mercoledì 30 aprile 2025

George Saunders

Bengodi o Il declino delle guerre civili americane, la prima raccolta di racconti di George Saunders, nasce in circostanze precarie raccontate così nella nota introduttiva: “Più che altro usavo qualunque racconto stessi scrivendo all’epoca per arrivare a fine giornata e infondermi un briciolo di controllo e padronanza. Erano una fonte segreta di sostegno. Se al mattino riuscivo a buttare giù qualche frase azzeccata il resto della giornata migliorava”. A dispetto delle condizioni, lo spirito è pungente e irriverente come pochi o nessun altro: George Saunders sa divertire, ma anche scrutare a fondo le idiosincrasie di un mondo sulla soglia di una crisi di nervi. Le short story di Bengodi sono spiazzanti, spesso caustiche, le frasi si avvitano una con l’altra, le condizioni dei suoi protagonisti sono sempre estreme, e lo stile è una sorpresa perché una volta che, per sua stessa ammissione, si è lasciato alle spalle le imitazioni d’ordinanza di Hemingway e Carver, George Saunders ha trovato una direzione originale, per quanto ancora in via di sviluppo. Bengodi è giusto un inizio che viene presentato dallo stesso autore persino con una certa modestia: “Benché questo libro sia breve e ci siano voluti sette lunghi anni per scriverlo, benché sia smozzicato, zoppicante e, sì, anche cupo e forse a tratti morboso, ricordo gli anni in cui è stato scritto come i più ricchi e magici della mia vita, pieni di speranza e di amore e aspirazioni, e della soddisfazione di essere riuscito, finalmente, a realizzare qualcosa”. In Bengodi si presentano alcuni soggetti ricorrenti dalle frustranti dinamiche aziendali in 180 chili di amministratore delegato o di Scaricando dati per la signora Schwartz, e già i titoli sono rappresentativi, ai parchi a tema (che torneranno subito in Pastoralia), una vera e propria ossessione. Non sfugge il simbolismo che delimita il perimetro di Terra della Guerra Civile in grave declino, Il fabbricaonde insicuro o La fallita campagna di terrore della disgraziata Mary. I personaggi sono incastrati a vario titolo in ruoli asfissianti e si trovano ad affrontare condizioni proibitive e prove allucinanti, comprensive in qualche caso della coabitazione di ingombranti fantasmi. Ogni riferimento alla caotica realtà quotidiana della fine del ventesimo secolo non è per niente causale e per George Saunders ogni racconto è un laboratorio linguistico dove vengono fusi luoghi comuni e gerghi specialistici, e i dialoghi diventano labirinti e fuochi d’artificio. Grazie al ritmo martellante e incisivo, Bengodi espande una sorta di Disneyland in acido sull’intera America e se, a tratti, è anche eccessivo e grottesco, in qualche modo risulta profetico quando dice che: “C’era la guerra civile ma le stelle brillavano come cristalli”. Era soltanto il 1996 e, tornando all’introduzione, George Saunders ha aggiunto un corso accelerato di approccio alla scrittura, e molto di più, quando dice: “Un libro è proprio questo: un tentativo fallito che, ciò nonostante, è sincero, sudato, ed emendato il più possibile, date le limitate capacità dell’autore, da ogni falsità e quindi imbevuto di una sorta di purezza. Un libro non deve fare tutto, ricordo che mi dicevo a questi tempi, a mo’ di consolazione; deve solo fare qualcosa”. Senza dubbio, Bengodi è uno di quei libri che non perdono l’occasione.

