lunedì 30 agosto 2010
George Pelecanos
lunedì 9 agosto 2010
James Dickey
Anche a distanza di oltre trent'anni dalla sua pubblicazione, Un tranquillo weekend di paura è una storia (tanto in versione letteraria quanto in quella cinematografica, per la regia di John Boorman) fondamentale per comprendere la cognizione della wilderness americana. Durissimi, spietati, feroci e senza lieto fine all'orizzonte, tanto il film quanto (e più) il romanzo hanno come protagonista assoluto il fiume e un paesaggio che, come è vero, vive di vita propria. L'assunto principale di Un tranquillo weekend di paura è che Lewis, Bobby, Drew ed Ed hanno perso (come tutti noi) il contatto con la natura e non basta certo un fine settimana in canoa per ritrovarlo. Anzi, l’alveo del fiume diventa ben presto un'entità oscura, impenetrabile e minacciosa come racconta Ed: “I luoghi cominciavano a essere molto solitari e silenziosi. Ricordai che potevano spaventarmi e subito mi spaventai. Era la splendida impersonalità del posto a impressionarmi; non avrei mai creduto che potesse colpirmi tutto a un tratto in quel modo, o con tanta forza. Il silenzio e il suono-silenzio del fiume non avevano niente a che vedere con noi”. Non si potrebbe dire meglio. Le sole note dissonanti sono gli accordi della Martin di Drew che suona pezzi di Gary Davis, Dave Van Ronk, Merle Travis, Doc Watson, affascinato dal panorama e dall'aver incontrato un giovane banjoista (“Ci sono canzoni, tra quelle alture, che i collezionisti non hanno mai registrato su nastro” e forse nemmeno Alan Lomax o Harry Smith sarebbero mai passati da quelle parti). I frammenti di musica, fondamentali nell’economia della storia (a suo tempo la colonna sonora del film contribuì non poco ad una delle cicliche riscoperte delle radici musicali americane) sono l’unica forma, in sé volubile e frammentaria, di un impossibile dialogo con gli abitanti radicati nella wilderness, resi in modo piuttosto feroce e univoco da James Dickey. Una versione più cortese sarebbe risultata improbabile, vista la volontà di sottolineare l’enorme e incolmabile distanza tra due mondi ormai separati per sempre. Il dramma non tarda a giungere (anche se poi la natura ha responsabilità relative: è sempre il genere umano l’animale più feroce) e tra i cittadini in cerca di emozioni e i loschi individui che sono emersi dalla foresta si scatena una caccia dove prede e predatori sono ruoli che, “dove porta il fiume”, diventano interscambiabili. I dettagli, e molti altri risvolti, vanno scoperti attraverso la dettagliata e scorrevole scrittura di James Dickey, che di Un tranquillo weekend di paura ha detto: “Volevo far vedere un uomo che, per difendere la propria vita e quella di due persone che dipendono da lui, diventa un eroe e insieme un criminale: volevo far vedere, in effetti, che non esiste un reale confine tra i due, a volte o forse in generale”. Simbolico che, nel finale del film, James Dickey impersoni lo sceriffo (John Voight è Ed e Burt Reynolds è Lewis) ed è altrettanto emblematico che sia un lago artificiale, alla fine, a nascondere definitivamente una storia piena di ambiguità, di luoghi e di contrasti che fanno pensare, e non poco.
