU_IeU_m5SQORNcJ0rMSH-YA_y5mYjDs3S8v60wgF2Mx4iJ7SymxcVm6L-mjukY6utDxyfQN_NmoxFQkoHJdvjU7DDea_AP0lqiTD8A-vqCiJkc_ZZw7jOkJ6oEiEHU/s320/Robert%20Stone.jpg" width="236" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Visto che si comincia dal Vietnam, le “obiezioni morali” sono rimosse, a priori e senza tanti complimenti. C’è una sostanziosa partita di eroina da smerciare, un’idea di Converse, reporter inconcludente e con un sensibile fiuto per i disastri, che si giustifica così: “Abbiamo versato lacrime per l’oltraggio alla dignità umana, e quindi possiamo dire quel cazzo che vogliamo”. Quello è il punto di partenza e la storia di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Dog Soldiers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è annodata a quel carico, come incatenata a un macigno lanciato nell’oceano. Converse lo affida a Hicks, che dovrebbe portarlo alla moglie, Marge, e, fin dal loro incontro, con “quel senso di indolenza tipico di Los Angeles”, non c’è più niente che funzioni. Come tutti i migliori loser l’unica prospettiva è la fuga, ma si capisce subito che, così come la loro improvvisata relazione, è senza speranza. Appena partiti Hicks osserva: “A sinistra la merda di Los Angeles. A destra solo il vento. L’esercizio si chiama </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Percorri la tua strada fino a schiantarti</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”. Viva la sincerità: il senso unico impone a </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Dog Soldiers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> l’andamento serrato di un road movie, dato che “dopo tutto era la California, e non c’era nulla, dal suicidio all’insurrezione civile, che si potesse portare a termine senza macchina”. La droga che gronda dalle pagine (non solo l’eroina, ma anche cocaina, anfetamine, pillole, siringhe, overdose, di tutto) in quantità illimitata determina condizioni allucinanti e deviate. Si rischia la vita ad ogni passo e il paesaggio appare indefinito in una spessa nebbia, dove ogni personaggio di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Dog Soldiers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> sembra inseguire la propria ombra. Non c’è un posto dove andare e Marge e Hicks si rifugiano in una comune gestita dal guru Dieter e dal figlio Kjell. Per Hicks è una sorta di ritorno a casa, non privo di valenze simboliche quando dice a Dieter: “Non si può vivere solo di pesca alla trota e luci stroboscopiche. Abbiamo dei vecchi doveri da rispettare”. Preso atto della citazione di Richard Brautigan, la scelta di rintanarsi lì risulta ovvia e maldestra, essendo l’unico luogo che potrebbe accoglierli, e infatti si ritrovano ben presto inseguiti e circondati. Intorno ai due chili di eroina, che sono l’oggetto del desiderio di tutti, si mobilitano outsider di prima categoria, che non badano ai mezzi per raggiungere ai loro scopi (in realtà soltanto uno: scoprire dove è finita la roba). Una delle figure più ambigue, Antheil, dice a Converse, ormai vittima del suo stesso piano: “Eccome se sei nei guai, amico mio, e pure quella matta di tua moglie. Se agisci in buona fede c’è la possibilità che ti salvi la vita. Se mi prendi per il culo ti guarderò morire”. Questo è il clima e la discesa negli inferi collima con l’evoluzione (anche metaforica) dalla desolazione urbana alle foreste fino al deserto, che incombe dall’inizio e presenterà il conto alla fine. Il punto di vista di Robert Stone è a distanza ravvicinata, per non dire a bruciapelo. Sposta spesso l’attenzione su un personaggio o sull’altro, passando da Converse a Hicks (e Marge) mentre il tentativo di smerciare l’eroina deraglia, come un’ennesima follia californiana. Un’ottica cinematografica che porta a vedere i movimenti e le azioni di protagonisti che hanno “bisogno di motivazioni”, e sono solo la voce di una disperazione diffusa. D’altra parte </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Dog Soldiers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> evidenzia, in modo inequivocabile, le fallimentari condizioni mentali dei delinquenti e quelle generali della California dell’epoca che, se è punteggiata dalle canzoni di Bob Dylan, Johnny Cash, dei Creedence e di Ray Charles, rivela un lato oscuro e deprimente, violento e noir, come se fosse una ballata di Warren Zevon. E per una serie di coincidenze (un altro triangolo irrisolto, un altro reduce, un’altra missione senza senso e altre strade imbottite di roba) l’atmosfera di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Dog Soldiers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> (1974) collima con quella di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Un buongiorno per morire</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> di Jim Harrison (1973). Infilateli uno accanto all’altro e avrete il miglior ritratto della dissoluzione americana di quegli anni.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-33123930404491001012023-12-29T03:38:00.000-08:002023-12-29T03:39:15.200-08:00H. D. Thoreau<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy1TSmcqaFNjwxA4XqRj40dpq83aaN6wPsRt4X16zNeGp5k5JtXLKU0ZG3ObfJ1UKULjmpUZQXJeh3sY9KjKqAn6ie1tif_6KWzOMNxcK_rZC352psrFWMsCFnubXn39xhyphenhyphentuxySQlQmeUployYOBKRsqZUsbeXl8RQAj45iI9DBmJ58Dg8bBEHewg-PQ/s686/H.%20D.%20Thoreau.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="686" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy1TSmcqaFNjwxA4XqRj40dpq83aaN6wPsRt4X16zNeGp5k5JtXLKU0ZG3ObfJ1UKULjmpUZQXJeh3sY9KjKqAn6ie1tif_6KWzOMNxcK_rZC352psrFWMsCFnubXn39xhyphenhyphentuxySQlQmeUployYOBKRsqZUsbeXl8RQAj45iI9DBmJ58Dg8bBEHewg-PQ/s320/H.%20D.%20Thoreau.jpg" width="198" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Il Canada è soltanto una scusa. La breve trasferta nel Québec, una manciata di giorni all’inizio dell’autunno 1850, non è di sicuro sufficiente a fornire un quadro soddisfacente di un territorio vasto e complesso. Thoreau sembra esserne consapevole e lo conferma senza esitazioni: “La sola cosa che desideravo era arrivare in Canada, e farmi una bella passeggiata, proprio come avrei fatto in un pomeriggio qualunque nei boschi di Concord”. Le differenze, però, ci sono a partire dall’attrito linguistico tra l’idioma anglosassone e il francese che genera non pochi momenti di imbarazzo e ilarità. Thoreau si convince che “con <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">bon jour</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e toccandosi il cappello si può attraversare senza problemi tutto il Canada” e, nonostante le difficoltà di comunicazione, il fascino di scoprire un territorio diverso, lo convince che il Canada “non era semplicemente un posto dove terminavano le ferrovie e dove si rifugiavano i criminali”. Thoreau si dilunga nelle descrizioni dei fiumi (“La loro </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">riviére</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> serpeggia più del nostro </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">river</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”), delle cascate (“Le cascate da queste parti erano come una droga, e noi ne diventammo dipendenti. Ce ne eravamo abbeverati troppo”) e più in generale dei paesaggi. Il suo è un esercizio di osservazione, un reportage di viaggio limitato ma denso che cerca una visione degli sviluppi economici, delle attività agricole (“È meglio pianificare in modo generoso quando si è giovani, perché allora la terra è a buon mercato, ed è fin troppo facile restringere i nostri piani in seguito”) ed è tutto un florilegio di dettagli di botanica, storia, topografia. Per inciso, la presenza di fortezze e di muri nonché di truppe armate sparse per il territorio è motivo per cui anche nell’occasione, piuttosto bucolica, Thoreau non perda l’occasione per sfoderare la sua verve polemica e antimilitarista: “Non ho dubbi che i soldati ben addestrati siano, come categoria, peculiarmente privi di originalità ed indipendenza”. La diretta conseguenza è che “è impossibile