Partendo da quella che Ta-Nehisi Coates chiama “la prospettiva degli esclusi”, Otto anni al potere raccoglie altrettanti saggi, uno per ogni anno della presidenza Obama e diventa un corposo e pensieroso vademecum per districarsi tra i limiti e le possibilità offerte dal “caos americano”. La definizione è più accurata di quello che sembra: quella di Ta-Nehisi Coates resta una visione scomoda che non fa sconti a nessuno, né ai bianchi, né ai neri, nemmeno al presidente o a se stesso (soprattutto). È drastico nel non farsi illusioni e quando dice “combatto per rimanere cosciente” è esplicito nel continuare a testimoniare l’essenza del lascito del razzismo che “non è solo un odio semplicistico. Si tratta, più spesso, dell’espressione di una profonda compassione nei confronti di alcuni e una profonda diffidenza nei confronti di altri”. Quella è Una tragedia americana che viene riletta con un continuo salto avanti e indietro nel tempo perché “la storia infrange la leggenda. È per questo che viene ignorata, mentre la fantasia è sbandierata attraverso l’arte e la politica che camuffano la malvagità per farla sembrare un martirio e trasformano il banditismo in cavalleria”, con la dichiarata, reiterata intenzione di vedere attraverso la lente della consapevolezza la realtà afroamericana. Anche se Ta-Nehisi Coates ammette che “uno scrittore cerca di convogliare tutti i suoi umori variabili, le sue emozioni e le correnti che ha dentro di sé ma, come per la musica, la complessità totale di questo pensiero è al di là della portata della narrativa”, gli articoli così assemblati mostrano una coerenza e una solidità ineccepibile nel delineare “il concentramento del disagio”. Un punto di vista che diventa predominante negli Appunti dal terzo anno quando Ta-Nehisi Coates si chiedere Perché così pochi neri studiano la guerra civile?, e dedica una bella digressione nel provare a darsi una risposta, spiegando che comunque “C’è qualcosa di intrinsecamente bellissimo nelle storie, nella loro capacità di produrre più punti di vista rispetto alle polemiche esplicite. E c’è qualcosa di umiliante nel trovarsi continuamente a gridare sono un essere umano in un mondo fondato sulla negazione di questa evidenza”. Dalla guerra di secessione alla “gentrification” di Chicago (che rasenta la pulizia etnica) fino alle valutazioni riguardo La famiglia nera ai tempi dell’incarcerazione di massa, le analisi di Ta-Nehisi Coates sono frutto di approfondimenti, di letture e di testimonianze dirette, assemblate con un metodo personalissimo nella composizione e avvincente nella lettura. Il giudizio sugli Otto anni al potere di Barack Obama rimane in qualche modo sospeso: tra speranze e delusioni, Ta-Nehisi Coates coltiva un equilibrio raziocinante, che non gli impedisce di insistere nell’idea che senza “riparazioni” e relativi risarcimenti il concetto dell’America terra dei liberi e casa dei coraggiosi resta un luogo comune molto (e pericolosamente) ambiguo. A saldo di alcune forzature, visto che “la scrittura è sempre una forma di interpretazione, una traduzione della specificità delle proprie origini, delle proprie competenze o addirittura del proprio pensiero”, o della plateale venerazione per Michelle Obama, Otto anni al potere offre una percezione singolare, lucida e forte dell’America di oggi (e di domani).