Jack Finney
Sandra Cisneros
Non capita tutti i giorni di incontrare una scrittrice che cita Los Lobos, Augie Meyers e i Texas Tornados, Flaco Jimenez nonché un elenco sterminato di musicisti chicani che, vivendo a San Antonio, Texas, sono una parte integrante della sua vita. Anche se è nata a Chicago, da una famiglia di origine messicana, Sandra Cisneros ha sempre sentito un richiamo, innato e spiritato, verso il border anche se, ha detto, “essenzialmente siamo scrittori americani che scrivono in inglese e abbiamo bisogno di uscire dagli Stati Uniti per trovare una nostra strada, un nostro pubblico. Dal mio punto di vista, cerco di portare, di raccontare la diversità dei latinos negli Stati Uniti, che non è necessariamente la mia storia, la mia diversità perché io sono stata fortunata. Mio padre faceva il tappezziere e sono potuta andare all'università, ho studiato e non sono dovuta fuggire da nessuna parte, ma non è così per tutti gli emigranti”. Fosso della Strillona raccoglie i racconti degli esordi di Sandra Cisneros (risale al 1991), un'orchestrata accolita di voci femminili che suddivisa è suddivisa in short stories, ma è in realtà un romanzo dedicato alle vite passate sul e nel border, come conferma la stessa scrittrice: “Sì, la mia scrittura vive dei loro racconti. Il Fosso della Strillona è un vero torrente vicino a San Antonio, Texas, dove vivo. Bisogna ricordare che il Texas si chiamava Tejas ed era parte del Messico e ho provato a scrivere la storia da mio punto di vista, ho cercato di raccontare storie che diversamente sarebbero andate perse. Il cinquantadue per cento del Texas, dove vivo, è messicano, chicano, latinoamericano e afroamericani, ma nessuno sa di noi, nessuno consoce la nostra vita. Siamo esclusi dalle posizioni di potere, dai media. Neanche i nostri bambini conoscono la storia, perché non gliene viene offerta la possibilità. Per esempio, il motto di San Antonio è: ricordiamo Alamo, e tutti i libri di storia presentano i messicani come nemici che trucidarono gli americani, ma nessuno ricorda che erano proprio loro gli invasori. Tutto ciò genera una specie di schizofrenia che si riflette evidentemente sul nostro tessuto sociale. Il cinquanta per cento dei latinos abbandona gli studi nei primi anni della scuola superiore e abbiamo la più alta percentuale di gravidanze nell'adolescenza. Per questo scrivo le storie della mia gente. Ogni singola storia può sembrare banale, ma tutte insieme fanno un'epopea". Più scorrevoli e brillanti di Caramelo (basta, per esempio, leggere il brevissimo Film messicani: due pagine, un incanto) le diversi parti di Fosso della Strillona sono composte da un'ardita miscela culturale che viene assemblata con lingue, strumenti e sfumature culturali molto differenti, ma senza soluzione di continuità. Tutto dipende dalla formazione di Sandra Cisneros che lei stessa riassume così: “Sono cresciuta in una casa piena di libri, ma erano libri della biblioteca pubblica di Chicago. Fintanto che sono cresciuta, infatti, ho pensato che i libri fossero una proprietà pubblica. In più, mia madre portava a casa i fotoromanzi e mio padre delle sanguinose riviste noir, tanto truculente che mia madre lo costringeva ad avvolgerle nella carta da pacco per nasconderne le copertine. Nella mia famiglia non si faceva distinzione e così tra i libri di Christian Andersen o le riviste è nata la mia cultura. Anche se oggi il mio ricercare non avviene in biblioteca, perché le nostre storie non si trovano nelle biblioteche, ma andando a conoscere direttamente le persone perché ogni persona è una biblioteca che cammina e quando mi racconta la sua storia, diventa subito una parte della mia storia. Non so poi, perché tenda a mettere tutto quanto nelle mie storie credo dipenda dallo stile messicano, mas y mas, di più e di più e credo sia qualcosa molto vicino anche alla cultura mediterranea. Non so perché, forse un antropologo potrebbe spiegarlo. Forse è perché come emigranti siamo abituati a portarci dietro tutto, e allora non ci facciamo mancare nulla. Mas y mas, appunto”. Anche la musica con cui, a sorpresa, Sandra Cisneros ha un rapporto contradditorio: “Quando scrivo dedico alla musica un sacco di tempo e di ricerche perché è fondamentale nel ricreare gli spazi e gli anni che racconto, ma quando non devo scrivere mi dimentico completamente della musica, c'è silenzio completo, assolutamente neanche un rumore. In macchina ascolto lezioni per non perdere tempo e non ascolto la radio perché mi rende nervosa. Ma quando scrivo la musica è indispensabile per creare un mood, per ricostruire un’epoca, un ambiente, come è stato per Caramelo. Poi vivendo a San Antonio, che è la capitale della musica chicana, la Nashville della musica chicana, la musica è tutta intorno, tutto il giorno”. Dalla racconta di Fosso della Strillona manca un tassello importante, ma non è frutto di una scelta editoriale o di un errore bensì di un'intuizione. Racconta meglio Sandra Cisneros: “Insieme ai racconti di Fosso della Strillona c'era questa short story e un mio amico mi ha detto che conteneva già tutto un romanzo. All'inizio ero entusiasta dell'idea, l'ho tolta dalla raccolta e ho cominciato a lavorarci. Poi l'avrei maledetto perché quella storia mi ha portato via un bel pezzo della mia vita, è stata un'impresa molto difficile e faticosa, perché il piacere non è scrivere, è finire”. Dieci anni dopo, quell'outtake sarebbe diventata Caramelo, che è e resta un capolavoro.