addestrare bene un soldato senza renderlo un disertore. Il suo nemico naturale è lo stesso governo che lo addestra”. Un’attenzione altrettanto tagliente è dedicata al rapporto con il passato e a come influenza il presente, dove Thoreau si accorge che “persino i nomi dei più umili villaggi canadesi” lo colpivano “come quelli di famose città dell’antichità”. La denominazione è il più importante indizio sulle mappe e, in un certo senso, anche il punto di non ritorno di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Uno yankee in Canada</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: “In un nome c’è tutta la poesia del mondo. È una poesia che la massa degli uomini sente e legge. Cos’è la poesia nel senso comune, se non un susseguirsi di simili nomi, così orecchiabili? Non desidero niente di più di una bella parola. Il nome di una cosa per me può facilmente valere più che la cosa in sé. Il riconoscimento da parte dell’uomo di ogni cosa della natura, e il suo legare la propria vita ad esso, è indicibilmente bello. Tutto intorno conferma questa sottile verità, che una volta lì crescevano i pioppi; e la rapida deduzione che ne consegue è che gli uomini erano lì a guardarli. E sarebbe lo stesso con i nomi dei nostri villaggi nativi e vicini, se non li avessimo profanati”. La distanza geografica con gli Stati Uniti così come il viaggio sono relativi, ma Thoreau non si esime di pronunciare un’ultima sferzante sentenza: “Mi divertì il fatto che, dopo il nostro ritorno, qualche persona meno avvezza a viaggiare ci domandò se ci era stato facile rimediare una sistemazione; come se uno viaggiasse all’estero per sistemarsi, quando questo si può invece fare comodamente a casa”. Una volta di più, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Uno yankee in Canada</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è la dimostrazione che, come scriveva John Aldrich Christie, prima di tutto ci sono “continenti ed emisferi della mente” da esplorare e Thoreau resta la guida migliore.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-26525941893980632702023-12-28T02:54:00.000-08:002023-12-28T02:58:46.017-08:00Patti Smith<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 26px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi81DeeBfBMr7a8fSBVln_-yseGas4C8i7huRcudLD4USf2oqkAEjmS42UDjjE1JvXgosiShOS1OrJdREqS_CmFEuQ9KQOvaqZ4koZSEm3uoojLsWTH65Ash8zlBR6oBkUtsgXh1XXROopi9zut0IzS-QS1F8XIYETciKCWxdEjFtwLfGuPhbZTKJbiHMg/s738/Patti%20Smith.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="738" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi81DeeBfBMr7a8fSBVln_-yseGas4C8i7huRcudLD4USf2oqkAEjmS42UDjjE1JvXgosiShOS1OrJdREqS_CmFEuQ9KQOvaqZ4koZSEm3uoojLsWTH65Ash8zlBR6oBkUtsgXh1XXROopi9zut0IzS-QS1F8XIYETciKCWxdEjFtwLfGuPhbZTKJbiHMg/s320/Patti%20Smith.jpg" width="232" /></a></div><span style="font-family: georgia;">Nella fotografia del 29 gennaio di un anno bisestile e singolare, Patti Smith è ritratta seduta come la madre, un po’ di traverso sulla sedia, il volto appoggiato a una mano, lo sguardo perso nel vuoto, “senza pensare a niente”. C’è voluta una vita intera per capire cosa fosse quel “niente”, una sterminata galassia in cui si è proiettata puntando al futuro e “rispecchiando il passato, la famiglia e un’estetica personale coerente”. Il senso di <i>A Book of Days</i> è tutto nel tentativo di isolare un almanacco fotografico di ricorrenze, anniversari, compleanni in omaggio alla band e al suo inner circle, alle sue fonti di ispirazione, alle influenze e ai punti di riferimento. È anche un elenco di personaggi, una collezione di ritratti che Patti Smith ha messo insieme nel corso del tempo indefinito della pandemia, quasi a voler mantenere vivo un contatto speciale e a rimanere vicina ai suoi sogni in un momento, per lei come per tutti, che aveva la stessa energia e vacuità di un buco nero. Per chi segue da un po’ Patti Smith ci sono istantanee che ci sono già state proposte, e più di una volta, e lei stessa non ne fa mistero: “Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo”. Ritroviamo Robert Mapplethorpe e William Burroughs, New York (prima e dopo l’11 settembre: “Ci inchiniamo per ricordare i defunti, poi ci alziamo per abbracciare i vivi”) e Big Sur, Bob Dylan e Jerry Garcia, Parigi e Firenze. Le reiterazioni fanno parte delle tappe di una viaggiatrice instancabile, curiosa, predisposta a cogliere nel ricordo un’occasione per rivedere, e reinterpretare, a dispetto delle circostanze avverse. Gli appunti di viaggio gli regalano “la soddisfazione di essere in movimento, anche quando non ci si muove” e i pellegrinaggi, reali o immaginari che siano, sono sottolineati da didascalie brevissime, limitate, minuscole, sempre accorate, a volte leggere e minimali, altrimenti più taglienti e approfondite. Contengono comunque tutto il tempo di Patti Smith: il resto sono i suoi scatti passati dalle Polaroid al cellulare, come ormai era inevitabile, che dipanano una volta di più l filo sottile che unisce un’inquadratura all’altro, giorno dopo giorno che poi è quell’afflato verso l’arte e tutto ciò che può rappresentare un stimolo verso la bellezza. Patti Smith ammette: “Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione”, e questo è un po’ il motivo fondante di <i>A Book of Days</i> e potrà apparire strano che tra lapidi e lutti, lo consideri “un luogo di conforto” ma è perché scrittori, letture, visioni, artisti, ricordi famigliari<span class="Apple-converted-space"> </span>toccano luoghi e coordinate che rappresentano tutte le esperienze artistiche. L’ordine è casuale e comprende la casa di Rimbaud, un coltello di Sam Shepard, la chitarra di Kevin Shields dei My Bloody Valentine e poi Joan Baez, Akira Kurosawa, Martin Luther King, Borges, John Coltrane, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Werner Herzog, Rimbaud, Baudelaire, Beckett, Jimi Hendrix, Hank Williams finché parlando di Goethe Patti Smith arriva a concludere che “le grandi opere ispirano, il resto sta a noi”. Poi c’è solo il “niente”, ma quello è un altro discorso.</span></div><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-32658091860600971512023-12-20T03:46:00.000-08:002023-12-20T03:47:06.878-08:00Rick Bass<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhND_I8O52PSTLHLEMCFHR3jO52UQ08ShbNFEh2zdYVyRMHKPUH49SvXeX10O7hf2N5rsUH8yNEjDZOf1cUlo-Di2PXCV2rUWb1q2yjeKC-dULheMXUy20aR892tfTsT2oDNyvJRMTehC9Om-Kmd0QkaYDhLztLEPluYBogPe8jsIcxQCZH1TuC4DKjJQQ/s635/Rick%20Bass.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="635" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhND_I8O52PSTLHLEMCFHR3jO52UQ08ShbNFEh2zdYVyRMHKPUH49SvXeX10O7hf2N5rsUH8yNEjDZOf1cUlo-Di2PXCV2rUWb1q2yjeKC-dULheMXUy20aR892tfTsT2oDNyvJRMTehC9Om-Kmd0QkaYDhLztLEPluYBogPe8jsIcxQCZH1TuC4DKjJQQ/s320/Rick%20Bass.jpg" width="214" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">È il giugno del 1954 quando The Browns pubblicano il loro primo singolo, <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Looking Back to See</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">. Il mese dopo Elvis arriva con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">That’s All Right</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Blue Moon of Kentucky</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e niente sarà più come prima. Le loro storie si ingarbugliano nel corso degli anni, ma </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nashville Chrome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è dedicato in particolare proprio ai fratelli Brown che, prima di intraprendere la carriera di musicisti, sono parte di una famiglia di Poplar Creek, nel profondo rurale dell’ Arkansas. Rick Bass li presenta così: “Maxine era la più grande, Jim Ed aveva due anni meno di lei, Bonnie cinque, Raymond sette e poi era venuta Norma, che aveva dodici anni meno di Maxine”, e fate voi i conti. È una vita dura, povera, limitata, ma i ragazzi imparano “l’armonia temperata” ascoltando le lame della segheria del padre e nell’occasione la descrizione di Rick Bass