lunedì 28 aprile 2025

Jane Smiley

L’agricoltura nelle sterminate lande dello Iowa chiede tutto, e anche di più. Per le sorelle Cook (Rose, Caroline e Virginia alias Ginny) il senso delle generazioni che si susseguiti nello stesso perimetro ha un valore esplicito, e doloroso. È nella voce di Ginny che i alternano i ricordi dell’infanzia, un presente da decifrare e il passato che è sempre in agguato: insieme alla terra, Rose e Ginny hanno ereditato un’ombra che entrava nelle loro camere. Nella successione c’è sempre qualcosa che non si vorrebbe portare via. Emerge appena superata la metà del romanzo di Jane Smiley: il gesto di Larry Cook, nel tramandare le proprietà pare sensato e logico, ma riapre oscure ferite del passato, popolato da fantasmi di violenze e abusi, proprio dentro le stesse mura. Se ha un peso “la saggezza delle pianure: fingere che non sia successo” è perché “gran parte delle preoccupazioni in una fattoria si riassume in una soltanto: salvare le apparenze”. In questo Jane Smiley è una narratrice attenta e raffinata, capace di cogliere la vita scandita dai ritmi naturali delle campagne e delle famiglie, i Cook, da un parte e i Clark dall’altra. Una routine faticosa che è spezzata proprio dal gesto del lascito paterno, che impone un cambiamento. In quel momento l’equilibrio, basato su una parvenza di normalità, non meno che sulle abitudini, va in frantumi. Larry Cook è una figura prominente e inamovibile in una tradizione patriarcale, dentro un mondo a trazione maschile, dove le donne sono confinate a ruoli ben precisi ma distanti dalla reale possibilità di decidere qualcosa. Nonostante la vastità delle colture e del paesaggio è “un mondo piccolo, piccolo e completo, che si ripiegava di continuo su sé stesso”, e i rapporti famigliari sono soggetti a tensioni nascoste, e spesso indicibili. Le personalità a quel punto sbocciano come il granturco maturo, ognuna con i suoi drammi irrisolti e il primo è proprio Larry che scompare in una notte di pioggia. Da lì è un susseguirsi di colpi di scena: alcuni sorprendono, altri risulteranno prevedibili. Attorno alle fattorie si sviluppa un coacervo di sentimenti contrastanti: il passaggio di proprietà toccherà i destini di un po’ tutti i protagonisti, con i tempi dell’agricoltura sullo sfondo, anche se gli intrecci tra investimenti, debiti, inquinamento, allevamenti, semine e raccolti sottolineano altrettante svolte in Erediterai la terra. L’impressione è che nell’estate del 1979 siano successe troppe cose nella Zebulon County e se è vero che “non è un peccato lottare: tutti lo fanno” i conflitti, per quanto aspri (e violenti) sembrano filtrati da una scrittura accomodante, con un mood che ha anche una sua logica nel riportare come “tutto sembrava straordinariamente remoto”. Il tono, molto elegante, ricorda un po’ quello di Anne Tyler con un tatto speciale per le emozioni dei personaggi. Per esempio, l’ottica di Ginny, che è fondamentale nell’economia della storia, viene celebrata così: “Mi chiesi se, in fondo, non fosse quello il modo giusto di guardare le cose: aspirare l’odore delle rose selvatiche nel bel mezzo di una discarica e osservare tutto in prospettiva”. Il dubbio è una costante, i giudizi restano sospesi, il tormento, per quanto garbato, è incessante finché, come pare avvisarci Jane Smiley, “ricordiamo che non si è mai gli stessi, ma che arriva un momento in cui il sollievo diventa abbastanza” e questo, come si vedrà, è anche l’amara conclusione di Erediterai la terra.