domenica 8 agosto 2010
Thomas McGuane
David Gates
Oltre a essere uno splendido romanzo, Preston Falls è soprattutto una storia che racconta quanto contano e pesano la musica pop e il rock'n'roll nelle nostre vite. Una colonna sonora costante che arriva dall'autoradio, dai nastri e dai dischi, dagli spot televisivi, dalle sonorizzazioni dei supermercati e degli aeroporti. Anche dalla passione coltivata come se fosse un rifugio estremo e inattaccabile dalle intemperie della realtà. Si sa come funziona l’infinito sogno di diventare una rock’n’roll star, anche quando capita a tempo ormai scaduto, come succede a Dougie Willis, il protagonista maschile di Preston Falls, che, su tutto, adora suonare la chitarra. Ne ha quattro, tutta roba di qualità rigorosamente vintage: Fender, Gibson, Martin, Rickembacker. Di professione è, o dovrebbe essere, un dirigente delle relazioni pubbliche, ma non manca mai di suonare la sua Telecaster sopra Talk Is Cheap, il primo album solista di Keith Richards. La moglie, Jean Karnes, la chitarra non riesce più a suonarla (con due figli, è un po' difficile), ma in gioventù sapeva a memoria tutte le canzoni di Blue di Joni Mitchell. Lei e lui si sono incontrati ad un concerto di Bob Dylan nel periodo della conversione cristiana (sono usciti prima della fine) tra Slow Train Coming e Saved. I tempi, come direbbe lo stesso Bob Dylan, cambiano e Preston Falls racconta, con intensità e amarezza, una famiglia che si sta separando. A Dougie Willis, poco portato al dialogo e più incline a sogni del tutto inconcludenti, resta soltanto un’improbabile rock’n’roll band (con un nome futile, Air Bag). A cui un’immane quantità di tempi e pensieri. Forse un po’ troppi, perché come dice la consorte (che non ha meno problemi di lui) “Willis ha sempre quattro o cinque ragioni per fare qualcosa”, e spesso non sono proprio le più giuste. Basta l'ultimo week-end delle vacanze, a Preston Falls (appena fuori New York) perché il suo matrimonio, la famiglia e una mezza dozzina di vite comincino a disintegrarsi in un acido pulviscolo di rimpianti. Senza lieto fine, ma questo tocca al lettore scoprirlo. A trascinarlo fino in fondo ci pensa David Gates con una scrittura a ritmo serrato, dialoghi brucianti, un sovrapporsi di personalità, punti di vista, personaggi che non lasciano scampo. La bancarotta esistenziale e le nevrosi di Dougie Willis e consorte, due esponenti della middle class suburbana, ricorda da vicino quella di Frank Bascombe e della di lui X (la chiamava così) in Sportswriter, con cui Preston Falls ha più di un punto in comune. Però a David Gates mancano i toni consolatori e quel senso di pietà per il genere umano che è proprio di Richard Ford. Tagliente, durissimo, senza alcuna concessione, a volte persino malinconico nel raccontare il crepuscolo di un matrimonio (ma anche di un intero modo di vivere, con ogni probabilità) Preston Falls vibra di rock’n’roll dall'inizio alla fine, un po’ per i trascorsi di David Gates e un po' per la passione di Dougie Willis (che ha qualcosa in comune con Steve Earle). Memorabile la sequenza delle prove degli Air Bag, dove il buon Willis si trova con una combriccola di spaesatissimi fuori di testa. Tentano l'attacco di Walk This Way (ma gli Aerosmith non sono una rock’n’roll band facile da imitare), il batterista chiede disperatamente di suonare qualcosa degli Stones, le chitarre sono sempre scordate, cocaina e marijuana scendono a valanga. Il gruppo non è che funzioni benissimo, ma “comunque è bello farsi di cocaina e suonare il rock’n’roll, o anche solo farsi e restare là con le chitarre e il resto”. Gli va un po' meglio quando decide di suonare sopra i dischi, ma è davvero una soddisfazione minimale e relativa quando tutto intorno il mondo sembra venire giù con le foglie dell'autunno. A Preston Falls, dove Willis si è venduto anche le tegole del tetto, non rimane molto da fare e infine anche il “tempo di rock'n'roll” come lo chiama David Gates svanisce. Una fantasiosa vita parallela può essere una valvola di sfogo e, come sappiamo, un’utilissima e fondamentale componente in cerca di un equilibrio esistenziale, ma non è mai autosufficiente, nemmeno con il miglior rock’n’roll. Per Dougie Willis l’unica e ultima alternativa rimane la fuga, mentre a Jean Karnes restano i figli. Per tutti (e due) un’infinita amarezza, che nessuna canzone, nessuna ballata può curare.
