Tra i primissimi
tentativi di comprendere la cultura hip-hop e in particolare il rap, che ne è
la voce, l’excursus di David Foster Wallace e Mark Costello si basava in modo
esclusivo, o quasi, sulla spinta della curiosità, senza appoggiarsi su punti di
vista determinati o affrettate conclusioni. Essendo un tema delicato e
complesso, DFW si è affidato all’intuito e alla percezione, corroborate da un
sublime bagaglio di conoscenze e di parole che gli faceva sostenere in prima
battuta: “E’ a livello di un bregma fondamentale della cultura pop, dove certe
dicotomie come quelle fra arte e politica, mezzo di comunicazione e messaggio,
centro e periferia, si congiungono e devono coabitare, che si incaglia ogni
tentativo di giudizio estetico obiettivo sul rap compiuto da un ingranaggio del sistema
bianco, anche col massimo entusiasmo. Dato che il rap si autodefinisce creato da e per un gruppo che noi, in quantro cultura bianca postreaganiana,
consideriamo altro, è
un tipo di musica da cui tendiamo automaticamente a isolare ed eliminare alcune
fastidiose complessità, come l’unicità delle esperienze, dei gusti, delle
convinzioni, dei modelli, dei valori e degli obiettivi di ogni singolo artista,
allo scopo di raggiungere la definizione ampia e superficiale che ci viene imposta
dalla rubrica voce rappresentativa di una cultura aliena e minacciosa”. Più che illustrare il rap ai bianchi,
David Foster Wallace cerca di spiegarselo a se stesso e lo fa vagando tra
istantanee sociologiche (“Il rap è un distillato unico dell’energia e
dell’orrore della realtà contemporanea urbana degli Stati Uniti”) e lampi di
filosofia, soprattutto quando enuncia che quella del rap è “una visione
profondamente cupa: un presente in forma di distopia da cui non può emergere
alcun futuro, neppure costruito dalla fantasia”. Opinioni e posizioni
discutibili e, potendo, aggiornabili, anche in virtù del fatto che Il rap
spiegato ai bianchi risale
al 1990, ovvero all’inizio di tutto. Resta la sensazione che DFW abbia sfiorato
le estremità più importanti del rap e del suo senso ultimo. Da una parte, in
particolare quella bianca, c’è l’eterno fascino dell’épater le bourgeois, promuovendo in misura
eguale quell’ingenua e mitica caccia alla purezza che da sempre alimenta
l’immaginario pop e altrettanta, complementare inquietudine. Dall’altra c’è la
comprensione, molto precisa, dei meccanismi linguistici del rap che David
Foster Wallace sintetizzava così in una brillante definizione: “La cazzuta
genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del
suo mondo, tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento
nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita, ha
trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte
d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di
mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del
cesso”. Lungimirante.