giovedì 24 aprile 2025

T. C. Boyle

I rapporti Kinsey hanno sviluppato, sulla base di un’indagine vasta e complessa, un nuovo modello di percezione della sessualità. Basati su un enorme lavoro di ricerca sul campo, attraverso lo strumento dell’intervista (ne vennero svolte e archiviate decine di migliaia), sono stati un evento di rilevanza sociale e, ancora oggi, costituiscono un elemento di discussione non indifferente. Un’impresa che T. C. Boyle ha provato a rileggere dall’interno, introducendo la parabola di John Milk, assistente e compagno di viaggio di Alfred Kinsey alias Prok. Lo segue fin dagli anni dell’università, all’alba della seconda guerra mondiale, poi nel suo coinvolgimento con l’iniziativa di Doctor Sex e infine nel matrimonio con Iris, figura destinata ad avere un ruolo dirompente nell’evolversi della storia. Comunque lo si guardi, Kinsey è stato un pioniere, capace di promuovere l’uomo come un essere pansessuale e di emozionarsi per “il coito degli istrici”, di tuffarsi senza protezioni nei bassifondi delle città americane, dopo giorni e giorni passati sulle strade, per raccogliere testimonianze dirette. Fin da subito il racconto procede con insistenza, con un mood discreto, quasi monotono, che ruota attorno a John Milk: la scrittura lo ritrae a ciclo continuo, un po’ ripetitiva e a tratti asettica, nel disegnarne le giornate, una dopo l’altra. È come se si ripetesse una sequenza, cercando un ordine dentro la turbolenta esistenza dello stesso Kinsey. Il romanzo ne mette in evidenza le contraddizioni e le incongruenze: lo sviluppo di un processo scientifico singolare e del tutto inedito proprio nel momento del maggior sforzo bellico di un’intera nazione, i contrasti con la morale dominante all’epoca, le lotte intestine alle comunità universitarie ed editoriali, una dose non trascurabile di promiscuità. L’ossessione di Prok, non tanto per il sesso quanto per il suo lavoro, assorbe le vite: la sua figura risalta anche per eccesso, ma non è chiaro dove voglia arrivare Doctor Sex. Funziona tutto, anche l’inevitabile colpo di scena finale, e la descrizione e l’assemblaggio dei personaggi si incastra alla perfezione nello stile minuzioso di T. Coraghessan Boyle, che non si lascia sfuggire nulla. Nelle sovrapposizioni della ricerca, che per Kinsey era una missione nella vita, con le tensioni famigliari, in particolare per John e Iris Milk, Doctor Sex si sviluppa per ondate successive che si susseguono, alternando i contorni domestici ai vagabondaggi notturni (e non) in cerca di soggetti adatti alla ricerca. La costruzione è ipnotica, ma dopo un po’, è anche prevedibile. Il ritmo sembra fatto apposta per avvicinarsi con tutte le cautele, per gradi e con insistenza, alle sollecitazioni generate da Prok e dalla sua iperattività: una personalità ritratta in tutte le angolazioni possibili, dal biologo al padre e marito con tutte le contraddizioni e gli spigoli e i lati oscuri. Doctor Sex lo colloca in un’ottica tridimensionale, compresi gli aspetti da voyeur, e la percezione di T. C. Boyle merita per aver ridefinito a modo suo una figura come quella di Kinsey, un po’ come ha fatto con quella di Frank Lloyd Wright in Le donne, personalità ingombranti guidate da un tensione straordinaria che gli ha consumato la vita.

venerdì 18 aprile 2025

Glendon Swarthout

Per anni, l’illusione del West è stata un’attrazione magnetica, alimentata da campagne promozionali assillanti per favorire le migrazioni da una costa all’altra. La leggenda, come la descrive Jonathan Raban in Bad Land, aveva tutta l’aura di “un mondo di avventure solitarie ma edificanti, di poveri pastorelli che diventano presidenti, di eroi puri e leali, una terra dove una stella ammiccava in permanenza sull’orizzonte del West e dove la miseria e le malattie mettevano semplicemente alla prova la tempra americana”. Un miraggio, nella forma e una truffa nazionale nella sostanza: le concessioni governative erano un azzardo e la terra promessa si rivelò ben presto un habitat selvaggio, ostico e durissimo. Il clima estremo, dettato da lunghi e gelidi inverni, privazioni, fatiche e dolori insopportabili a cui bisogna aggiungere, su tutto, la paura (delle belve, degli indiani, dei banditi) e il rischio costante del fallimento sono stati i limiti, per usare un eufemismo, della colonizzazione del West. Il prezzo l’hanno pagato soprattutto le mogli, le madri, le figlie che hanno dovuto sopportare l’impossibile, e non sempre ce l’hanno fatta, e sono state dimenticate. Con L’accompagnatore, Glendon Swarthout, pare restituire almeno il decoro della memoria raccontando il ritorno a casa di un gruppo di donne impazzite. La comitiva è organizzata su un insolito carro a scatola tirato da due muli e guidato da Mary Bee Cuddy che si è offerta, con tutta la sua generosità, per il ruolo di guida. Come capirà ben presto l’altruismo da solo non basta e non è la soluzione così quando, per un caso fortuito, si imbatte in George Briggs ovvero L’accompagnatore lo convince a seguirla nella missione. È una figura emblematica: disertore, ladro, giocatore d’azzardo, pistolero la segue soltanto per salvarsi dall’impiccagione e per la ricompensa che lei gli promette. Insieme devono passare una serie di prove, oltre ad accudire le povere creature folli e indifese che trasportano nel carro: gli indiani, i ladri, la fame, il freddo sono gli ostacoli principali come se fosse una migrazione biblica. Alcune riescono a superarle, grazie all’astuzia e all’esperienza, ma il viaggio mette entrambi i conduttori davanti al proprio destino. La trasformazione dei protagonisti e del loro rapporto è il volano del romanzo che poi vive delle immagini di Glendon Swarthout, che ha un occhio cinematografico capace di condensare paesaggi ed esseri umani. Mary Bee Cuddy e George Briggs devono ricorrere a tutte le possibilità per riuscire nell’impresa e, se per lui è in gioco soltanto la sopravvivenza, per lei c’è qualcosa di più, e lo si nota quando lo avvisa: “Magari non ora, ma un giorno, quando le avremo portate a casa sane e salve, comprenderete che impresa grandiosa e gloriosa avrete compiuto. A parte i soldi, potrebbe essere l’unico atto di altruismo che avrete mai fatto”. A quel punto non manca molto alla destinazione e  L’accompagnatore si riserva un altro gesto quando i gestori di un albergo sorto "in the middle of nowhere" con lo scopo di accogliere investitori e speculatori della frontiera respinge lui e le donne, tutti ormai ridotti a ombre vaganti nelle praterie. La sua reazione, figlia di un istinto guerriero mai sopito, risalta come una vendetta per l’inganno dei territori del West, un mito falso e ingannevole durato troppo a lungo.