venerdì 6 agosto 2010
Hunter S. Thompson
Don DeLillo
“Mick in una stanza con la mascella ciondolante. La bocca fa i gargarismi e sputa, lecca un cono gelato. E il pezzo di filmato è vibrato in rosso, corpi bioluminescenti, proprio quello che tutti amiamo del rock'n'roll, pensò Klara, l'aureola di luce di una morte superiore”: mettete un segnalibro sull’immagine fluttuante raccontata da Don DeLillo nel cuore di Underworld, ma prima di tutto, tenete d'occhio la palla. E' un fuoricampo del 1951: storico, per la vittoria dei Giants e perché nello stesso momento i sovietici facevano esplodere un ordigno atomico, mettendo a repentaglio la supremazia americana negli armamenti nucleari e inaugurando l'era della guerra fredda, della bomba, della paura e della caccia alle streghe. La palla vincente diventa un feticcio che viaggia da un capo all'altro del paese, inseguita da una folla di personaggi che attraverso le loro vite tratteggiano a tinte forti la cognizione e la percezione di mezzo secolo di storia americana. E' subito spontaneo un parallelo con Pastorale americana di Philip Roth che ripercorre, su scala familiare, lo stesso periodo, ma i personaggi di Don DeLillo sono più tremendamente soli con le loro incognite. C'è chi dipinge resti dei bombardieri B-52, chi cerca di eliminare rifiuti pericolosi per poi vederseli costantemente tra i piedi, chi lavora nelle basi segrete attorno ad Alamagordo, chi viene sfiorato dall'alone di Lenny Bruce o di Frank Sinatra. Tutti inquadrati da Don DeLillo attraverso i piccoli gesti quotidiani delle loro esistenze che danno il ritmo ad Underworld rendendo il tempo, la storia i veri protagonisti anche se, come scrive lo stesso DonDeLillo "in ultima istanza, noi non dipendiamo dal tempo. C'è un equilibrio, una specie di contrappeso tra la continuità del tempo e l'entità umana, il nostro fragile castello di soma e psiche. Alla fine noi soccombiamo al tempo, è vero, ma il tempo dipende da noi". In queste quattro righe c'è l'essenza di Underworld, romanzo che sembra riunire in un solo, voluminoso (sono ottocento pagine) delirio tutti i temi cari a Don DeLillo: i lati oscuri del rock'n'roll di Great Jones Street (il vero, unico, fondamentale testo sul rock'n'roll), le paranoie della società moderna di Rumore bianco e Mao II, il feticismo di Cane che corre e le presenze inquietanti di servizi segreti e altri grandi fratelli in Libra, I nomi e I giocatori. Il tutto centellinato con una scrittura esigente, sì, con il lettore, ma che offre una percezione della realtà e in ultima analisi del mondo in cui viviamo come nessun altro scrittore o qualsivoglia mezzo di comunicazione ha mai provato a fare. Tanto che dopo la lettura, anche soltanto di una buona metà di Underworld, capita, come ai personaggi di Don DeLillo, “vedere cose strane in una stradina secondaria in una sera piovosa, e ci si chiede come mai sembrino significative”. Per semplificare, Underworld alza la soglia dell'attenzione e porta il lettore a vedere dentro la storia, il tempo, i fatti allenandolo, pagina per pagina, ad approfondire la sua osservazione. Per questo non bisogna mai perdere di vista la palla. Ah, e per chi fosse stato appena appena sfiorato dal dubbio, Mick è Mick Jagger e nella grande odissea americana dal 1951 agli anni Novanta, a rappresentare la prima metà degli anni Settanta (il breve capitolo centrale di Underworld) ci sono proprio loro, i Rolling Stones di Cocksucker Blues. Gli unici, veri ed eterni principi dell’Underworld. Capolavoro.
