mercoledì 18 settembre 2024

Henry Miller

Già nelle prime pagine, nella distinzione tra Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, è evidente il tentativo reiterato di “conciliare gli aspetti apparentemente contraddittori di un uomo come me, che nella sua opera scritta ha sempre cercato di versarsi completamente e senza riserve”. Henry Miller parte da se stesso, come ha sempre fatto, e si avvia ad allargarsi a un visione universale perché “anche se non lo confessa, l’artista è ossessionato dal pensiero di ricreare il mondo per restaurare l’innocenza dell’uomo. E inoltre sa che per l’uomo l’unico modo di ritrovare l’innocenza perduta è di riconquistare la propria libertà. Libertà in questo caso significa morte dell’automa”. È così che il sesso è solo un trampolino di lancio per una riflessione più ampia (e nello stesso tempo circoscritta) sulle aspirazioni e sulle esigenze degli esseri umani. Henry Miller è molto lucido nell’affrontare il tema dei rapporti tra uomo e donna, ma li inserisce in un contesto più ampio di rapporti con il mondo, con l’essenziale, con la vita stessa. Quando parla di sesso in modo esplicito, Henry Miller non concede nulla alla censura: siamo nel 1959 e il politically correct non esisteva, per cui Il mondo del sesso è quello che è, compresi i dettagli anatomici, dissertati con gusto, e le relazioni pericolose a Parigi. Il nesso tra sesso e desiderio, dove quest’ultimo è l’elemento dominante, è un nucleo magnetico e Henry Miller ricorda che “dovunque siano un fiume, una piazza di mercato, una cattedrale, una stazione ferroviaria, una casa da giuoco, cova questo fuoco di palude che aggruma il sangue e secca la bocca”. Un punto di vista originale che nasce da una condizione particolare: “Quando sono solo, e cammino per le strade, mi prende il senso delle cose: passato, presente, futuro, nascita, rinascita, evoluzione, rivoluzione, dissoluzione. E il sesso, in tutto il pathos psicologico”. La svolta avviene proprio lì, in quel momento e se “l’amore, quando capita, è una cosa da mandare avanti dietro le quinte”, la sua conclusione è che “finché non ammetteremo che la vita è fondata sul mistero non capiremo nulla”. Henry Miller, pur sfoggiando capriole su capriole di digressioni e iperboli, si conferma più preciso che mai e oltrepassata la metà, Il mondo del sesso svolta verso una possibile definizione dei parametri che definiscono l’esistenza a partire dal fatto che “soltanto in certi momenti imprevedibili noi siamo completamente intonati, completamente ricettivi e dunque nella disposizione migliore per accogliere i favori della fortuna”. Questa collocazione è ribadita nel dettaglio tenendo presente che “i fatti cruciali e veramente cardinali che danno un’impronta alla nostra vita sono frutto del silenzio e della solitudine” e, di riflesso, che “noi ingombriamo la terra con le nostre invenzioni, senza pensare che forse sono inutili, o dannose”. È un modo di ricordare le possibilità della persona, dentro Il mondo del sesso e altrove, e ovunque, visto che “gli atti sensati non richiedono agitazione. Quando tutto crolla, la cosa più ragionevole da fare forse è di stare fermi. L’individuo che riesce a capire e ad esprimere la verità che ha in sé, può ben dire di aver compiuto un’impresa più grande che la distruzione di un impero”. Questo è possibile secondo Henry Miller perché “dopo tutto, il mondo in cui abitiamo non è che l’immagine riflessa del caos esistente dentro di noi”. Non è soltanto, è evidente, Il mondo del sesso a cui fa riferimento: è un’entità da scoprire che appartiene a tutti e “anche gli sfortunati, i derelitti hanno diritto a dir la loro, ogni tanto. Nessuno è troppo piccolo o troppo vile per essere ignorato”. I limiti, cerca di spiegare con insistenza Henry Miller sono altri: “A sbarrare la strada dell’uomo non ci sono che le sue fantomatiche paure. Il mondo è la nostra casa, ma noi non ne abbiamo ancora preso possesso; la donna che amiamo ci attende, ma noi non sappiamo dove trovarla; il cammino che cerchiamo ci sta sotto i piedi, ma non siamo capaci di accorgercene”. Questa è la vera questione e proprio dove si scopre che “quel che conta è il miracolo che si fa norma”, Il mondo del sesso si rivela molto di più del suo titolo.