venerdì 31 agosto 2018
giovedì 30 agosto 2018
Masha Gessen
Vincitore del premio Nobel per la chimica del 1983, Kary Mullis ha dissipato il bottino dell’accademia in modo scientifico, tra alcol, LSD, surf, Grateful Dead e altre amenità. Avendo scoperto la reazione a catena della polimerase, ovvero il principio su cui si fondano tutte le analisi del DNA, e vivendo in allegria nell’economia di mercato della California, poteva permetterselo. Anche Grigorij Perel’man, risolvendo la congettura di Poincaré, uno dei grandi dilemmi matematici del ventesimo secolo avrebbe potuto godere di altrettante prebende e persino di un trofeo da un milione di dollari, se non fosse per un rigore morale che l’ha portato a negarsi, diventando a sua volta un’incognita. Il ritratto di Masha Gessen è funzionale a un’ossessione e la sua ricostruzione è un’indagine coraggiosa che si inoltra nei meandri delle comunità universitarie e nel fragile equilibrio tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (atemporale e antisemita) e la Russia poi. La serie di indizi che si spalanca è una rete che tende ad avvicinarsi alla preda, l’unica possibilità di elaborare un’identità senza averne accesso diretto. Nel sorvolare sulla complessità dei problemi matematici, anche se dal punto di vista tecnico vengono spiegati (per quanto possibile) in modo comprensibile a tutti, trasforma l’inseguimento a Grigorij Perel’man in un avvincente labirinto. Non è necessario, dopo un po’, apprezzare la differenza tra algebra e geometria, il nastro di Möbius o il cubo di Rubik, le congruenze e i vettori: il limite, come in tutte le questione matematiche, coincide con la soluzione visto che “il vero problema con il linguaggio si verifica quando vogliamo creare una distinzione, negli oggetti, tra il loro contenuto e i loro confini”. In Perfect Rigor, c’è solo una scoperta (enorme) fatta da un matematico ascetico che non la vuole barattare per ragioni accademiche, spettacolari o economiche. Il suo isolamento è palpabile: quella di Grigori Perel’man è “una forma delirante di onestà”, ma la presunta eccentricità è dovuta alla dedizione totale e incontrastata alla materia e alla sua paradossale costituzione visto che, come diceva Il mago dei numeri di Enzensberger, “a volte riesci a procedere solo per vie traverse, allungando il percorso, e altre non ci riesci per niente. Magari ti è venuta un’idea promettente ma non puoi dimostrare che va oltre. Oppure scopri che la tua ottima idea non era affatto ottima”. L’essenza della matematica è tutta in questa “congettura dell’anima” (che è a sua volta un valore) e nel cuore di Perfect Rigor Masha Gessen ricorda che, per quanto ci si possa sforzare, “ci limitiamo a esplorare lo spazio che ci circonda e a fare supposizioni per capire a cosa assomiglia, osservandolo da una prospettiva privilegiata da dove possiamo formulare delle ipotesi, ma non averne esperienza diretta o immaginarlo davvero”. Infine, Masha Gessen non lo dice, forse perché ancora non lo poteva sapere, forse anche per una per rispetto, ma alla fine Grigori Perel’man non solo ha rifiutato (come era prevedibile) il premio milionario, ma si è negato, rifugiandosi nella sua solitudine. Eppure, anche nell’ultima intervista disponibile (che risale al 2011) ha rivendicato con grande lucidità la sua scelta, ribadendo l’idea che la (sua) coerenza non è in vendita. Per questo viene considerato un pazzo, sorte che è toccata comunque anche a Kary Mullis, che al contrario se l’è spassata, ma non è una contraddizione: è il destino di chi non è omologato al sistema ed è così che Perfect Rigor si evolve in una sorta di La stella di Ratner semplificata, il romanzo di Don DeLillo, con cui condivide più di una coincidenza, soprattutto dove spiega “l’arcirealtà della matematica pura, la sua disposizione austera, i suoi legami con la semplicità e la permanenza: gli equilibri formali che mantiene, inevitabilmente adiacenti alla sorpresa, così come l’esattezza alla generalità; l’infinito disprezzo della matematica per le mollezze caratteriali di coloro che la praticano, e per ciò di triviale e inutilmente ripetitivo vi è nel loro lavoro; la sua precisione come linguaggio; il suo rivendicare conclusioni necessarie; il suo perseguire strutture di connessioni e forme significative; le molteplici libertà che offre nelle stesse limitazioni che ostinatamente impone”. È proprio ciò che contiene Perfect Rigor perché Masha Gessen non si è preoccupata di risolvere l’enigma, ma l’ha reso molto più interessante, visto che come direbbe Enzensberger in effetti “di magico i numeri hanno che sono semplici”. Sono gli esseri umani (non solo i matematici) che sono complicati.