Kurt Vonnegut
Malcolm Lowry
Messico, whisky, notti piene di demoni drammatico e visionario viaggio nei meandri più oscuri dell'anima, Sotto il vulcano doveva essere, nelle intenzioni di Malcolm Lowry, il nucleo centrale di un'opera che avrebbe compreso anche Ultramarina, Ascoltaci signore nonché tutti i racconti e i romanzi in fase di gestazione. Il titolo della sua personale ricerca del tempo perduto sarebbe stato Il viaggio che non ha mai fine, che spiega già sottilmente una possibile verità su Malcolm Lowry: il vero romanzo è stato quello della sua vita. Viaggiatore e bevitore, Malcolm Lowry era constantemente alle prese con visioni e revisioni dei suoi romanzi, pubblicati o meno che fossero, come se nella vita e nella scrittura fossero possibili aggiornamenti in corsa. Scriveva in Sotto il vulcano, cercando un'ennesima definizione alla sua personalità: “Ed è così che talvolta penso a me stesso, come a un grande esploratore che abbia scoperto una terra straordinaria dalla quale non possa mai ritornare per darne contezza al mondo: ma il nome di questa terra è inferno. Non è al Messico, naturalmente, l'inferno ma nel cuore”. La vita del Console, protagonista di Sotto il vulcano, e quella di Malcolm Lowry s'intersecano ripetutamente, in lotta con fantasmi, rimpianti e ombre inquietanti che spuntano dal tramonto all'alba: “Notte: e ancora una volta, il notturno corpo a corpo con la morte, la stanza che trema di orchestre demoniache, i brevi periodi di sonno spaurito, le voci fuori dalla finestra, il mio nome continuamente ripetuto in tono beffardo da ospiti immaginari in arrivo, le spinette del buio”. E' facile perdersi nella bolgia di Sotto il vulcano: il contorno di disperati di ogni forma e natura, è uno scenario cupo e cacofonico che fa da contrappunto alla disperazione del Console il cui divorzio sembra sancire una netta separazione dal mondo oltre che dalla moglie. Ciò non impedisce al Console, ed a Malcolm Lowry, di percepire la distruzione incombente sul Messico, a sua volta nazione abbandonata al proprio destino. E' una sensazione, l'ennesima profezia dovuta all'alcool o alle troppe letture di William Blake: “Chi avrebbe mai creduto che un uomo oscuro, seduto al centro del mondo in una stanza da bagno, diciamo, a pensare miseri pensieri solitari, stesse mettendo in moto il funesto destino di loro tutti, e che, anche mentre egli stava pensando, fosse come se da dietro le quinte si tirassero certi fili, e interi continenti esplodessero in fiamme”. Incendi tutt'altro che metaforici: non è un caso che l'intera e complessa gestazione di Sotto il vulcano abbia seguito tutto il corso della seconda guerra mondiale (Malcolm Lowry lo cominciò nel 1936 per vederlo pubblicato, dopo tre riscritture almeno, nel 1947) e che lo stesso Malcolm Lowry lo considerasse “una profezia, un monito politico, un criptogramma”. Sarebbe stato più semplice da decifrare se il grande progetto di Malcolm Lowry si fosse compiuto, ma a dispetto del suo working title, il viaggio trovò una sua fine, nel 1936, in Inghilterra: ancora una bottiglia in mano e “la luce del sole non poteva condividere il fardello della sua coscienza, di quella pena senza sorgente”.