giovedì 31 ottobre 2013
martedì 29 ottobre 2013
William Burroughs
Forse il titolo
può indurre in inganno perché La scrittura creativa di William Burroughs non è quella strana
materia che provano a insegnare in tanti corsi e in tante scuole dalle
fondamenta tutto sommato discutibili. Questa succinta raccolta di saggi, per
quanto ristretta e striminzita, colleziona alcuni dei passaggi principali e
insindacabili delle visioni di William Burroughs che, proprio come prima e
sacrosanta discriminante, dichiara che “prima di tutto, ho riconosciuto lo
scrivere come un’operazione magica” e di conseguenza “nel mondo della magia
niente accade a meno che qualcuno voglia che accada, usi la volontà per farlo accadere, e ci sono certe
formule magiche per incanalare e dirigere la volontà”. Burroughs non procede in
modo lineare perché “la coscienza è cut-up; la vita è un cut-up” e le sue analisi sul linguaggio, sulle parole di cui
siamo composti, si sovrappongono all’idea, al modello, alla silhouette della
figura dello scrittore, esseri che “cercano di creare un universo in cui hanno
vissuto e dove dovrebbero vivere”. La distinzione, che è molto chiara e nitida,
ritorna con una frequenza sinusoidale nelle tesi e nelle ipotesi che William
Burroughs dipana nei suoi saggi: se “l’immagine e la parola sono gli strumenti
del controllo”, ed è difficile sostenere una teoria differente, se “la parola
scritta è un’immagine” e se “piantano spilli nell’immagine di qualcuno e poi
mostrano quell’immagine a milioni di persone”, La scrittura creativa è una forma di resistenza, una mappa per
aprirsi vie di fuga, un manuale di sopravvivenza, e nemmeno in senso tanto
metaforico. Lo era già quando questi articoli uscirono per la prima volta, tra
il 1975 e il 1977, vista la conclusione, abbastanza esplicita, da cui Burroughs
partiva e a cui di conseguenza tornava con convinzione: “Più la gente sa,
meglio è. E’ venuto il tempo di sbattere tutti questi segreti sul tavolo. Armi
segrete, dottrine segrete, tutto. Sono meno pericolose nelle mani del pubblico
che nelle mani dei servizi segreti e dei militari. La conoscenza appartiene a
chi la sa usare”. Chissà cosa avrebbe detto e/o scritto adesso: Burroughs
sosteneva che “ogni estensione tecnologica esteriorizzata produce un effetto di
ambientazione collettiva” e non solo aveva intuito bene l’infinito guado in cui
sarebbero finite le parole e le immagini, aveva capito anche che “per uscire da
questa impasse sarebbe auspicabile che sperimentassimo dei metodi di
comunicazione alternativa”. Ecco a cosa serve davvero La scrittura creativa, intesa come questa piccola antologia di riflessioni di un genio e
come espressione felice per identificare un’arte di cui William Burroughs ha
saputo cogliere e rendere lo spirito rivoluzionario avendo compreso che “ciascuno
scrittore si crea il suo universo. Quando comprate un libro voi comprate un
biglietto per viaggiare nel tempo dello scrittore”. Neanche a dirlo, il ticket
vale per la sola andata, che magari è basta e avanza, ma con un po’ di cut-up le destinazioni diventano infinite.
giovedì 24 ottobre 2013
Thomas Pynchon
E’ pop, è acido, è surf.
Spuntano come funghi i Beach Boys, i Byrds di Eight Mile High, Roy
Orbison e, va da sé, l’alter ego rock’n’roll di Thomas Pynchon, ovvero Frank
Zappa. E’ Vineland tinto di noir, se fosse possibile, o forse
è solo un’alternate take di Vineland frutto di uno strano e denso
trip. E’ Raymond Chandler con la colonna sonora dei Grateful Dead e, guarda un
po’, Doc ha lo stesso nom de plume di Hunter S. Thompson e si muove, parla e ha
qualche dubbio proprio come lui visto che “ormai era quasi convinto che
quell’epoca di temerarietà fosse conclusa; ma ora ricominciava a sentirsi
nervoso”. Doc è, o dovrebbe essere, un investigatore privato dal profilo hippie
e il caso che deve affrontare è una bolla che si espande, gonfiandosi di vite e
di volti e di storie. I personaggi non finiscono mai e ogni incontro è una
porta che si apre su altri mondi, su altri tempi, su altri livelli. L’assetto
di Vizio di forma è psichedelico, prevede il continuo movimento, non solo per
assecondare le rocambolesche peripezie di Doc e il suo girovagare sulla costa
californiana e attorno a Los Angeles. A ogni incrocio, a ogni appuntamento si
apre un nuovo e ulteriore girone: comincia come una diatriba nata nel contesto
di una relazione extraconiugale, poi si evolve in una truffa con tanto di
raggiro psichiatrico (Thomas Pynchon non si fa mancare niente), poi si incunea
in un conflitto per una partita di droga (ce n’è in abbondanza) e si gonfia
fino all’inevitabile complotto ordito da frammenti instabili e out of control