lunedì 9 settembre 2024

Joan Didion

La vita lungo il fiume scorre tranquilla per la borghesia californiana, erede dei pionieri e proprietaria terriera. Tormentati dalla noia, dai rimpianti, dalle istituzioni (famiglia, governo, esercito, chiesa, sindacati, stampa) dall’incombere della seconda guerra mondiale, uomini e donne di una generazione in “uno stato di crisi privo di una ragione precisa”, bevono (in continuazione) sherry, vermouth, bourbon mentre coltivano i loro piccoli e grandi drammi esistenziali, che vanno dall’impellente necessità di godersi l’alcol  (“Per tutte le delizie mortali. Ora vediamo se rimediamo un drink prima di pranzo. Forse hai bisogno di fartene uno. Forse anche due”) all’omicidio. Anche se Joan Didion nel progredire di Run River lascia intravedere spesso e volentieri “uno squarcio nel tessuto sociale”, con la trasformazione della California da terra promessa per tutti a paradiso e inferno della speculazione edilizia, la sua osservazione è rivolta con ossessiva attenzione alla parallela evoluzione di un generale e incontrollabile desiderio, spesso fine a se stesso, fino a un esaurimento nervoso collettivo. È il sogno del West incrinato da un’aria di decadenza morbosa, come se le regole stessero svanendo insieme a un vecchio mondo, ovvero “un impero effimero, bisognoso di continuo controllo, di manovre a ogni frazione di secondo”, e questo riguarda in particolare i fragilissimi esseri umani che lo popolano. Lily, la ragazza con la spilla da balia negli occhiali, è senza dubbio il centro della gravità, ma spesso Joan Didion sposta il peso del groviglio di storie sul marito Everett passando quindi al setaccio non solo le dinamiche marito/moglie, ma anche quelle fratello/sorella, genitore/figlio e amico/amante. Gli incontri (e gli scontri) sono un po’ a geometria variabile ma tendono a ripetersi e Joan Didion si concentra su ogni scena (che poi è un cocktail, un party o un brindisi solitario) con la stessa, premurosa considerazione. L’effetto è un po’ straniante: Run River pare soltanto una lunga teoria di appuntamenti perché, nonostante i vincoli, sono estranei gli uni agli altri e la finzione, per sopportarsi nel “fronte domestico”, è all’ordine del giorno. Sia che si tratti dei preparativi per la festa di nozze (e nessuno da invitare) o di essere richiamati nell’esercito, quello che condividono è soprattutto un mood malinconico, “snervante” per le assenze e per le ingombranti presenze. È un teatro amaro, costruito su “un’improvvisazione basata su una battuta d’entrata che un giorno non avrebbe sentito, su caratterizzazioni che poteva dimenticare in ogni momento” dove il “il sorriso più che altro è un tic” e tradimenti, fughe, scenate e riconciliazioni si susseguono senza sosta finché tutti insieme non collimano in “un’unica caduta di stile”. La tragedia della decadenza non si può dissimulare e Joan Didion ha, già all’esordio, la straordinaria capacità di rendere “un vuoto che neutralizzava qualsiasi apertura, ovattava le voci, dissolveva le connessioni”. Certi arabeschi, con un’insistenza maniacale nella ricerca del tono giusto, l’abbondanza delle parentesi e delle reiterazioni che Joan Didion in seguito avrebbe limato e raffinato, e basta pensare per esempio a Democracy, non tolgono nulla a Run River che, con “una piacevole sensazione di discreta licenziosità”, racconta bellezza e tormento californiani, dove la famosa seconda chance non è prevista. L’influenza di Fitzgerald, neanche tanto nascosta (un indizio palese è che un antenato di Everett si chiama Francis Scott), e il richiamo a Čechov delimitano il perimetro in cui è nato Run River, l’inizio di una grande carriera. 

