Difficile spiegare cosa succede in questo incredibile romanzo di duemila pagine: si comincia a leggerlo che è inverno e all’improvviso ci si ritrova in primavera. Nel bel mezzo è passata un’era geologica scardinata da un vortice di notizie che riflette il crepuscolo del ventesimo secolo e, all’improvviso, svela “un futuro in cui ti trovi e dal quale sei obbligato a ricavare il presente”. Non è semplice orientarsi: la trama di Donne e uomini è impossibile perché “non ci sono situazioni, solo persone”, e i protagonisti si scambiano di continuo le loro esistenze attraverso un inarrestabile flusso linguistico, che si snoda senza limiti nell’espressione di Joseph McElroy, o dentro l’essenza impalpabile dei sogni. La scrittura è una sfida assurda, ma non così irreale, perché è un incandescente patchwork di dialoghi, immagini, percezioni e digressioni. È una dimensione cacofonica che spiazza nell’ossessivo cambio di prospettive, punti di riferimento, piani narrativi. Ci si imbatte in intere pagine senza una virgola o un segno ortografico che sia uno: sono una celebrazione della scrittura tout court temeraria da cui è facile lasciarsi travolgere perché Joseph McElroy riesce a mantenere alti il ritmo, spesso frenetico, e la tensione. E così la lettura è a sua volta un duello. Certo, il prezzo da pagare è notevole perché l’esponenziale omaggio al caos è dovuto: Donne e uomini è un laboratorio folle, libero e anarcoide che frulla un vocabolario dopo l’altro e, di solito, li fa a pezzi. Joseph McElroy sa essere erudito, è sempre estremo, e ci sono passaggi particolarmente criptici, così come è capace di lasciare scivolare schegge prosaiche, buttate lì, all’improvviso, passando senza preavviso da Shakespeare allo slang della street life. Le storie si avvicendano una sopra l’altra: a tratti i capitoli sono racconti indipendenti, che stanno insieme per attrito con lo scorrere del romanzo monstre di Joseph McElroy, che si attorciglia attorno a James Mayn e Grace Kimball, divisi una leggera sfasatura temporale, che è relativa nel magma di Donne e uomini, ma uniti da qualcosa che via via va sommandosi. Un avviso utile a districarsi in questa un’odissea psichedelica (non dichiarata) potrebbe nascondersi qui: “Udite cosa c’è nel vento. Una canzone, dice qualcuno (di sicuro un adulto). Ma, intessuto nella canzone, udite il rumore. Il rumore, di per sé una città dove non tutti si conoscono”. Le visioni sono sempre prospettive e per Donne e uomini “New York è un segreto aperto”, per dire che è un tutto, come se Joseph McElroy avesse registrato le chiacchiere e i pensieri della gente assemblandoli in una teoria casuale di tanti fotogrammi scomposti in un film senza dialoghi con la colonna sonora di Philip Glass. Ecco, prendete Koyaanisqatsi e sostituite i paesaggi con le persone e avrete un’idea (seppur vaga) di Donne e uomini. Le vite si toccano, si incrociano, si sovrappongono, a volte accelerando, altrimenti al rallentatore, come se Joseph McElroy fosse riuscito ad agire sull’obiettivo, allargando a dismisura le inquadrature, avanti e indietro, un movimento esasperante nel comporre “una comunità sterminata di menti”. Ogni personaggio ha un equivalente, un doppelgänger e un’altra coscienza che naviga nel linguaggio con la stessa densità dello spazio, del deserto, del mare. Incontri forieri di un’alluvione di parole, ed è come se una voce ti parlasse nella testa, raccontandoti di angeli (“A volte sento gli angeli che parlano parlano parlano non lontano e vogliono solo essere come noi e vivere solo entro i nostri limiti, cambiare vita”), eremiti e inventori, guaritori e viaggiatori, estranei e amanti, tutti avvolti nell’eccesso di informazioni che è soltanto la parte esteriore e più appariscente dell’involucro dell’incomunicabilità. Ogni nome (e di nomi ce ne sono a dozzine) porta in spazi distanti e diversi e nel continuum tra la dimensione onirica e quella della realtà, un intreccio che è uno dei leitmotiv di Donne e uomini, “i tempi sono paralleli che si incrociano”. Il paradosso è in qualche modo inevitabile perché “il mondo s’è fatto complicatissimo”, e su questo Joseph Elroy resta molto lucido, pur lasciandosi andare senza freni a un campionamento sincopato, martellante, convinto che “non siamo altro che voci”. L’esperienza è frastornante, la lettura necessita di un rapporto fisico nell’intento di decifrare l’arte della divagazione espansa all’infinito e ritrovare “una manciata di parole separate in grado di invocare l’intera cosa”. E questa è la ricerca di Donne e uomini. A volte funziona, a volte no.