del governo e della repubblica. L’aura di Charles Manson si aggira onnipresente
e quando Vizio di forma comincia a ingranare marce più veloci, i
Doors, Jim Morrison in particolare, appaiono più virulenti delle altre
rock’n’roll band citate a piene mani. E’ giusto così perché rappresentano
meglio di chiunque altro il lato oscuro di un’era ed è opinione di Thomas
Pynchon che “se era destino che quel sogno prerivoluzionario finisse e che il
mondo senza fede, motivato solo dal denaro, riaffermasse il suo dominio su
tutte le vite che si sentiva in diritto di toccare, carezzare e molestare, ciò
sarebbe successo per opera di agenti come questi, zelanti e silenziosi,
impegnati a fare il lavoro sporco”. Il primo in cima alla lista era Ronald
Reagan che, da governatore della California e già protagonista al centro di una
macchina politica ben avviata, studiava operazioni di controllo militare delle
cittadine in caso di rivolta, altrimenti chiamate golpe. Questa ormai è storia
e il complotto c’era davvero, non era un’invenzione letteraria perché come
diceva Doc o altrimenti Xqq (in un altro trip a cavallo delle civiltà perdute
di Lemuria e di Atlantide): “Saranno contenti solo quando ci avranno tirato su
tutti con la rete a strascico, tagliati a pezzi e accatastati sugli scaffali
del Supermarket Amerika, e nel subconscio la cosa terribile è che noi, noi vogliamo che lo
facciano”. Vizio di forma è un romanzo caotico e
brillante in cui Thomas Pynchon riesce a “cavalcare l’onda del futuro”
attraverso le immagini sbiadite e sfuggenti di un variopinto passato.
Funambolico e geniale, as usual.
martedì 22 ottobre 2013
Joan Didion
Il viaggio Verso
Betlemme di Joan Dirion
attraversa un momento prospero ed effervescente della vita americana nel cuore
del ventesimo secolo, tra il 1961 e il 1968, eppure evidenzia in presa diretta
“la prova tangibile dell’atomizzazione, la dimostrazione che le cose cadono a
pezzi”. Anche quando il prodotto interno lordo è alle stelle e metà della
popolazione ha più o meno venticinque anni. Per quanto coinvolta, partecipe,
vicina e attenta, Joan Didion è un’osservatrice molto acuta, che riesce a
mantenere un distacco spontaneo per riuscire a cogliere una prospettiva
singolare e precisa. Un’attitudine che discende dalla sua personalità che lei
stessa riconosce “così minuta, così caratterialmente riservata, e così
nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare come la mia
presenza vada contro i loro migliori interessi. Ed è sempre così”. I soggetti e
i temi centrali dei saggi e degli articoli sono tra i più disparati: si va da
un ritratto di John Wayne al reportage da Pearl Harbour, dove Joan Didion si
stupisce di commuoversi di fronte alle corazzate affondate, dall’intervista a
Joan Baez alla rilettura di un cold case di cronaca nera, dal suo arrivo a New
York all’esperienza in Haigh Street tra i Grateful Dead e Allen Ginsberg fino a
un matrimonio a Las Vegas e alle paranoie di Howard Hughes. Tutti svolti con
una scrittura fluida, pungente e colta, per cui le caratterizzazioni dei
personaggi formano la parte essenziale di Verso Betlemme perché “le nostre persone preferite e le
nostre storie preferite diventano tali non per una virtù intrinseca, ma perché
rappresentano qualcosa di profondamente radicato, qualcosa di inconfessato” e
comunque quale che sia l’argomento Joan Didion concede poco, rimane incollata
alla sua percezione e, a distanza di mezzo secolo, la sua visione è ancora
molto nitida. Joan Didion ha soltanto il necessario spessore per confrontarsi
con tante, differenti realtà: ha anche il coraggio di esprimere quelle
perplessità e quel pensiero critico che qualcuno vorrebbe ridurre a moralismo e
che invece è un punto di vista, un’osservazione, una linea tracciata, una
scelta di campo. Il vero dilemma che alimenta Verso Betlemme è piuttosto che “ogni incontro esige
troppo, logora i nervi, prosciuga la volontà, e lo spettro di un’inezia come una
lettera non evasa provoca un senso di colpa così sproporzionato, che rispondere
alla lettera diventa impossibile. Assegnare il giusto peso alle lettere
inevase, liberarci dalle aspettative degli altri, restituirci a noi stessi:
ecco dove risiede il grande, singolare potere del rispetto di sé. Senza questo,
finiamo per scoprire l’ultimo giro di vite: fuggiamo per trovare noi stessi, e
non troviamo nessuno in casa”. Verso Betlemme è una rappresentazione efficace della battaglia di
Joan Didion al confine tra giornalismo e narrativa e, oltre a rivelare un
talento indiscutibile, capace di fondere la profondità delle analisi con un
tono sempre eloquente, è la prova di un raro acume, ancora intatto.