martedì 28 agosto 2018
John D. MacDonald
Nel 1958, due anni prima che Il termine della notte vedesse la luce, Charlie Starkweather e Carol Fugate partirono per un viaggio sanguinario che ha ispirato una lunga serie di ricostruzioni, non ultima quella di Bruce Springsteen in Nebraska. L’ombra di quell’odissea resta nel background del romanzo di John D. MacDonald che ribalta gli schemi popolando la vita on the road di un branco di lupi che vanno a scovare piccole e amene località per colpire e nascondersi e che al loro passaggio lasciando grondare una scia di orrori. Nanette Koslov, Robert Hernandez, Sander Golden si incontrano per caso e trovano in Kirby Palmer Stassen la variabile impazzita che fa da detonatore alla follia. Nella sua storia oltre all’omicidio-suicidio dell’amante e del marito, Kathy e John Pinelli, c’è una deviazione geografica (e narrativa) importante, che porta verso il Messico, una svolta verso uno dei luoghi d’elezione della Beat Generation. Imbottiti di alcol e dexedrina, i quattro sono quanto di peggio possa capitare in una notte sulla strada, visto che appartengono “alla preistoria, a una violenza fatta di insensibilità, esseri che vagavano per la terra cruda, accoppiandosi con furia casuale, dilaniandosi, accendendo un fuoco dentro qualche caverna e cuocendo la carne insanguinata dell’ultima preda”. Tra le efferate tappe, l’episodio più importante è quello dell’assassinio del commesso viaggiatore non solo perché è il primo di una catena di uccisioni, ma perché riporta, per le modalità, alla morte di Joan Vollmer la “moglie” di William Burroughs in Messico da lui uccisa in circostanze analoghe. Qualcosa in più di una coincidenza con gli strani giorni dei “beatnik”: il substrato nichilista e pericoloso di certe idee viene presentato così, raccontando quando Nan frequentava “il curioso mondo artistoide e sotterraneo di San Francisco, specializzato in jazz incomprensibile, quadri privi di senso e poesia isterica, con gli inevitabili sottoprodotti di misticismo, chiacchiere da caffè, tossicodipendenza, violenza e autocommiserazione”. Le stesse deliranti farneticazioni di Sander Golden, che servono a giustificare l’assurdità del viaggio, non impediscono di rilevare l’ineluttabile destino di tutti i protagonisti: “I criminali erano sempre gli stessi, viziosi, stupidi, subumani. Le vittime erano uniformemente isteriche o morte senza più speranza. E i giornalisti erano noiosi e ripetitivi. La violenza aveva così poco significato. Era una parte decadente nel grande e morbido corpo della società, un accumulo di pressione, e poi un rutto gassoso”. È proprio quello che succede quando giungono a intravedere Il termine della notte, e dunque il capolinea della loro assurda corsa nel vuoto. Le istituzioni non sono esenti da una congrua dose di ipocrisia, impersonata dagli sceriffi e dagli agenti dell’FBI e ancora di più dalla goffaggine dell’avvocato Ricker Deems Owen e della sua segretaria e nelle curve che Il termine della notte impone “tutti noi, ognuno di noi, camminiamo molto vicini alle ombre, a strani luoghi oscuri, ogni giorno della nostra vita. Nessun uomo si trova in un posto completamente sicuro. Quindi è un segno di pericolosa spavalderia affermare di essere immuni. Nessuno può dire quando un evento casuale, una pura coincidenza, possono incidere su una persona quel tanto che basta per far sì che non si trovi più in un posto sicuro, e cominci a camminare nell’ombra, verso cose sconosciute che sono sempre state lì, in attesa di divorarlo”. La cruda attenzione di John D. MacDonald alla psicologia dei personaggi non ha un attimo di cedimento e la tensione è a tratti impraticabile, pur sapendo fin dalle primissime pagine cosa è successo e quale sarà la conclusione (in effetti, l’inizio è la fine) e l’applicazione senza rimorsi, senza rimpianti della pena di morte (una sorte che toccherà anche Charlie Starkweather) ci ricorda, anche sul versante della legge e della giustizia che “non abbiamo mai smesso di essere animali”. Con una qualità che è rimasta inalterata nel tempo, Il termine della notte è un libro coinvolgente e spiazzante, punteggiato da numerosi omaggi letterari, nascosti ed espliciti, non ultimo e non trascurabile, va ricordato al almeno quello a Theodore Sturgeon.