arriva a livelli sublimi, nell’accertare che “quel sound era così legato alle forze della natura che avrebbe potuto scegliere chiunque”. Scelse loro e “nell’architettura del mito o del destino”, diventarono The Browns incisero e andarono in tour e capirono ben presto che “non c’erano confini impossibili da attraversare e nessun attraversamento sarebbe mai stato facile. Avevano già imparato tutto ciò che dovevano sapere per il loro viaggio”. La magia delle voci, le canzoni, le standing ovation, Nashville, l’America che gli si apriva davanti erano la dimostrazione che “il mondo gli calzava a pennello, ma al contempo viaggiavano appena al di sopra di esso, creandone uno nuovo e alternativo, vivendo ogni giorno avventure parallele a quelle del mondo sottostante, ma più luminose, vivide, sentite”. Poi, quando si accorgono che Fabor, il manager con cui hanno firmato il più classico dei contratti capestro, li ha presi in ostaggio, capiscono che “era come andare al macello” e cominciano a sentire “il sussurro del tradimento, il sussurro del fallimento”. La carriera dei Browns è un’altalena di emozioni e contrasti, che Rick Bass riporta con molto scrupolo e facendo attenzione anche all’evoluzione degli strumenti di comunicazione. Appartenevano al mondo delle radio, mentre la televisione li mise su un piano inclinato: “Era ancora una cultura dell’ascolto più che visiva, almeno per quanto riguarda il modo in cui la gente si divertiva e si rilassava alla fine di una lunga giornata di lavoro in fabbrica, esausta dopo avere arrancato per un altro giorno allo scopo di avvicinarsi a quel po’ di benessere, se non di ricchezza, che finalmente sembrava possibile raggiungere”. Il country & western era un fatto sociale, prima di essere un mercato, e il ruolo della musica popolare e tradizionale aveva un valenza specifica. La genuinità, un tratto ricercato e dimenticato, veniva apprezzata da tutti, e da Elvis in particolare, con cui i Browns diventeranno amici (Bonnie, qualcosa di più). L’altro compagno di viaggio, Chet Atkins, grande chitarrista e un raro gentiluomo nell’industria discografica, gli salverà la carriera. Andranno in cerca di quella seconda possibilità che spetta di diritto a ogni buon americano, ma per loro il ciclo di ascesa e caduta, come per Elvis, tra l’altro, non riserverà sorprese. Le digressioni di Rick Bass sulla fama e sulle oscillazioni della vita sono il sale di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nashville Crome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: la routine è impietosa, non soltanto in termini di estenuanti tour, pessima gestione degli affari e abusi alcolici. Le dinamiche famigliari e di gruppo non coincidono e, anzi, spesso collidono ed è lì che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nashville Chrome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> svela “come se ci fosse ancora un conto in sospeso, un prezzo da pagare eccessivo, terribile, commisurato a tutta quell’estasi passeggera”. Rick Bass alterna e movimenta i piani cronologici e in tempi più recenti Maxine si chiede: “La riproverà mai, la sensazione di essere notata e la certezza di essere la star?”. La domanda rimane sospesa su tutto </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nashville Chrome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, come una nota splendida, ma sgusciata fuori dalla canzone. Restano un’ultima amara visita a Graceland, un abbaglio con i Beatles, e le ombre che calano su tanti momenti di gloria, e chissà se erano stati davvero felici. Basato su una storia vera (The Browns continueranno fino al 1967), </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nashville Chrome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> non rilegge soltanto la storia del country & western, ma indaga a fondo sui meccanismi dell’industria discografica, cliché dopo cliché, sui riflessi psicologici (che Rick Bass racconta con punte di assoluto lirismo), sul ruolo degli artisti, dei cantanti e del pubblico, sulle rispettive esigenze e sulle dinamiche che regolano, allora come oggi, il sogno del successo e la realtà dentro quel sogno. Fondamentale.</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-33282226439040758692023-12-13T03:58:00.000-08:002023-12-13T03:59:25.171-08:00Mary Oliver<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXELTA3K6nA9mwPzgOBdxFtXHPleT4nBXVPvuZpHQGRCF2DGrJRA-fyGXPOnLpV2FMtBqHwCOetA3uFNKYE9kQKBmPU72macgBMVtfUcp-swaoHk66oBZ-Cmt_ybdlPITuKjYQ4ExUI1B2uaRsgEVGlGjBmFVBQ7F_xu4JL3mWTaYAd7aoTd2RAVast0c/s918/Mary%20Oliver.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="918" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXELTA3K6nA9mwPzgOBdxFtXHPleT4nBXVPvuZpHQGRCF2DGrJRA-fyGXPOnLpV2FMtBqHwCOetA3uFNKYE9kQKBmPU72macgBMVtfUcp-swaoHk66oBZ-Cmt_ybdlPITuKjYQ4ExUI1B2uaRsgEVGlGjBmFVBQ7F_xu4JL3mWTaYAd7aoTd2RAVast0c/s320/Mary%20Oliver.jpg" width="187" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">C’è acqua ovunque, negli stagni, nei laghi, nella pioggia e nell’oceano, acqua che porta vita, senza dubbio, perché Mary Oliver la esplora, la celebra senza sosta, la condivide. La scoperta della sua poesia (nella traduzione, con l’introduzione e la cura di Paola Loreto) è un assiduo abbandonarsi alla contemplazione della natura che riecheggia in ogni verso e diventa <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Musica</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, ritrovata con “una selettività furiosa e incolpevole”. La forma è lineare, chiara, diretta e la spontaneità è tutto, a partire dall’esplicito invito che recita </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La lince rossa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: “Andiamo verso la foresta bianca, tutto il giorno, tutta la notte”. Avanti: la proposta è irrinunciabile perché </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primitivo americano</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è la dimostrazione concreta che “la poesia sta lì e attende qualcuno per il quale o la quale può essere importante. Ha bisogno della persona giusta per il suo insieme di parole, per quello che sta dicendo. E può cambiare una vita. L’arte può cambiare la vita”. Il resto sono “pezzi di luce pura” al centro dell’osservazione, e non con intenzioni protezionistiche o scientifiche, ma con lo spirito di appartenenza alla stessa terra. Mary Oliver è molto esplicita, e coraggiosa, quando dice: “Io non parlo </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">del</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> vento, della quercia e della foglia sulla quercia, ma </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">in loro nome</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”. È una scelta di campo radicale e assoluta che riguarda, come scrive in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Qualcosa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, “qualsiasi cosa. Questo o quello, o qualcos’altro: la ferita oscura di guardare”. I soggetti sono vivi e reali: il topo muschiato, avvoltoi, serpenti (innocui), aironi, anatre, le api, gli orsi e le </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Megattere</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> dove Mary Oliver declama: “Conosco più vite che vale la pena di vivere”. Questa ricchezza riguarda i profumi e le fragranze delle more, del </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Miele sulla tavola</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> che ha “un gusto fatto di tutte le cose perse, in cui tutte le cose perse son ritrovate” e che si possono avvertire con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">I prugni</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, portatori di “un sapore prima di qualsiasi cosa”. La poesia diventa così un’esperienza sensoriale ed è un continuo rimbalzare dalle impressioni dentro il paesaggio alle emozioni della percezione che, in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Attraversando la