venerdì 11 ottobre 2013
Charles Mingus
Charles Mingus, fra tutti i
jazzisti, fu il più feroce, il più duro, il più irascibile e anche il più
coerente perché, come scriveva Geoff Dyer nel suo ritratto in Natura morta
con custodia di sax, “non sapeva perché
fosse fatto a quel modo, ma sapeva che doveva essere così e non altrimenti”.
Com’era lo racconta in prima persona nella sua autobiografia, Peggio
di un bastardo, dove si concede con la
consueta, straripante generosità, e senza mediazioni, a proposito della musica,
che poi coincide in gran parte con la sua vita: “La mia musica dimostra la
volontà della mia anima di vivere oltre la tomba del mio sperma, è la mia
metatesi, la nuova sede della mia anima eterna. Amati e amanti, unione, amore.
Concepimento, uno più uno fa due fa quattro, fa otto, fa sedici, fa trentadue,
fa te”. Con la stessa verve Mingus racconta la sua infanzia e si rivela un
narratore dai toni forti e sincopati: “Quando ero piccolo una volta caddi e
persi i sensi. C’era un bambino lì in terra tutto sporco di sangue. Quel
bambino ero io e allo stesso tempo non ero io. ero qualcun altro lì in quella
stanza, eppure i miei non potevano vedermi. Ero una specie di vecchio saggio,
vecchio come il tempo. Dipendeva solo da me lasciare lì in terra quel bambino e
andarmene verso l’eternità o soffiargli di nuovo dentro la vita. Così adesso
riesco a vedere te e tutto il resto con la stessa chiarezza di quel giorno
quando vedevo tutti gli altri e me stesso e sarei potuto restare lì o salire in
macchina con loro senza essere visto”. Peggio di un bastardo è una sorta di vademecum in presa diretta di
un’epopea intensa e drammatica che ebbe la musica (dal blues al jazz, tutto
compreso) al centro di ogni movimento. Il suo valore sta proprio nella
ricostruzione vivida delle immagini nella vita nelle strade di New York
(“Voglio solo farti sapere dove ti vai a cacciare. Perché se ti beccano finisci
peggio di Al Capone, perché anche tu sei un nero che ha delle donne bianche. Se
abiti nell’East Side di Manhattan, quelli penseranno che hai la grana anche se
non ce l’hai. Non farti venire in giro con i magnaccia, neri o bianchi. Così ti
fai etichettare”). La cruda versione di Peggio di un bastardo dei rapporti tra uomini e donne, tra bianchi e neri,
tra musicisti e il resto del mondo nonché la grezza espanzione di tutte le
contraddizioni, le controversie e le follie che l’hanno visto protagonista
diventano sorprendenti quando Mingus si occupa di questioni politiche, che
affronta dimenticandosi di ogni singola sillaba contenuta dalla parola
diplomazia: “E’ ora di sapere cosa fanno i nostri leader che ci portano a
morire per i loro vizi, le loro evasioni. Puttane! Strappategli via i vestiti
ai nostri leader! Oggi! In tutto il mondo! E se cercano di scappare tagliate lì
dove dovrebbero avere le palle. Salvatelo voi questo mondo malato, o mie
inestimabili puttane”. Per la cronaca alla sua versione dei fatti va aggiunta
quella scritta dalla moglie Sue Mingus, ovvero Tonight At Noon, anche se è sempre meglio la fonte diretta.