sabato 11 agosto 2018
Viet Thanh Nguyen
Nel corso dell’evacuazione di Saigon, il generale della polizia del Vietnam del Sud parte con la famiglia dall’aeroporto sotto una salva di granate. Lo seguono il fidatissimo capitano, che in realtà è, da anni, un agente infiltrato dai vietcong, e il suo amico Bon. Entrambi hanno seguito gli insegnamenti e le indicazioni di Claude, un uomo dell’intelligence americana che si lascia alle spalle un disastro salutandolo così: “La solita serie di stronzate. Speriamo che la storia si dimentichi di tutto il bordello che abbiamo combinato”. È soltanto un arrivederci: tornato negli Stati Uniti, dove era già stato da studente, il capitano cerca di adeguarsi lavorando ancora a stretto contatto con il generale (compreso un primo assassinio) e i profughi vietnamiti, anche se gli obiettivi restano nebulosi almeno quanto la loro condizione perché “quale che fosse il termine con cui definire il nostro sradicamento, rifugiati, esuli o immigrati, non ci limitavamo a vivere dentro due distinte culture, celebrando il grande e immaginario calderone americano. Le persone sradicate vivono anche in due zone temporali diverse: tra il qui e il laggiù, tra il presente e il passato, come riluttanti viaggiatori nel tempo. Ma se la fantascienza immaginava che i viaggi nel tempo potessero avvenire in entrambe le direzioni, quell’orologio ci mostrava tutt’altra cronologia. Il suo segreto, in realtà sotto gli occhi di tutti, era molto semplice: non facevamo che muoverci in tondo”. La missione del capitano diventa quella di provare a infiltrarsi tra le pieghe della produzione di un film dedicato alla guerra, dato che il punto di vista dei vietnamiti, da entrambi le parti, non viene considerato. La constatazione è elementare, ma costituisce la parte centrale del romanzo: “Non possiamo rappresentare noi stessi. È Hollywood, a rappresentarci. Perciò, dobbiamo fare tutto il possibile per assicurarci di essere rappresentati nel modo migliore”. Il villaggio (questo il titolo) è girato nelle Filippine ed è ispirato, senza tanti complimenti, ad Apocalypse Now. È uno snodo essenziale per Il simpatizzante e chiunque, sul set, come ricordava Eleanor Coppola (i suoi diari sono una fonte d’ispirazione dichiarata dallo stesso Viet Thanh Nguyen), stava “vivendo un qualcosa che le tocca in profondità, mutando la loro visione del mondo e di sé”. Succede anche al capitano: tornato in America, si ritrova a dover fronteggiare la necessità di un secondo omicidio, e del mandato di un terzo che dovrebbe toccare proprio a Bon. L’alternativa è tornare insieme in Vietnam in una missione dai contorni impossibili (ribaltare la vittoria) ed è quella che sceglie. Catturati entrambi dopo uno scontro a fuoco, vengono interrogati con le stesse torture a cui si erano applicati, sul fronte opposto, con gli americani. Per il capitano, in particolare, il processo è molto lungo ed elaborato. Affamato, bendato, legato, privato del sonno, viene costretto a scrivere e riscrivere la sua confessione. Un supplizio. Il comandante del campo di prigionia e il commissario politico si aspettano una risposta precisa (una sola parola), ma il capitano soffre nell’ambiguità perché “l’unica vera illusione ottica è quella che ci fa vedere gli altri e noi stessi come entità indivise e integre, come se essere sempre a fuoco fosse una condizione più autentica rispetto all’essere sfocati. Pensiamo che il nostro riflesso nello specchio ci dica chi siamo veramente, quando in realtà il modo in cui vediamo noi stessi e il modo in cui ci vedono gli altri raramente coincidono. Spesso, anzi, tanto più inganniamo noi stessi, quanto più crediamo di vederci con chiarezza”. Viet Thanh Nguyen compie un lavoro di destrezza fondendo in tre sezioni differenti, eppure incastrate una dell’altra, la ricostruzione storica della caduta di Saigon, sinonimo della sconfitta dell’America, l’interpretazione cinematografica di quella discesa nelle tenebre e l’ultima (logorroica) parte della prigionia e degli interrogatori. La collisione di due mondi viene condensata nelle personalità schizofreniche che Il simpatizzante coltiva per dovere e con piacere: la costruzione è elaborata (e non senza sorprese), a tratti ridondante, spesso torbida e ipnotica tanto che, a lungo, si ha l’impressione si inseguire un fantasma. O, forse, due.