lunedì 7 aprile 2025

Carl Hiaasen

Il primo a farsi notare è Palmer Stoat, “noto lobbysta, faccendiere e procacciatore di affari” che si presenta giusto così: “Io ricevo le telefonate e faccio le mie magie”. Un lavoro interessante, tutto sommato. Tra i difetti fisiologici di un mestatore professionista ha un tic speciale: storpia i titoli delle canzoni, e questo è un indizio importante. Nella sua posizione, compresa l’avvenente moglie (Desie alias Desiderata) è il perno attorno a cui ruota tutto un losco e macchinoso affare, ovvero il tentativo di trasformare Toad Island, un piccolo angolo di paradiso sulla costa della Florida abitato da un’innocua comunità di rospi, in Shearwater, un’area residenziale completa degli inevitabili campi da golf, attracchi per turisti e altri ammennicoli per un affare di ventotto milioni di dollari. La cifra è indicativa, ma non esaustiva: per collegare l’isola bisogna sostituire l’antico ponte e quando si tratta di infrastrutture e serve l’intervento del governatore e delle risorse pubbliche, viene il momento della mobilitazione di Palmer Stoat, per il quale “qualsiasi cosa non potesse mangiare, bere o riorganizzare veniva gettata via”. È proprio lì che nasce il problema, perché viene intercettato mentre disperde rifiuti dalla lussuosa BMW della moglie. Purtroppo per loro, incrociano Twilly Spree, erede di una fortuna e libero pensatore (mettiamola così), che odia i contaminatori di ogni origine e specie e dato che “la vendetta non dovrebbe mai essere ambigua”, agisce di conseguenza. Ne succedono di tutti i colori perché Cane sciolto è un romanzo pirotecnico, divertente e agrodolce. Quella punta di amarezza è dovuta al sottofondo realistico dell’intreccio di politica, affari, sfruttamento del territorio perché, come scrive Carl Hiaasen “questa storia non riguarda i rospi, ma riguarda il saccheggio”. Non buttare niente dal finestrino sarebbe già un successo, e c’è un umorismo cupo e sottile, ma costante nel febbricitante racconto di Cane sciolto. La fumosa grigliata di Carl Hiaasen prevede di tutto e i personaggi fioriscono senza sosta in un caos che comprende, in ordine sparso: politicanti, speculatori, poliziotti, bracconieri, parassiti, miracolose polveri dai corni di rinoceronti, molto alcol, bambole, sigari e ossessioni e perversioni distribuite a pioggia, compreso un tremendo killer con una cresta punk, un abito pied-de-poule e stivaletti che “Gerry and the Pacemakers avrebbero potuto portare nel 1964”. Qui siamo in un’altra era e un labrador, che poi è il vero protagonista di Cane sciolto, viene rinominato McGuinn, proprio in omaggio a Roger e in particolare a Back From Rio. Troverà un degno compare in Twilly Spree, che “pur apprezzando la poesia, sentiva che la sovversione era una causa più valida”. La Florida pare il luogo adatto per mettere in pratica la sua visione e il finale si fa convulso: non di rado con Carl Hiaasen ci si innamora dei personaggi, ma quando sono troppo nei guai e il racconto si fa via via sempre più frenetico, si sente anche l’istinto di lasciarli ai loro destini assecondando la storia, giusto per vedere come andrà a finire. Cane sciolto è l’apoteosi dell’immaginario di Carl Hiaasen che contiene la Florida con le sue bellezze naturali e i disastri umani, la sensibilità per l’ambiente e i destini delle persone, l’indignazione per la politica autoreferenziale e una corruzione endemica, tutto dispiegato a ritmo di rock’n’roll, qui elencato in un modo o nell’altro: Dylan, Beatles, Stones, Derek & The Dominoes, Doors, Beach Boys, Jethro Tull, Creedence Clearwater Revival e Tom Petty con Rebels cantata all’unisono dalla stramba e fragile alleanza tra Twilly Spree e Desie Stoat. Conoscono entrambi le parole giuste, ed è quello che fa la differenza.