Joe R. Lansdale
Sam Shepard
E’ passato quasi mezzo secolo, ma leggendolo (e guardandolo) sembra che la Rolling Thunder Revue sia finita ieri. Tutto comincia quando Sam Shepard, all'epoca sceneggiatore emergente, trova un appunto accanto al telefono in cui c'è scritto che Bob Dylan ha chiamato e che è urgente richiamare. “Funziona così, giusto? Dylan ti chiama e tu molli tutto. Come il canto delle sirene, o una roba così. Tutti mollano la zappa a metà del solco e si precipitano da qualche parte del Nord-Est” scrive Sam Shepard all'inizio dell'avventura: il suo compito sarà quello di cercare di dare una forma compiuta (parlare di sceneggiatura è troppo) al film che deve documentare la Rolling Thunder Revue. Una tournée decisamente anomala, a prima vista: nell'autunno 1975 Bob Dylan si fa accompagnare da una nutrita e composita serie di musicisti e ospiti (si va dal grande chitarrista inglese Mick Ronson, a Joan Baez, da Allen Ginsberg a Roger McGuinn) per una serie di spettacoli in piccoli teatri del New England, il cuore della repubblica invisibile americana. Per quanto estemporanee siano le motivazioni e caotica l'organizzazione, la Rolling Thunder Revue incrocia e delimita tutta una galassia di suggestioni: sembra ricalcata su un medicine show (uno di quegli spettacoli itineranti che costituirono parte fondamentale della cultura popolare americana); ha lo stesso carattere informale dei bivacchi e delle canzoni attorno al fuoco (anche se il concerto finale sarà al Madison Square Garden, forse per far tornare i conti dicono gli scettici); ha un carattere comunitario perché musicisti, tecnici, giornalisti e scrittori al seguito (compreso Sam Shepard) vivono tutti insieme (Bob Dylan e relativo manager a parte); e, per finire, sembra sublimare, sulla tomba di Jack Kerouac, tutta l'epopea della Beat Generation. La guerra del Vietnam è finita drammaticamente da pochi mesi, “la caduta dell'America”, come direbbe Allen Ginsberg, è verticale e rovinosa e persino il nome stesso della tournée sembra una specie di “addio alle armi”: Rolling Thunder era infatti la sigla con cui erano identificate le operazioni di bombardamento sul Vietnam dal 1965 al 1968. Non è certo che sia stato l'unico modello di riferimento per trovare il nome al tour (anche se chiamare i camerini “Guam”, dal nome della base da cui partivano i B52, è un altro indizio piuttosto decisivo), ma la connessione è evidente. La Rolling Thunder Revue è stato l'ultimo valzer definitivo, un viaggio nei luoghi dei Basement Tapes, l'inizio del Never Ending Tour, un commiato fragoroso e decadente perché “il passato è questo istante che fugge”, scrive Sam Shepard e il suo diario è un processo, per frammenti e tentativi, per cogliere l'attimo, lo spirito dei tempi, il colore delle chitarre, le gambe di Joan Baez e il volto di Joni Mitchell, David Blue e William Burroughs, Muhammad Ali alias Cassius Clay e Rubin Carter alias Hurricane e naturalmente Bob Dylan in action che proprio con la Rolling Thunder Revue sembra proiettato verso una dimensione sublime. Il coltissimo e lucido (nonostante la quantità di sostanze illecite che furono parte integrante della tournée) Sam Shepard gli trova una connotazione che va oltre il tambourine man, la rock'n'roll star, il portavoce di una generazione, il folksinger o uno dei tanti luoghi comuni che chiunque ha provato a stampargli addosso quando scrive che Bob Dylan e tutta l'aura che si è creato attorno hanno la forma del mito e “il mito è un mezzo potente perché parla alle emozioni e non alla testa. Ci spinge in una zona di mistero. Alcuni miti sono pericolosi da seguire mentre altri possono cambiare qualcosa dentro di noi, anche solo per un minuto o due”. Nessuno ha scritto di Bob Dylan come lui e l'originale Rolling Thunder Logbook è stato arricchito da una (sua) nuova prefazione (molto bella) e da una nota di T-Bone Burnett all'epoca imberbe chitarrista finito nella mischia. Per i più giovani, va segnalato che i dischi di riferimento sono Desire, Hard Rain e naturalmente il capitolo delle Bootleg Series del 1975 dove Larry Ratso Sloman, inviato da Rolling Stone al seguito, scrive che i bombardamenti chiamati Rolling Thunder vennero ordinati da Nixon negli ultimi anni della guerra del Vietnam. Il lapsus (peraltro relativo) rende però bene l'idea di come si volesse ancorare Bob Dylan ad un dato storico, a un presente evanescente, alla cronaca quotidiana mentre era già in partenza verso il passato o il futuro o tutti e due perché, come scrive T-Bone Burnett in conclusione alla sua presentazione, “da allora nessuno è stato più lo stesso”. Fondamentale.