venerdì 6 settembre 2024

Silas House

Quando si raggiunge Il punto più a Sud restano dei punti interrogativi che toccano l’interpretazione del ruolo di genitore, il peso della fede e delle religioni, l’intervento delle istituzioni e degli strumenti di comunicazione moderni nei rapporti affettivi. Un sacco di domande che Silas House lascia scorrere nella storia degli Sharp, Archer (padre, professione: pastore evangelista) e Justin (figlio) uniti in una fuga imprevista e precipitosa. Partono da una piccola realtà rurale del Tennessee sconvolta da un’alluvione. La famiglia Sharp si è salvata e si è prodigata per i vicini. All’appello manca soltanto il cane, Roscoe, e Justin, che è un bambino piccolo per la sua età, ma particolarmente sensibile, è andato cercarlo ma dal diluvio sono emersi, Stephen e Jimmy, bisognosi di un approdo asciutto. Salvo i primi soccorsi, la moglie Lydia, molto osservante, non li ha voluti ospitare perché sono gay. Da lì si rompe qualcosa, la fede diventa una costrizione e il pastore Sharp in rapida successione lascia il gregge e la famiglia. A partire dal suo discorso di commiato dalla congregazione, volto alla tolleranza, alla comprensione e alla condivisione, subito ripreso dai social, ma l’eloquio non è gradito né dalla consorte, né dalla congregazione e Archer sceglie di andarsene, ma con la paura che Justin possa diventare “come chiunque altro in questo mondo cinico e noioso, che si perde la meraviglia di ogni cosa”, decide di portarlo con sé. La meta è Miami in cerca del fratello Luke, anche lui a suo tempo vittima del pregiudizio e dell’indifferenza. Da padre a “ladro di bambini”, è un attimo: i tribunali, gli avvocati, la chiesa non considerano le emozioni, Asher è consapevole che la sua dimostrazione d’amore sarà condannata e derubricata a reato penale, ma ormai si sono avviati lungo “una strada senza uscita o a un inizio tutto nuovo”. L’affetto filiale nelle lunghe tappe on the road suggerisce una riflessione sullo stesso legame tra padre e figlio che animava La strada di Cormac McCarthy. La differenza (anzi, proprio il contrario) è che da una parte era una forma di protezione dal caos, mentre in Il punto più a Sud è una difesa dalla cosiddetta normalità e dalla burocrazia dei palazzi di giustizia e delle chiese. Mentre scorrono le canzoni di Patty Griffin, My Morning Jacket, Sinead O’Connor e Justin canticchia ritornelli di Tom Petty, la differenza tra il Tennessee e la Florida emerge non soltanto nei contrasti ambientali che Silas House tratteggia con scrupolo e con un’attenzione fuori dal comune. Non sfugge il capovolgimento simbolico dell’acqua, da spaventosa ferita nella terra, nell’esondazione del fiume, agli spazi infiniti e alla luce del mare. La parte più consistente del romanzo si svolge proprio davanti all’oceano, dove Asher e Justin infine trovano un modus vivendi e un faticoso equilibrio. Si accontentano dell’ospitalità di Bell, che canta le canzoni di Joni Mitchell, offrendo in cambio quel poco che riescono a fare e accudiscono Shady, un randagio adottato lungo la strada. Il nucleo che si crea, comprensivo di Evona, pur in tutta la sua fragilità somiglia molto di più a una famiglia, in particolare quando ricordano che “a volte si ride e a volte si piange, e finché siamo vivi possiamo affrontare tutto il resto”. A quel punto, e siamo alla fine, Silas House è stato troppo preciso e dettagliato per concedere un happy end, ma se non altro nella logica conclusione che spetta ad Archer (soprattutto) e a Justin lascia intuire la speranza che, pur con tutti gli errori e le penalità, qualcuno in fondo abbia fatto la cosa giusta. Le questioni restano tutte aperte: Il punto più a Sud ha pure il merito di non collocare risposte preconfezionate, lasciandoci intendere non tanto che bisogna scegliere da che parte stare, ma che una possibilità di ritrovarsi c’è sempre. Toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