mercoledì 8 agosto 2018
Allen Ginsberg
Cresciuto e sviluppato con l’attiva partecipazione, nella traduzione e nella cura, di Allen Ginsberg, almeno fino a quando è riuscito, Papà respiro addio è un compendio enorme, tumultuoso, istintivo della sua opera che viene annunciata in prima persona dallo stesso poeta, “soddisfatto della progressione dispiegata di temi politici, devozionali e sessuali, dei sentieri spirituali tracciati con freschezza, della volontà di forze poetiche esplorate”. Il nucleo del ricchissimo lavoro antologico è rappresentato idealmente da Urlo e Kaddish. Urlo è il poema che, per accezione comune, segnò l’inizio di tutta la Beat Generation allorché il 13 ottobre 1955 il suo autore lo lesse alla Six Gallery di San Francisco, e non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Kaddish è composto dalle strofe toccanti che invece dedicò in occasione della morte della madre Naomi. Accostate nello stesso volume le due composizioni danno un’immagine speculare di Allen Ginsberg: da una parte il bardo, il profeta, il guru e dall’altra l’intimo oratore, il profondo conoscitore di sentimenti, il timido narratore. Per conoscere tutti i volti del poliedrico Allen Ginsberg oggi non c’è niente di meglio di Papà respiro addio: oltre a Urlo e Kaddish, si ritrovano ampi stralci tratti da La caduta dell’America, da Saluti Cosmopoliti (1986-1992) nonché numerosissimi inediti. Papà respiro addio ha perciò una funzione retrospettiva di primissimo piano nell’opera di Allen Ginsberg, sia per la dimensione della raccolta, sia per la scelta che è stata centellinata in maniera davvero eccellente. Ne emerge uno scrittore gigantesco, convinto che “il metodo dev’esser tutta carne non salsa simbolica visioni reali e reali prigioni viste allora e ora” e capace di interpretare le parole, ma anche di usarle in tutto il loro tagliente potere, lasciando nell’introduzione a Papà respiro addio (scritta poco più di un anno prima dalla sua morte) una nota che sembra una rivendicazione pura e semplice, dove afferma: “Io volevo poesia realistica, fondata nelle emozioni ideali comuni dei cittadini di una democrazia, volevo fare profezia bardica e contribuire a terminare la guerra, influenzando la coscienza della nazione e invocando un risveglio di una nuova età in America”. Propositi tutt’altro che utopici e che riletti attraverso Papà respiro addio mostrano l’incalcolabile dimensione della vocazione di Allen Ginsberg, così declamata: “Immaginavo un campo di forza di linguaggio contrario al campo ipnotico dell’apparato di controllo costituito da media governo polizia segreta e forze armate, coi loro miliardi di dollari di inerzia, disinformazione, lavaggio del cervello, allucinazione di massa”. Il legame con Dylan, anfitrione di universi sonori, canzoni, ballate & ritornelli, le dediche a Gregory Corso (“Maestro di saggezza, genio americano di antico e moderno idioma, padre poeta di concisione”), a Kerouac, Herbert Huncke & Burroughs (“Non nascondere la pazzia”) e a se stesso, tramite una lirica Scritta in un mio sogno da William Carlos Williams, (“Prenditi i rischi della tua accuratezza, ascolta te stesso, parla a te stesso, e gli altri lo faranno, contenti, sollevati dal fardello, il loro, pensiero e dolore. Ciò che è iniziato come desiderio, terminerà più saggio”) ribadiscono un sentire comune perché i protagonisti sono sempre radunati in quel “noi” che, come scrive in L’auto verde, “vediamo insieme la bellezza delle anime nascoste come diamanti nell’orologio del mondo”. D’altra parte, perso in una contraddizione fiorita dalle moltitudini di Walt Whitman (qui celebrato più che mai), Allen Ginsberg è concentrato su una percezione tutta personale, ribandendo che “cosa son le visioni se non visioni”, e alludendo a “una letteratura privata”, meglio specificata in America, quando dice: “Mi viene in mente che io sono l’America, sto sempre parlando a me stesso” e concludendo in Con chi essere buoni: “Sii buono con tuo sé, è il solo e peribile di molti sul pianeta”. Papà respiro addio non è soltanto una porzione significativa della poesia di Allen Ginsberg e un puro delirio americano del ventesimo secolo, è una sorta di testamento di una generazione visionaria e irripetibile che Allen Ginsberg riesce a riassumere, in Giardini di memoria, con straordinaria precisione: “Già che sono qui farò il lavoro, e qual è il lavoro? Alleviare la pena di vivere. Tutto il resto, ubriaca pantomima”. Monumentale.