palude, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Mary Oliver estrapola spronando a fare della vita “un palazzo vibrante di foglie”. Gli alberi sono compagni costanti ed è sicura che “nessuno riuscirebbe a pensare, senza avere prima vissuto tra le cose viventi. Nessuno avrebbe </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">bisogno</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> di pensare, senza l’iniziale profusione di esperienze percettive”. Di acquitrino in acquitrino, da creatura a creatura, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primitivo americano</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> rimette al centro dell’attenzione un intero biosistema e “col dolore, e il dolore, e ancora dolore alimentiamo questa trama febbrile, nutriti dal mistero”, scrive in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il pesce</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, raccogliendo nel frattempo echi della sensibilità di Elizabeth Bishop. Un omaggio, con ogni probabilità, dato che nella ricchezza di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primitivo americano</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> “la vita è infinitamente inventiva” e “altre meraviglie stanno nel buio seme della terra”. Le origini, le radici, le stagioni sono lì dentro, un ambiente conosciuto in ogni singolo millimetro “non più di una virgola sulla mappa del mondo”, ma per Mary Oliver “l’emblema di ogni cosa”. Un legame esplicito, dichiarato, indissolubile: “Non potrei essere un poeta senza il mondo naturale. Qualcun altro può esserlo. Ma non io. Per me la soglia del bosco è la soglia del tempio”. Ecco, allora, a casa, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Nei boschi di Blackwater</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, una poesia che è un indirizzo e un’indicazione nello stesso tempo: “Per vivere in questo mondo devi esser capace di fare tre cose: amare ciò che è mortale; tenerlo stretto contro le tue ossa sapendo che ne dipende la tua vita stessa; e, quando arriva il tempo di lasciarlo andare, lasciarlo andare”. L’esplorazione e la descrizione del lungo elenco di libellule, aquile, bisonti, talpe, albe, arcobaleni, fiumi e fulmini di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Primitivo americano </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">conduce Mary Oliver a un consiglio genuino, offerto con disinvoltura: “Istruzioni per vivere la vita: presta attenzione. Fatti stupire. Raccontalo”. La bellezza è tutta lì.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-1035752587014450302023-12-05T00:10:00.000-08:002023-12-05T00:12:23.558-08:00James Lee Burke<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; font-family: "Times New Roman"; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_0jxNP1kkabFsEIjAq83JY6ApEUVUyJfrf2FgQbXngHuL6J-XhCvwLcnuBuNVZW65aXR5OriXo0UqLZtUJkpbFUgcIMsX6CDQNTfaQl6ybzAjbhfP53h18Qv_8opk-CqNwlcP6zHcUXWHhdDqh7_hWPCjy8wL8R8ZzbiZaQ0jcPGlYJRTlSrSH2vLh9I/s785/James%20Lee%20Burke.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="785" data-original-width="500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_0jxNP1kkabFsEIjAq83JY6ApEUVUyJfrf2FgQbXngHuL6J-XhCvwLcnuBuNVZW65aXR5OriXo0UqLZtUJkpbFUgcIMsX6CDQNTfaQl6ybzAjbhfP53h18Qv_8opk-CqNwlcP6zHcUXWHhdDqh7_hWPCjy8wL8R8ZzbiZaQ0jcPGlYJRTlSrSH2vLh9I/s320/James%20Lee%20Burke.jpg" width="204" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">James Lee Burke ha un metodo: una scena alla volta, una volta al giorno. In qualche modo continua a funzionare e, in <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">New Iberia Blues</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">, Dave Robicheaux è coinvolto in un’intricatissima macchinazione che coinvolge Hollywood, la mafia del New Jersey, una setta di templari e che ha al centro “l’adorazione della celebrità, a prescindere da come viene acquisita o dalla forma con cui si presenta”, e il bello è che si conoscono tutti. L’enigma, questa volta, pare irrisolvibile. Robicheaux, le new entry del distretto Sean McClain e (soprattutto) Bailey Ribbons nonché Helen Soileau navigano a tentoni nella nebbia. Il bayou è un fondale con proprietà metafisiche, ma non fornisce indicazioni e Streak si appella ai suoi fantasmi per cercare la soluzione a una serie di delitti efferati. L’introspezione costituisce un elemento primario e coagulante, qualcosa che si distingue e spicca con regolare frequenza: Robicheaux gira a vuoto seguendo più le sue intuizioni che prove e indizi concreti. Del resto “la Louisiana, un luogo in cui i morti non solo sono con noi ma sono forse anche spiriti dispettosi a cui non conviene pensare”, da sempre, è fatta così, avvolta in una foschia tenebrosa. Bisogna fidarsi del suo istinto e non sempre succede, nello specifico nell’altra metà del cielo: Streak è solo con la sua sensibilità, i suoi sensi di colpa e la sua insonnia che lo convincono ad ammettere che “è strano quello che succede quando un uomo va troppo in profondità nella propria mente”. Si vedrà combattere con la sua nuova partner, con Helen Soileau, persino con la figlia Alafair coinvolta nella produzione del colossal hollywoodiano ambientato tra la Louisiana e l’Arizona (il cui budget ha origini piuttosto losche). Spinto da una forza irrazionale, Robicheaux non demorde e non molla mai, coadiuvato nelle sue intemperanze da Clete Purcel, inamovibile. I due, come è noto, si completano a vicenda. I loro metodi non sempre corrispondono alla legalità (anzi) e in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">New Iberia Blues</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> sono “out of control” più del solito: come è nella loro natura, escono dal seminato e ogni volta creano panico, anche se i danni sono limitati allo stretto necessario. In effetti, James Lee Burke documenta gli stessi momenti: le colazioni, le trasferte tra terra e mare, il continuo tuffo nel rimuginìo di Streak, ben sapendo che “cambiano i volti dei protagonisti, ma non la questione di fondo. Si va al centro del vortice e si scopre di esserci già stati. Si tratta di saper vedere i dettagli”. La risoluzione e la scoperta dei colpevoli e dei moventi non manca e Streak la vede in un piccolo particolare che, nella confusione di simboli, attori, interpreti, doppi giochi e ambiguità assortite gli era sfuggito. Lui se accorge perché “il male ha un odore. È una presenza che consuma chi lo ospita. Lo neghiamo perché non abbiamo una spiegazione accettabile. Puzza come la decomposizione di un tessuto organico” e da lì in poi </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">New Iberia Blues</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> accelera e persino nelle paludi, dove ogni cosa è stagnante per definizione, prenderà una velocità diversa, fino al finale (travolgente). Ci si ritroverà tra i piedi anche Smiley (uno dei più enigmatici tra i personaggi recenti di James Lee Burke) così come un’ininterrotta sequenza di richiami al passato e alle altre storie di Robicheaux che fanno di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">New Iberia Blues</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> una specie di compendio e insieme la più rappresentativa delle sue avventure. Contiene un bel po’ di roba: il blues che non “si impara agli incroci, tesoro. Non si torna indietro una volta che ci sei stato”, il paesaggio con una lunga teoria di luoghi e anfratti, gli elementi come la pioggia che è “sempre stata il tramite tra il mondo visibile e quello invisibile” e, appunto, quelle dimensioni parallele e misteriose. A conti fatti, nel riassunto delle gesta di Dave Robicheaux e Clete Purcel messo in scena da James Lee Burke c’è la rampa di lancio per descrivere una volta di più la Louisiana e tutta un’America che sta scomparendo, ovvero quell’habitat che ha creato con ammirevole costanza e che è la definizione ultima dei suoi romanzi. Di particolare hanno questo, e New Iberia Blues, più di tutti: arrivi alla fine e non ti interessa più cosa è successo e chi è stato, ma se i procioni (Snuggs e Mon Tee Coon) hanno mangiato e stanno bene.