lunedì 7 ottobre 2013
John Fante
I due brevissimi racconti, qui accoppiati, ruotano attorno ai
perimetri di altrettante case nelle valli californiane e John Fante, si sa, è
un architetto d’interni molto abile ed efficace nel ricostruire le dimensioni e
l’atmosfera della vita tra le mura domestiche. I rapporti famigliari, sempre
sull’orlo di una crisi di nervi, rendono le cucine, i soggiorni, le camere da
letto dei veri e propri campi minati a cui non c’è trasloco che possa porre
rimedio perché certe ossessioni rimangono sempre nel bagaglio. Il caso dello
scrittore tormentato è da manuale: una coppia crede di aver trovato il suo nido
ideale, anche perché ammette il protagonista “eravamo stanchi di cercare, il
prezzo era alla nostra portata, e a me il posto piaceva pure”. Il problema è
che i precedenti proprietari ormai sono fantasmi che vagano per i corridoi e
sulle scale e la felicità rimane legate all’impressione iniziale, come
riconosce lo scrittore tormentato: “C’era sole, spazio, aria fresca. Qui, pensavo, c’è la
pace; qui mi verranno le parole e le pagine cresceranno una dopo l’altra. E
cominciai a credere a quello che avevo detto fin dal primo momento: che quella
casa l’avessi davvero già vista nei miei sogni. Le parole non vennero, e
nemmeno le idee. Vennero invece i pittori, e i falegnami, perché mia moglie
voleva cambiare la casa dentro e fuori, per cancellare ogni traccia del
passato”. I guai degli spettri sono relativi rispetto a quello che possono fare
gli esseri viventi e infatti quando il padre comincia a invitare gli amici (muratori
come lui) a godersi la cantina l’idillio immobiliare svanisce, e non solo
quello. Lo scrittore si trova spaesato, straniero e in esilio nella sua stessa
casa (“La mia serenità subì gravi intrusioni. Non riuscivo a scrivere”) e come
se non bastasse il trambusto che gli organizza un giorno sì e l’altro pure, il
padre lo smimuisce senza pietà:
“Quello me lo chiami lavoro, la roba che scrivi?”, e il sogno di un posto dove
poter stare evapora per sempre. E’ facile immaginare come finisce Il caso
dello scrittore tormentato che John Fante spiega così: “Per gli scrittori, sonno e
prosa vanno insieme. Se ti viene l’ispirazione, se le pagine funzionano, le
notti sono serene. Se mancano le parole, non si dorme. E quello era un periodo
così. Non riuscivo a dormire”. Per inciso, il padre di Il caso dello
scrittore tormentato non è molto diverso da quello di Sogno di mamma: entrambi non hanno
“praticato la tenerezza” e la loro misantropia non è negoziabile. La vita
imposta dal capofamiglia in Sogno di mamma dipende, più di tutto, dalla qualità della
preparazione dei peperoni, che vuole cotti e cucinati alla perfezione, per cui
il giorno che torna a casa e li trova bruciati si aprono le porte
dell’apocalisse e tutto un mondo viene giù. John Fante è straordinario nel mettere
in cornice le scene fondamentali e anche relegato nell’ambito ridotto delle short stories riesce a illuminare due perle grezze come Il
caso dello scrittore tormentato e Sogno di mamma. Da riscoprire.
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