mercoledì 1 agosto 2018
Anthony Hecht
Le ore dure è composto da una selezione di mezzo secolo di versi di Anthony Hecht, definito nella ricca introduzione di Joseph Harrison “un grande poeta tragico, il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”. Una vocazione che filtra attraverso l’interpretazione del supplizio dell’imperatore Valeriano in Guardate i gigli del campo e, in modo molto più diretto, nella ricostruzione delle sue esperienze nell’esercito americano a Flossenbürg. Una dolorosa epifania che emerge con La stanza (tratta da Riti e cerimonie) e si ripropone più avanti in “Più luce! Più luce” (“Non una preghiera, niente incenso, s’alzò in quelle ore che divennero anni; e venivano ogni sera muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante, posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera”). Incaricato di interrogare i superstiti del campo di concentramento nazista, testimoni di sofferenze “inimmaginabili”, Anthony Hecht rimase sconvolto e nella sua poesia quell’angoscioso background si traduce in una cura estrema e raffinata. Le parole sono scelte con scrupolo e la cernita predilige temi e termini coloriti, espressioni poliedriche, sfumature ambivalenti (su tutte quelle di Una lettera: “Comunque, voglio tu sappia che ho fatto del mio meglio, come son sicuro hai fatto anche tu. Qualcun altro è legato a noi, incolpevole e garbato, il cui nome sta nel garbuglio delle ciance incessanti. Carissima, il limpido, insepolto blu di quegli abissi è quasi accecante”). La costruzione è stratificata, verso su verso, un processo che è esemplare in Natura morta: “Tutto ciò è ancora a venire. Ogni cosa è assolutamente ferma, immota, in tutto l’universo, come un’antica tazza cinese, e la natura è sontuosamente senza sentire. Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto o un presagio attutito di intenti ed eventi preordinati? Mi conosce, e io conosco il suo amareggiamento di cauta esitazione, di molla pronta a scattare, i suoi silenzi così intensi e trincerati”. Come si può vedere, il senso compiuto delle liriche rimane chiarissimo pur avvalendosi di citazioni e rimandi che si infiltrano in un vocabolario già ricchissimo. Un florilegio intenso di letture, e scoperte, molti passaggi riconoscenti incastrati tra i versi: Shakespeare, prima di tutto e sopra tutti, poi un titolo preso da Emily Dickinson (Un certo taglio di luce) per una poesia ispirata a una frase di Anton Čechov, William Blake evocato in Divinazioni di innocenza, il Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce saccheggiato in Apprensioni (“Le mie armi erano silenzio e astuzia, nel mio esilio involontario, mentre tentavo di fare due più due, senza successo”), Theodore Roethke ricordato in Verde: un’epistola e poi Yeats, Flaubert e un dipinto di Pierre-Auguste Renoir che ispira L’offerta espiatoria. L’immancabile Wallace Stevens viene omaggiato in Vedi Napoli e puoi muori (“Credo che su quell’altezza io fossi davvero felice. Anche se con il passare del tempo ne so sempre meno di cosa sia la felicità, a meno che non sia ciò che la saggezza popolare celebra come ignoranza”) che però esprime l’assiduità di Anthony Hecht con l’Italia, una felice predisposizione condivisa con Charles Wright. Ovunque, nel suo viaggio, la condizione del poeta è quella di un “buongustaio della solitudine” che, come illustra in Peripezia, “in ogni caso, con libertà unilateralmente acquisita, la mente, sola reggente di se stessa, prolunga l’oscurità e il silenzio, rispecchia se stessa, si delizia nella coscienza, sola, sufficiente, agile, toccata da una minuscola grazia”. L’attesa è il momento delle rivelazioni e in fondo a Le ore dure Anthony Hecht confessa di amare “il calcolato, protratto pregustare non tanto la rappresentazione in sé, quanto il crepuscolo e l’ugualmente falsa notte, quando le luci di sala obbediscono a chissà quale reostato planetario, e suscitano immobilità assoluta. Quell’immobilità io aspetto”. Ci vuole più di una lettura, ma alla fine, Anthony Hecht si rivela un poeta straordinario.
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