</span></span></div><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-76897170715463006442023-11-17T02:33:00.000-08:002023-11-17T02:33:26.377-08:00Tom Wolfe<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfZ8aBu2fIhip_5nhyphenhyphenFer1F1QVPLcSJEWFYo_PojNXX35ConPhLhyphenhyphenHd9EIXt3eKJQFWPEkV3FbrNw4PtRiCGjlrqKY9RIlLqSZpigfTkzk4skKR8rB9-_x3OcnEPxxJ6WBd45gBvOzsq7Nz4fhLlAxZ9W_8iIyVOFnZab6-2v7nYSmwshfMl6NE3npwl8/s1558/Tom%20Wolfe.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1558" data-original-width="1008" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfZ8aBu2fIhip_5nhyphenhyphenFer1F1QVPLcSJEWFYo_PojNXX35ConPhLhyphenhyphenHd9EIXt3eKJQFWPEkV3FbrNw4PtRiCGjlrqKY9RIlLqSZpigfTkzk4skKR8rB9-_x3OcnEPxxJ6WBd45gBvOzsq7Nz4fhLlAxZ9W_8iIyVOFnZab6-2v7nYSmwshfMl6NE3npwl8/s320/Tom%20Wolfe.jpg" width="207" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Charlotte Simmons è una “ragazza limpida” che vede la prestigiosa università Dupont come un traguardo per tutta la famiglia e persino per la sua modesta cittadina di Sparta, sulle Blue Ridge Mountains, da cui proviene mentre tutti gli altri la considerano “un grande parco giochi d’élite”. È una giovane provinciale convinta di poter eccellere nello studio, e di onorare le legittime ambizioni di mamma (soprattutto) e papà. All’arrivo nel campus è evidente fin da subito che la situazione si prospetta un po’ più complicata di come l’aveva immaginata: la lingua corrente è il “patois del cazzo fottuto” ai limiti del turpiloquio, l’ordinaria amministrazione è un mix feroce tra istinti predatori e sfrenata competitività, la tensione dominante è di classe, di censo, di razza e di genere. Il ritratto del college americano è spinto da Tom Wolfe ai confini della parodia ma colpisce nel segno: nell’architettura maestosa delle istituzioni scolastiche s’intravedono conflitti, intrighi, distorsioni. Charlotte Simmons è ipersensibile, ma la sua genuina autostima è messa a repentaglio da un milieu di muscoli, sesso e alcol. Finisce al centro al centro dell’attenzione, suo malgrado, e ben presto si accorge che “erano tutti presi dall’essere veri maschi, e la violenza era la manifestazione più maschile di tutte”. Tom Wolfe è eccessivo e lapidario, e non le risparmia nulla: Charlotte Simmons ha un ruolo difficile da interpretare e lo farà fino in fondo, scontando abusi e sofferenze che la porteranno alla depressione. Attorno a lei appaiono, di volta in volta, giovani rampanti, atleti ipertrofici, intellettuali allo sbaraglio: il flusso è ininterrotto e avvolgente e anche se non è del tutto allineato rende l’idea di cosa succede in un microcosmo circoscritto ed emblematico della civiltà americana. Tom Wolfe sa toccare con perfida abilità e grande conoscenza i luoghi comuni innestandoli a una parallela e provocatoria analisi dell’evoluzione della specie. Nel decantare le fragili emozioni di Charlotte Simmons, Tom Wolfe è spesso prolisso e a tratti anche ripetitivo, (come le ricorrenti descrizioni della stazza muscolare maschile o delle forme femminili), ma questo è tipico di una lente di ingrandimento che è sempre stata molto attenta all’antropologia in generale e ai casi umani in particolare. In <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Io sono Charlotte Simmons</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, gli episodi dove dispiega il suo savoir faire letterario, capace di vedere minuscoli dettagli in un banchetto natalizio o micidiali trucchi sul campo da basket, così come di illustrare una lezione di neuroscienze o una delicata riunione davanti al rettore, sono infiniti. Due scene sono un po’ i due fuochi attorno a cui ruota l’ellisse di Tom Wolfe. Il pranzo, all’inizio, con gli Amory, la famiglia di Beverly, l’insopportabile compagna di stanza di Charlotte Simmons, in cui si distinguono due Americhe: una fiduciosa e cordiale, l’altra altera e sprezzante, una limitata nelle possibilità, l’altra condizionata dal suo status, una affamata e una rigorosamente a dieta. Charlotte Simmons è proprio in mezzo e in quella terra di nessuno si ritroverà allo sbando nella cena esclusiva, a Washington (non a caso, si presume), con la confraternita dei Saint Ray. Il parossismo di Tom Wolfe raggiunge l’apogeo nell’illustrare un baccanale di vodka e aragosta in cui ogni grado di conoscenza e intelligenza viene regredito a livelli brutali, con tanti saluti a Socrate, a Flaubert e anche a Tupac Shakur. Lo scempio avrà una vittima e il quadro generale che ne esce non è dei più edificanti e nemmeno sorprende particolarmente, perché Tom Wolfe resta nello stesso tempo dentro e a distanza di sicurezza dalla torbida commedia imbastita attorno alle istituzioni universitarie, lasciando in sospeso ogni ambiguità. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Io sono Charlotte Simmons</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un bel tuffo senza rete, ma se volete fare prima, riguardatevi </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Animal House</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-62871832711025491282023-11-13T02:33:00.000-08:002023-11-13T02:34:13.524-08:00Dalton Trumbo<p class="p1" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(35, 35, 35); color: #232323; font-feature-settings: normal; font-kerning: auto; font-optical-sizing: auto; font-stretch: normal; font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variation-settings: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span class="s1" style="font-kerning: none;"><span style="font-family: georgia;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMLaH9PzvnB2fA4yMNNpM5rZ5V1Iz_TkOVYJqFE0eMfl32LogMr-_WUI9NbB4SBl_VuRMIkq0JXmSIbJQlsrSrDUIMEb_C3qBA1SU65uCGPqLi0zgCWLFfEhOJgqK9TB0cgupN73S0zN4p5J-BtCUx7U0A08wWK6qV03fd6-oSv5hfsyJX-w3qgTBAmDU/s4046/Dalton%20Trumbo.jpeg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="4046" data-original-width="2650" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMLaH9PzvnB2fA4yMNNpM5rZ5V1Iz_TkOVYJqFE0eMfl32LogMr-_WUI9NbB4SBl_VuRMIkq0JXmSIbJQlsrSrDUIMEb_C3qBA1SU65uCGPqLi0zgCWLFfEhOJgqK9TB0cgupN73S0zN4p5J-BtCUx7U0A08wWK6qV03fd6-oSv5hfsyJX-w3qgTBAmDU/s320/Dalton%20Trumbo.jpeg" width="210" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Reduce dai campi di battaglia europei della prima guerra mondiale, mutilato degli arti e della faccia, privato dei sensi e immobilizzato in un letto di ospedale, Joe Bonham ricorre all’unica risorsa che gli rimane, il pensiero. Ben presto si rende conto che se è salvo (se così si può dire) è perché è il risultato di esperimento, teso a dimostrare l’efficienza della medicina e della chirurgia sul campo. Nel corso degli eventi bellici, l’umanità svanisce e dato che “questo non è tempo di preghiere”, al soldato, ormai prigioniero di un corpo straziato, non resta che proclamare, perentorio: “Quando gli eserciti si mettono in marcia le bandiere sventolano e gli slogan risuonano dovunque stai in guardia piccolo uomo perché le castagne al fuoco non sono le tue ma di qualcun altro. Tu combatti solo per delle parole e non stai facendo un contratto onesto, la tua vita in cambio di qualcosa di meglio. Fai il nobile ma quando ti avranno ammazzato quella cosa per cui hai tradito la tua vita non ti servirà a niente ed è molto probabile che non servirà nemmeno a qualcun altro”. L’avviso, come ogni singola parte del furioso monologo di Joe Bonham è un grido di dolore che si svolge nel silenzio e che viene reiterato, rivolgendolo con veemenza contro la retorica bellica: “Tenetevi pure i vostri ideali purché io non debba pagarli con la mia vita. E quelli dicono ma come i principi sono più importanti della vita. E tu ah no forse saranno più importanti della tua vita ma non della mia. Cosa diavolo è un principio? Quando l’hai nominato è finito lì”. Una parte vitale pulsa ancora in Joe Bonham: sente, non senza stupore, che gli appuntano una medaglia sul petto, cerca di collocarsi nello spazio, per conquistare sulle uniche parti di pelle rimaste