Chester Himes
Bill Morris
Nella città delle catene di montaggio, gli opposti si compongono. Se per qualcuno il Detroit sound è solo Gibson e Marshall, per qualcun altro è soltanto Marvin Gaye. Due estremi di un mosaico complesso, perché nella Motor City raccontata da Bill Morris nell'omonimo romanzo, c'è veramente di tutto e di più. Ornette Coleman, Elvis Presley, Miles Davis, Smokey Robinson, Ike Eisenhower e la moglie, Vladimir Nabokov e Lolita, Jack Kerouac e Neal Casady: una valanga di personaggi che sono altrettanti clichés della cultura popolare americana s'incastrano in una trama che è un po' spy story e un po' romanzo storico. Il cuore è, come non poteva essere diversamente, nella General Motors, la città nella città: sullo sfondo degli anni Cinquanta un gruppo di disegnatori, il capo divisione, il suo addetto stampa nonché altri dirigenti prezzolati, sono impegnati a tamponare una fuga di progetti delle nuove automobili. E' solo una chiave di accesso per aprire le porte della Motor City: difficile, e poco utile, dipananare la trama e più facile lasciarsi andare seguendo i vari Will Lomax, Ted Mackey, Claire Hathaway, Norm Sleski, Harvey Pearl (e molti altri ancora). Manie, ambizioni, fortune, disastri, nostalgie si intersecano e si sommano come se la città fosse veramente un'enorme metafora della catena di montaggio e dell'industria automobilistica, che assorbe ogni pensiero e tutte le vite, così come la descrive uno dei personaggi di Motor City: “C'erano gli specialisti del coprimozzo, gli specialisti del cruscotto, gli specialisti del paraurti. E anche se, magari, ogni disegnatore aveva dato solo un piccolo contributo all'automobile finita, erano tutti personalmente molto fieri dei risultati che avevano raggiunto. Quella decorazione del cofano è mia, dicevano, oppure: Questa inclinazione del parabrezza è opera mia. Morey non ci aveva mai pensato prima di allora. Aveva sempre creduto che le automobili uscissero complete dalla mente di qualcuno, come un pulcino da un uovo. Invece, le automobili erano frutto del lavoro manuale di decine e decine di disegnatori di carrozzerie che lavoravano duramente per settimane, mesi, addirittura anni, sotto scadenze rigide e luci bianche violente. Morey aveva imparato da tempo che le due cose che uno di solito preferisce non vedere mentre le fanno sono i salumi e le leggi. In quel momento aggiunse alla lista le automobili”. La fabbrica diventa una città; la città si allarga fino a comprendere i sogni di una nazione; l'America, di questo stiamo parlando, diventa il mondo attraverso il rock'n'roll (e tutti gli altri suoni di Detroit), Miles Davis, Marylin Monroe e l'ultimo modello di automobile. E' la nuova Buick Century la vera protagonista di Motor City : un mito che diventa realtà a forza di giornate lavorative che durano sedici ore e finiscono regolarmente in birra e whiskey e in una solitudine complessiva di chi sacrifica la propria esistenza ad un sogno imposto dalle evenienze. Bill Morris, senza confondere il senso della storia con le sfumature storiche, inventa un romanzo che si consuma allegramente come uno spudorato rock'n'roll album, ma che contiene anche un chiaro quadro antropologico e politico della limitatezza delle basi culturali americane. Almeno quelle di chi sosteneva che quello che va bene alla General Motors, va bene all'America. Abbiamo scoperto che non è proprio così, e non solo nella Motor City di Bill Morris.