S. A. Cosby

Il sangue dei peccatori condensa molti contrasti che sono d’attualità nell’America del ventunesimo secolo: nero/bianco, giustizia/politica, pubblico/privato, fede/razionalità, uomo/donna, giovane/anziano, Nord/Sud, carnefice/vittima. È un continuo ondeggiare tra questi estremi e il romanzo matura una forza centrifuga perché Titus è uno sceriffo di colore in una contea della Virginia e si trova proprio nell’epicentro di tutti i conflitti. Dato il carattere elettivo della sua carica, è una posizione in bilico. Deve essere una guida, e un esempio, per la sua squadra e per la comunità di Charon, ma il susseguirsi degli eventi lo mette a dura prova, fino al punto di dover mettere in discussione la propria personalità: “Era quello il problema, se facevi il poliziotto. Poco alla volta cominciavi a sospettare di chiunque, e prima o poi finivi col tagliare il mazzo due volte giocando a carte con tua moglie”. Il sangue dei peccatori comincia con una sparatoria nella scuola locale, anche questo un lugubre primato americano. Uno studente (nero) uccide un professore prima di essere falciato da una raffica di colpi degli agenti dello sceriffo. È solo l’inizio, perché lo scontro a fuoco fa da traino all’apparizione di un serial killer particolarmente efferato che lascia le sue vittime martoriate dentro uno scenario di simboli cupi e inquietanti. Titus intuisce subito che c’è un collegamento perché “la violenza è sempre la confessione di un dolore”, ma è combattuto tra legami fragili e delicati (il padre, il fratello, la fidanzata) e sulla scena (in aggiunta) arriva la sua ex, una giornalista che alimenta un suo podcast, oggi funziona così. Titus deve affrontare tutta una serie di prove, e di fronte alla corruzione e all’ingerenza della politica, alle carenze strutturali delle istituzioni e alle divisioni sociali, è costretto a compiere scelte repentine, alcune giuste e altre sbagliate, al punto di ammettere: “Non si faceva illusioni. Sapeva chi era e cos’era. Per molta gente era il diavolo. E lo accettava. Però era un diavolo che andava a caccia di demoni”. Nell’inseguimento attraverso la Virginia e l’Indiana, il presente e il passato (ecco un’altra ingombrante contrapposizione), chiese e sette, suprematisti e oppositori, Titus cerca di rispettare le regole che deve imporre e difendere: lo sceriffo deve essere irreprensibile, ma tutto intorno a lui è un continuo distinguersi, sollevarsi, ribellarsi. Non è facile espletare così il mandato, ma “esiste un genere di caos che a volte può dare l’impressione di muoversi secondo un ordine. Quando certe situazioni caotiche continuano a ripetersi, da questo meccanismo emergono degli schemi”. Il racconto è tumultuoso e senza tregua perché nello sviluppo della storia tutta la contea subisce in un modo o nell’altro le conseguenze delle fibrillazioni che l’attraversano. Il ritmo incessante e la suspense sono garantiti dalla scrittura essenziale e senza fronzoli di S. A. Cosby, ma nella migliore delle tradizioni del thriller Il sangue dei peccatori tocca temi rilevanti e viene usato per raccontare l’America di oggi, con quelle spaccature dovute a un passato che non vuole passare, con tutte le vessazioni e le meschinità nascoste dietro la placida costruzione di una cittadina di provincia. I colpi di scena arrivano uno dopo l’altro e qualche cliché del genere è da mettere in conto, ma non toglie nulla alla qualità del romanzo che ha una sua solida aderenza alla realtà, compresa la malinconica bellezza del finale. Da tenere d’occhio.