intatte la carezza del sole, e prova in continuazione a orientarsi nel tempo perché “poco importa se sei lontano dagli altri purché tu abbia un’idea del tempo perché solo così sai di vivere nello stesso mondo in cui vivono loro fai parte di loro ma se perdi la nozione del tempo loro vanno avanti e tu resti indietro solo sospeso nell’aria perso per sempre”. La condizione estrema di sopravvivenza e dolore lo costringe a ricordare e dal passato riemerge un clima di pace con i piccoli dettagli della vita quotidiana, le conquiste e le sconfitte giornaliere, le ragazze e i ragazzi che si rincorrono sapendo che “abbiamo cose ben più importanti di una guerra”. L’isolamento resta atroce, la vita è ridotta a una forma indefinita confinata nell’immaginazione, finché Joe Bonham non prova a comunicare con il codice Morse, sbattendo la testa contro il cuscino. Rimane incompreso ancora a lungo e Dalton Trumbo riesce a delineare con la forza di una scrittura grezza e risoluta le sue intenzioni. Quando, con molta prudenza, attorno a lui comprendono il mezzo per comunicare, Joe Bonham crede di aver trovato un ruolo, di poter disporre “i germi di un nuovo ordine delle cose”. Convinto che “la gente è sempre disposta a pagare per vedere una curiosità è sempre enormemente interessata alle cose orribili e probabilmente su tutta la faccia della terra non c’era una sola creatura vivente che fosse così terribile a vedersi come lo era lui”, sa di di poter diventare “il nuovo messia dei campi di battaglia che diceva alla gente così come io sono sarete anche voi. Perché lui aveva visto il futuro l’aveva provato e adesso lo stava vivendo. Aveva visto gli aeroplani volare nel cielo aveva visto i cieli del futuro neri di aeroplani e ora vedeva tutto l’orrore che stava al di sotto”. L’accorata vocazione, il suo grido di dolore troverà un’adeguata risposta che rende <i>E Johnny prese il fucile</i> un classico moderno, purtroppo ancora attualissimo.</div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-47841521224322600842023-11-09T00:46:00.007-08:002023-11-09T00:53:30.321-08:00Leonard Cohen<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3Ug7U8hQnyL-4PKUEVV5sYo7qY9AU7XeBIhTxXrOTJQS3E9UFsmISe6tf84hhvTNax5MFSx-MrSyNd-H3fWbnomJy9BRPecsOY0IVitWdKgGSLJ0umuIxuyc2t6LCkQST9hsQrnfiV-y9fSDHIjfMpK0UNOLTNqab_u9i4MY4Gt3TjOMeC8tB25tE3eE/s4946/Scansione.jpeg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="4946" data-original-width="3374" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3Ug7U8hQnyL-4PKUEVV5sYo7qY9AU7XeBIhTxXrOTJQS3E9UFsmISe6tf84hhvTNax5MFSx-MrSyNd-H3fWbnomJy9BRPecsOY0IVitWdKgGSLJ0umuIxuyc2t6LCkQST9hsQrnfiV-y9fSDHIjfMpK0UNOLTNqab_u9i4MY4Gt3TjOMeC8tB25tE3eE/s320/Scansione.jpeg" width="218" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Ray Charles citato nell’epigrafe è già qualcosa in più di un indizio. Genio, ritmo, coraggio:<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">l’inseguimento di un senso e di una magia è foriero di elaborate acrobazie e Leonard Cohen sprizza energia da tutti i pori. Lo scrittore è in contrasto con la presenza ieratica del songwriter che verrà in seguito: </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si avvicenda con un turbinio di emozioni, è davvero un romanzo sensazionale e ci vuole tatto per affrontarlo, ancora oggi, a distanza di sessant’anni. La stessa gestazione è stata fonte di turbamento che, nel </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Libro del desiderio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, Leonard Cohen descriveva così: “</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è stato scritto all’aperto, su un tavolo che stava in mezzo a rocce, erbacce e margherite, dietro la mia casa a Hydra, un’isola del Mare Egeo. Vivevo là, molti anni fa. Era un’estate rovente. Non mi coprivo mai la testa. Quello che hai in mano è un colpo di sole, più che un libro”. Un ribollire linguistico dentro (e fuori) una trama inesistente, costruita con digiuno e fuochi d’artificio, droghe e sesso in continuazione (il rock’n’roll deve ancora arrivare) visto che “tutti coltivavamo una certa ambiguità come stile”. È spesso un flusso di coscienza, tra cronaca e storia, le dimensioni esaltate di simbologie e metafore con le maiuscole che calano come un castigo divino e prolusioni e dichiarazioni d’intenti emanate da un pulpito invisibile (il più delle volte una frequentatissima alcova). </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">è un collage esuberante e macroscopico che Leslie Fiedler definirà “un romanzo pop-art assolutamente onesto” dove Catherine Tekakwitha, Edith, F., e lo stesso Leonard Cohen, sono le comparse di “una danza di maschere” e sono tutti “parte di una collana di incomparabile bellezza e priva di significato”. Questo continuo ondeggiare sulle “diverse ali del paradosso” induce Leonard Cohen a scoprirsi sempre di più e a proclamare: “Sono stanco dei fatti, sono stanco delle speculazioni, voglio essere consumato dall’irrazionalità. Voglio lasciarmi trasportare”. Questo proposito è l’anima istintiva di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> che si pone in modo distinto rispetto alla realtà, anche in modo plateale quando in un passaggio dice: “La maggior parte delle persone non sono disposte a portare la loro vita in prima linea, la maggior parte delle persone non dovrebbe farlo e la maggior parte delle persone non ha niente in nome di cui portare la propria vita in prima linea, ed è probabilmente meglio così”. Lui, il poeta, il pellegrino, l’amante, l’outsider sa di essere sprofondato in un abisso (“Quello che vi è di più originale nella personalità di un uomo è spesso quanto vi è di più disperato”), ma anche di aver intuito una possibile deviazione, tra le tante (“Non voglio essere una stella, che muore soltanto”). Per questo </span></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); font-family: georgia; text-align: justify;">Leonard Cohen spiegava così </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); font-family: georgia; text-align: justify;">: “Non è un libro d’immaginazione nel senso che in ogni pagina l’autore vi appare senza schermi protettivi più di quanto usualmente accada in un’opera di immaginazione. E questo perché il libro è davvero una lunga preghiera che cerca di dire la sua sulla vita di una santa, una meditazione compiuta stando in equilibrio su una fune da cui si scivola fra le urla di tutto il circo e per non precipitare si ricade sulla fune con il cavallo dei pantaloni, e tutti i maschi fra il pubblico chiudono gli occhi, sanno l’effetto che fa”. È proprio un’avventura infinita, al punto che Leonard Cohen diceva, ancora: “Più e più volte ho dovuto rassicurare me stesso e il lettore che si trattava solo di finzione, e quando ce ne convincevamo e riuscivamo a rilassarci potevo finalmente tuffarmi nella preghiera che a sua volta, io credo è costituita nel profondo da eventi reali, bottoni, dubbi, spazzatura, torte in faccia e bisogna muoversi in mezzo a questa merda prima di poter usare il puro vocativo”. L’esprit de finesse finito in un erudito fiorire di citazioni, rimandi e calembour di un’unica “sardina materiale in una scatoletta di fantasmi” richiama lo spirito animalesco e segreto (fino a un certo punto) di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Beautiful Losers</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); font-family: georgia; text-align: justify;"> che Leonard Cohen infine svela così: “Se ascolto i Rolling Stones? Senza tregua”. Anche noi.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-39201308966428470772023-11-07T01:21:00.001-08:002023-11-07T01:23:16.603-08:00Louise Glück<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJVFTejLXXbvbYJyxo4KhXNH8saNbkugi8BEh9nwTJuYN529exrfwjEjSqqDZdboQBE2T7fzei_Ei8CdGRro7mjmO1u_RzJKjSDFP9OWcbvn8wklGKJsdfvoEL8nhQQDRUHHqCi6TdUGb8nyLgu7j_SalCFbajqYx2PoAkvPN7eqPkM-TvG2Khf2PnMgI/s500/Louise%20Glu%CC%88ck.