giovedì 3 aprile 2025

Robert Lowry

Succede tutto a Doanville, Ohio, un microcosmo della provincia, dove la vita ruota attorno a pochi luoghi, che sembrano incastrati in uno spazio limitato e in un tempo immutabile. Una small town che riflette le tensioni del dopoguerra: una nazione di reduci che si portano dietro ferite inimmaginabili. Non solo mutilazioni, ma proprio una frattura insanabile con la realtà e con il mondo intero. È un capolinea, una trappola che non lascia alternative. Se ne vogliono andare tutti e l’unico punto di incontro è la biblioteca, tra l’altro piuttosto limitata, dove lavorano Genevieve e Petey Jordan, ormai insofferenti ai limiti culturali, alle convenzioni sociali e ai riti quotidiani. L’unico che torna è Jim Miller, reduce della seconda guerra mondiale, campagna d’Italia in particolare, ed è nella condizione di non essere “più in grado di prendere parte a nulla, distaccato da ogni cosa, solo uno spettatore del mondo che gli girava intorno, tagliato fuori da ogni vita che avesse mai conosciuto prima della guerra”. Lo stress da disturbo post traumatico non era ancora diagnosticato e Jim Miller vaga in cerca di una condizione accettabile (che non sia la sua solitudine, con una gamba in meno). Si ubriaca e ci prova con Louella, ma è un disastro. Dei quattro punti cardinali che definiscono Mi troverai nel fuoco, comprese Genevieve e Petey, lui è il più appariscente, ma all’estremo opposto troviamo Len Sharpe di cui Robert Lowry dice, molto sibillino: “I suoi sogni lambivano il nucleo bruciante del suo odio come fiamme intorno a un carbone ardente e una tale disperazione, un tale smarrimento gli stringevano la gola, negando tutte le sue fantasticherie”, compreso il miraggio di una Raximore 12 Deluxe, un’auto impossibile. L’idealista Genevieve spera in un altro destino, se non in un’altra città, e non di meno Petey, che ha il coraggio di affermare addirittura di avventurarsi nel “grande mondo là fuori” a costo di affrontarne “tutte le sofferenze”. La normalità a Doanville è soffocante, si aspettano tutti che succeda di “qualcosa di straordinario” e accade quando le fiamme distruggono una pensione occupata da anziani. È il momento in cui Mi troverai nel fuoco cambia registro e accelera le tensioni tra i protagonisti, come se le scintille si fossero propagate fino a toccare le singole personalità. Il primo, va da sé, è Jim Miller che dice: “Sono tornato credendo di essere il solo a soffrire di nevrosi di guerra, ma sembra che molti che non hanno mai lasciato Doanville non stiano meglio”. Il suo contributo al dolore, non relativo, tocca Petey nella notte dell’incendio, ma nell’aria c’è già voglia di linciaggio. Le voci corrono come cellule impazzite in una rete di chiacchiere e pettegolezzi ed è ancora Jim a cogliere il momento: “Sapeva bene dove si trovasse, quando le città ardevano intorno a lui, quando tutta la vita aveva un unico scopo. Non era colpevole, allora, non aveva responsabilità, agiva come un automa, affidato a poteri invisibili. C’era solo un modo di vivere e lui ne aveva dimenticato ogni altro”. L’incendio è rivelatore e la ricostruzione di Robert Lowry è minuziosa, in particolare nel sovrapporre le dinamiche psicologiche alle conseguenze dell’abitare laggiù, e la concertazione delle singole voci è straordinaria. Per Len “il mondo lontano dove aveva sognato di fuggire era svanito”. Al contrario, Genevieve, all’improvviso, si ritrova a vedere “i confini di una città dare significato alla propria vita”. Pare paradossale, ma nella sua condizione, limitata e tormentata, alle fine Jim è l’unico che può concedersi un’altra chance. Resta Petey, ferita e ancora più furiosa: “Ho sempre ritenuto che questa fosse la città più noiosa del mondo e a un tratto tutto comincia ad accadere simultaneamente e io sono qui con le mani in mano, addirittura esclusa da tutto, più vuota che mai. Sono qui, nella mia camera, sola come le altre volte, ma non è la stessa cosa”. Avviso ai naviganti: l’unica Doanville  nota ai topografi corrisponde a un’area non incorporata nella contea di Athens, Ohio, una definizione giuridica americana per rappresentare una terra di nessuno e non pare proprio una coincidenza. Consigliatissimo.