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="327" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJVFTejLXXbvbYJyxo4KhXNH8saNbkugi8BEh9nwTJuYN529exrfwjEjSqqDZdboQBE2T7fzei_Ei8CdGRro7mjmO1u_RzJKjSDFP9OWcbvn8wklGKJsdfvoEL8nhQQDRUHHqCi6TdUGb8nyLgu7j_SalCFbajqYx2PoAkvPN7eqPkM-TvG2Khf2PnMgI/s320/Louise%20Glu%CC%88ck.jpg" width="209" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">La forma è essenziale, diretta, spoglia e a tratti persino elementare. Le cronache quotidiane di Louise Glück tengono conto dei limiti, della semplicità dello sguardo che si accontenta dei ritratti famigliari, delle manifestazioni del clima, “un bel sole simpatico” e la neve (onnipresente) che brilla in </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Festa del Presidente</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, e delle stagioni, a partire dall’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Autunno</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> che, a discapito del titolo, è uno dei periodi più fertili per Louise Glück. Sono annotazioni spontanee, forse nella consapevolezza che “le parole non sono la risposta”, come scrive in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Poesia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">. I versi, sciolti, liberi, sono una scrupolosa misura della lingua che si mantiene immediata, senza intrusioni specifiche. Gli alberi sono alberi, gli uccelli sono uccelli, le denominazioni scientifiche restano accantonate a favore di uno stile semplice, comodo, intuitivo e sintomo dello stupore per cui nelle </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Ricette per l’inverno del collettivo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> “il mondo ci passa accanto, tutti i mondi, ciascuno più bello del precedente”. La componente più efficace nei versi di Louise Glück è nell’istantaneità delle immagini, ricomposte secondo uno schema imprevedibile che sembra inseguire solo quelli che Robert Graves definiva i quattro oggetti naturali della poesia: “La luna, l’acqua, le colline e gli alberi”. Solo gli elementi ricorrenti nelle </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Ricette per l’inverno del collettivo, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">però la visione di Louise Glück riconsidera l’osservatore, ed è un continuo richiamare l’essenza della realtà. Avviene in particolare con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Il sole al tramonto</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">: “Fuori il sole tramontava, il tipo di simmetria precisa che ho sempre notato”, dove “l’effetto delle parole” riporta al punto di partenza, alla spontaneità dello sguardo e del suo riflesso. L’immedesimarsi con gli oggetti del desiderio è una parte sostanziale della scrittura coltivata espressamente in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Un ricordo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">: “E mi sembrava di ricordare quel luogo della mia fanciullezza, anche se allora non c’era un fiume, solo case e prati. Così forse stavo tornando a un tempo prima della fanciullezza, all’oblio, e forse era questo il fiume che ricordavo”. Le </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Ricette per l’inverno del collettivo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> sono sviluppate da appunti che si annodano uno dopo l’altro e diventano invocazioni come succede con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">La storia del passaporto</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> (“Cammino, aspettando che la verità si riveli”) o dichiarazioni di intenti, decisamente espliciti in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Una storia non finita</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> (“Ora che la storia è mia, preferisco che sia una meditazione sull’esistenza”). Nelle stesse stanze Louise Glück ammette che “forse non sapremo mai se la storia doveva essere un avvertimento o magari una storia d’amore in quanto è stata interrotta. Così non possiamo sapere se abbiamo già avuto esperienza della fine”. È la chiave di volta dietro le postille climatiche e naturalistiche, che costituiscono una cornice fluttuante finché Louise Glück non chiarisce gli ingredienti principali delle </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Ricette per l’inverno del collettivo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">:</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">“Tutti disprezziamo le storie che sembrano aride e interminabili, la mia però sarà una storia d’amore vera se per amore intendiamo come amavamo da giovani, come se il tempo proprio non esistesse”. Nell’estrapolazione successiva, quasi una conclusione filosofica conferma che “la maggior parte dei miei fatti sono spariti, ma certi principi sottostanti si sono perciò manifestati con chiarezza sorprendente”. Questo è il frutto del “vivere nell’immaginazione”, guardando fuori, per pescare dentro.</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> </span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-60012446764758067542023-11-02T07:30:00.002-07:002023-11-02T07:30:33.064-07:00Neal Barrett Jr.<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvDg7L-amwte-Hpgu4Jqo_xB9TGqq_ceqLNWD_o6HSvN6OrHl62OtsMoYNHV4GXTpG6CedVaBWAqtZ-vi_yommeT8mOc8Jug7yqfGkzYjP7_6sS7KS5eIzRe2EWuPUK1B849durpl4SYZ6_LOUfDkvy4vE12_ORFGOY8Lvk9F8HEiHIG7XIFB_xnP6dX8/s1000/Neal%20Barrett%20Jr.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="688" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvDg7L-amwte-Hpgu4Jqo_xB9TGqq_ceqLNWD_o6HSvN6OrHl62OtsMoYNHV4GXTpG6CedVaBWAqtZ-vi_yommeT8mOc8Jug7yqfGkzYjP7_6sS7KS5eIzRe2EWuPUK1B849durpl4SYZ6_LOUfDkvy4vE12_ORFGOY8Lvk9F8HEiHIG7XIFB_xnP6dX8/s320/Neal%20Barrett%20Jr.jpg" width="220" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Secondo Joe R. Lansdale “la letteratura americana nella sua espressione migliore, ha uno stile molto naturale, un particolare senso dell’umorismo e l’infinita speranza che domani le cose possano andare meglio”. Tutto sommato è proprio lo spirito che spinge Douglas Hoover a lasciare tutto. È refrattario al lavoro (“Il sistema aveva delle falle, ma forse dietro c’era una logica”) e al matrimonio che è arrivato al capolinea. Pensa in continuazione agli aerei della prima guerra mondiale e a un barlume di emozione legato all’infanzia, forse il motivo principale del suo viaggio. Una meta dopo l’altra, prende forma uno strampalato road movie: tra stanze di motel, strade senza nome, incontri fugaci e inseguimenti spericolati. Un bel po’ di movimento che presta il fianco a un frenetico sovrapporsi di allucinazioni, ricordi, divagazioni e voli pindarici in cui Neal Barrett Jr. sfodera tutta una gamma di tonalità, con un gusto per l’iperbole davvero trascinante. Il nonsense punteggia tutte le frasi e, lungo un elenco senza fine di cittadine del Texas, non succede molto altro se non l’ossessione per Sue Jean, una ragazza trovata da Doug sulla strada, e un’aleatoria ricerca di se stesso. Sue Jean, poco più che adolescente, è capace di viaggiare nuda, dando spettacolo e solleticando ripetizione Doug, sa fare benissimo le uova strapazzate ed è per lui una specie di impertinente voce della coscienza: “Le lezioni sono incentrate su un unico argomento: te stesso. Chi sei e cosa vuoi fare di te”. È proprio così visto che Doug è rimugina spesso e volentieri sulle sue condizioni: “Riconoscere i propri limiti ha pro e contro, riflette. Qualsiasi cosa non vada in lui, ora si sistemerà. Oppure no. Sapere chi sei non significa che la tua testa sia lucida al punto da fornirti già tutte le risposte”. Il suo pensiero è una composizione di “rivelazioni e caos, introspezione e disordine in uno stupido miscuglio che pareva comunque funzionare”, definizione che, per estensione, vale anche per tutta <i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">La banda dell’altro mondo</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">. La congrega di fissati che ha come amici sono “personaggi che sognano in piccolo, convinti di sognare in grande”. Una teoria di nomi e cognomi avvolge ogni mossa di Doug, affolla la sua vita e comprende il fatto che “cowboy mistici e cameriere di bar nelle stazioni di servizio per camionisti sanno che il cambiamento è solo un’illusione. Sanno che starsene immobili è il modo migliore per allontanarsi il più possibile da dove ci si trova, faresti meglio a trovarti una buona birra e una canzone preferita e accontentarti”. La colonna sonora annovera Hank Williams, Johnny Cash, Tex Ritter, Beatles, Janis Joplin e Willie Nelson e la corsa nel vuoto è un caos di suggestioni ed esagerazioni. L’incertezza regna sovrana: “Non sapeva se queste cose fossero davvero successe o se le avesse lette in qualche libro. Gli sembrava di sì, ma forse no”. Poi, una volta tornato a casa, per Doug diventa tutto piuttosto riduttivo: “Sembrava tutto un po’ troppo facile. Voleva delle rassicurazioni. Voleva delle certezze. Voleva andare a letto e fare un po’ di sano casino e dimenticarsi tutto. Sentì il desiderio di andare in cucina a prepararsi uno spuntino”. Doug ha un rapporto plastico con i sogni e le visioni che si dipanano senza sosta, ma alla fine le aspirazioni sono ridotte: “Voglio prendere più pesci. Voglio montare modellini di caccia tedeschi in scala 1 a 32. Voglio far crescere rampicanti sui muri di casa”. È vero, come dice Joe R. Lansdale, che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">La banda dell’altro mondo</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> “trasuda America da ogni poro”, e il flusso verbale è ininterrotto, psichedelico e pirotecnico, ma è anche abbastanza inconcludente e allora bisogna ricordare quello che scriveva Carl Sandburg, citato più volte da Neal Barrett Jr.: “Quando una nazione crolla o una società perisce, una condizione sarà sempre identificabile: avevano dimenticato da dove erano venuti”. Come dire, si possono sfoderare tutti i numeri possibili e impossibili, ma per quanto immenso, lo spazio non è infinito e da qualche parte bisogna pur arrivare.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-415029517688410364.post-34571379507762915492023-10-30T10:37:00.008-07:002023-10-30T10:38:19.678-07:00William Carlos Williams<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgH2KlNEjIsDFTQm9D1Nbkt3_Gh0IMAyh96me5Ydg3tQ26kmUVp6_c8s4zKzStYPJeIkiXu9pA-LKXhywBDGzkEU8Xf_ItumZiiLT7-4GzC_5dUdzS81hSQ4Fwv5SRrQzml2X8ycwQND2k1ZONgMgePKv20O4udf558nuC-N1jRVfw2M8zBd4XpoiRTUQA/s540/William%20Carlos%20Williams.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="540" data-original-width="351" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgH2KlNEjIsDFTQm9D1Nbkt3_Gh0IMAyh96me5Ydg3tQ26kmUVp6_c8s4zKzStYPJeIkiXu9pA-LKXhywBDGzkEU8Xf_ItumZiiLT7-4GzC_5dUdzS81hSQ4Fwv5SRrQzml2X8ycwQND2k1ZONgMgePKv20O4udf558nuC-N1jRVfw2M8zBd4XpoiRTUQA/s320/William%20Carlos%20Williams.jpg" width="208" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">William Carlos Williams guarda il mondo dalla posizione privilegiata che gli offre la poesia, eppure non si accontenta e rimastica i versi, sapendo, come scrive in <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il vento rinforza</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, che un poeta è “un uomo le cui parole si apriranno a morsi la strada per casa, essendo reali, possedendo la forma del movimento”. L’antologia, che copre quasi mezzo secolo di continuo lavorio, condensato nel proposito di riservare l’attenzione in modo univoco (“Niente idee se non nelle cose”) ha un suo leitmotiv nell’osservazione degli elementi naturali trasformati in strutture poetiche, come succede, fin dal titolo, in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Figura metrica</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">,</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">dove la voce di un uccello gareggia per farsi sentire: “È il suo canto che in luce vince il crepitio delle foglie che si scontrano nel vento”. L’incanto è immediato e </span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">la complessità di flora e fauna si trasmette a ondate: asfodelo, caprifoglio, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Giovane platano</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, tarassaco, il pruno, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il toro</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Testa di merluzzo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, sassifraga, l’edera, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">L’elefante marino</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Gabbiani</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, le betulle sono protagonisti di una metamorfosi costante nelle immagini collezionate da William Carlos Williams. Il riferimento è ancora più esplicito in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">A un amico a proposito di svariate dame</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: “Sai che non c’è granché che io desideri, qualche crisantemo semi-riverso sull’erba, giallo e bruno e bianco, le chiacchiere di poche persone, gli alberi, un’ampia distesa di foglie secche forse intercalate da fossi”. O, ancora, la percezione di trasformazioni microscopiche, che diventano gioielli, come è evidente in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Canzone d’amore</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">:</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">“Non c’è luce, solo una macchia densa di miele, che sgoccia di foglia in foglia di ramo in ramo, guasta i colori del mondo intero”. A William Carlos Williams bastano un quadro di Bruegel, l’omaggio a Ford Madox Ford o René Char, l’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Iliade</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, giusto a ricordare che “solo l’immaginazione è reale” e per ribadire che “il supremo splendore non è la bellezza, profonda quanto sia, ma la ricerca classica della bellezza, al centro della palude: la strada senza uscita, abbandonata quando finalmente il nuovo ponte è stato aperto”. La simbologia ha un suo peso specifico proprio perché la poesia di William Carlos Williams ha una “fragranza” particolare che si descrive da sola: “le frasi denudate” arrivano una dopo l’altra e “la forma è giunta per gradi”, compiendosi “in un orizzonte di colori”. Sono fotografie che attraversano i sensi raccontando le prugne “così buone così fresche”, “l’umiltà della neve”, le geometrie che delimitano </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La provincia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> (“La figura dell’alta erba bianca lungo l’argine di ceneri mantiene la propria linearità impeccabile”) o ancora “l’alfabeto degli alberi” che sono quasi un’ossessione nello svelare “il nocciolo duro della bellezza”. È da qualche parte, come dicono i versi in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La discesa</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> in quella direzione che “un mondo perduto, un mondo insospettato, invita a nuovi luoghi e nessun candore (perduto) è bianco come il ricordo del candore”. Il ritmo è una collezione sinuosa di stanze che ammaliano e ipnotizzano, anche se William Carlos Williams riesce comunque a mantenersi a distanza di sicurezza dalla realtà. Quando dice che “i puri prodotti dell’America impazziscono” spalanca tutto un territorio in gran parte inesplorato, ma nel frattempo ricorda anche che non c’è più “nessuno a testimoniare e a mettere a punto, nessuno a guidare la macchina”. Il segnale è ambivalente anche in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Quel che resta di una canzone</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> quando dice: “È tanto strano per me, qui nel crepuscolo moderno” per poi ammettere nel suo </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Ritratto dell’autore </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">ammette che “il mondo è sparito, ridotto a brandelli da questa grazia”. Il poeta rimane innocente, il discepolo ringrazia.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0