mercoledì 2 aprile 2025

Erskine Caldwell

La madre “era una danzatrice di facili costumi di passaggio sulla Quarantanovesima Strada, e non teneva il registro di chi andava a letto con lei”. Con questo, il milieu che affronta il primo romanzo di Erskine Caldwell, pubblicato nel fatidico 1929, è delimitato chiaramente fin dalle prime pagine: Gene Morgan è Il bastardo, di nome e di fatto, che non trova il suo posto e si muove in continuazione con la sua pistola. Nasconde un istinto omicida (che sfodera giusto un paio di volte, restando tuttavia impunito) e si inoltra in territori cupi, segnati dalla disperazione e dalla promiscuità. Il bastardo offre tre livelli essenziali che Gene Morgan affronta in fretta consumando tutto e troppo presto. Prima trova un impiego in un oleificio, che sembra un passo obbligato verso una condizione esistenziale più accettabile, nonostante le modalità del lavoro, che consistono “nel riempire continuamente di seme di cotone le bocche di alimentazione” nell’arco di “undici ore, cinque notti e mezzo la settimana”. Anche se i ritmi sono questi, gli operai trovano modo di sfruttare ogni piccolo intervallo per tirare i dadi e consumarsi la misera paga. L’azzardo è una costante per Gene e non solo per il gioco, ma anche nei confronti delle donne, dove viene coinvolto in incontri e rapporti ambigui, dove la violenza è dietro l’angolo. Per Il bastardo, viene il momento di capire che “non valeva la pena di fare una vita come quella”, lascia l’oleificio e comincia un’assidua frequentazione dei bordelli. È la seconda parte dell’esordio di Erskine Caldwell, una fase di transizione che vede Gene Morgan trascinarsi di stanza in stanza in combutta con lo sceriffo Jim Hunter e il figlio John. A Lewisville, Georgia “faceva troppo caldo per vivere. Il sole cuoceva e spellava le colline sabbiose dalle sette del mattino fino alle sei o sette di sera, e le notti non erano molto più fresche”. Il clima è bollente, e non solo per le condizioni atmosferiche: il linguaggio di Erskine Caldwell è crudo e particolarmente limitato nel raccontare le vicissitudini che Il bastardo si ritrova ad affrontare di volta in volta, come se fosse una testimonianza diretta senza l’intermediazione di una parvenza di stile. Le frasi sono troncate, il tono è ruvido e impietoso, la forma sprofonda spesso nel gergo con parole che sono “colpi di frusta brutali”, per dirla con lo stesso Gene Morgan. Una modalità scarna, limitata, con molte accezioni blues (le reiterazioni, per esempio) che filtrano scena dopo scena con un momento di particolare efficacia nel racconto del funerale di Jim Hunter, un paio di pagine davvero impressionanti. L’ultimo passaggio vede Il bastardo arrivare a toccare con mano la felicità. Riprova ad avere un lavoro come autista (“A Gene piaceva molto guidare e infatti in breve tempo divenne così esperto da portare un autocarro. Per la prima settimana il suo lavoro di autista si svolse in città. Gli fu promessa presto una lunga corsa. Questo era ciò che voleva”) e sposa Myra, poco più di una bambina. La gioia del matrimonio viene celebrata su un autocarro in un viaggio traballante, dove “un altro mondo traboccante delle pene e delle gioie della vita passava in rivista solo per essere subito fatalmente distrutto”. Le antiche ombre tornano a pesare quando nasce il figlio, Leon, che stenta a sopravvivere e ha una lunga serie di problemi, al punto di rendere la vita di Myra e Gene “una tortura continua” e costringendo Il bastardo a una scelta crudele e fatale, degna conclusione di un romanzo feroce e inesorabile.