Tutto ruota attorno a un bombardamento a tappeto visto da dentro, dall’interno di un mattatoio che è nello stesso tempo luogo e metafora, ventre malato e osservatorio privilegiato. L’obiettivo è Dresda, siamo negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, e della città non resterà nulla, a parte moncherini anneriti di edifici, brandelli di carne sulle strade e un’aria irrespirabile. Kurt Vonnegut, testimone involontario della tempesta di fuoco (e qui non in senso figurato: a causa delle turbolenze e degli spezzoni incendiari si sviluppò un vero e proprio vortice di fiamme che avvolse tutta la città) in quanto prigioniero di guerra, una volta sulla soglia del suo nascondiglio legge quell’apocalittica realtà con frasi di una precisione millimetrica: “Non fu prudente uscire dal rifugio fino a mezzogiorno dell’indomani. Quando gli americani e le loro guardie vennero fuori, il cielo era nero di fumo. Il sole era una capocchia di spillo. Dresda ormai era come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti. Così va la vita”. Un romanzo dalla forza dirompente e di un capolavoro, qual è Mattatoio Numero Cinque non si può dire molto di più, se non che il protagonista si chiama Billy Pilgrim ed è affetto da una curiosa patologia, ovvero ogni tanto scoppia in lacrime (forse perchè, tra l'altro, ha scoperto il segreto del tempo, e non so quanti vorrebbero saperlo). Kurt Vonnegut è uno scrittore che riesce a sintetizzare ironie, polemiche, storie e paesaggi con una verve visionaria, sapendo soprattutto che “non c’è alcun rapporto particolare tra i messaggi, se non che l’autore li ha scelti con cura in modo che, visti tutti insieme, producano un’immagine della vita che sia bella, sorprendente e profonda. Non c’è principio, parte di mezzo o fine, non c’è suspence, né morale, né cause ed effetti. Quella che amiamo nei nostri libri è la profondità di molti meravigliosi momenti visti tutti in una volta”. Attualissimo, ancora oggi, in modo straordinario, (basta rileggere le pagine che dedica al rapporto tra gli americani e la povertà) anche perché la storia si ricicla senza fantasia, le vite vengono travolte dalla guerra senza riuscire a capire come ci si è arrivati e perchè non finirà mai. Il coraggio e la bellezza in un narratore come Kurt Vonnegut stanno nel fatto che lui le grandi domande se le pone, magari con il sorriso sulle labbra e tra le righe, ma senza temere le polemiche o le critiche o entrambe. Senza fuggire in trame di circostanza e personaggi edulcorati, anche a costo di dire: “Ho fatto cattivo uso della fiction per diffondere le mie strampalate idee sugli Stati Uniti d'America, follie che sarebbero più consone alla pagina degli editoriali di qualche giornaletto mal stampato dai fanatici delle france più estreme. Prima tra queste idee, quella che il morbo più diffuso tra i miei connazionali è la solitudine”. E’ vero, poi, come dice lo stesso Kurt Vonnegut che “nella vita ci sono più cose di quelle che si leggono nei libri”, ma i suoi romanzi sono una sorta di rimedio, un modo per sognare di versamente o per leggere più a fondo la realtà, senza aver paura di riderci sopra.
giovedì 27 gennaio 2011
Kurt Vonnegut
mercoledì 26 gennaio 2011
Tom Kromer
Anne Michaels
martedì 25 gennaio 2011
Donna Gaines
lunedì 24 gennaio 2011
Jim Carroll
Per Jim Carroll i rituali di iniziazione alla vita non escludono nessun gradino della discesa negli inferi della civiltà metropolitana: droga (tanta e pesante), prostituzione, violenza, cinismo. Gli anni di un bambino “ingoiati dalla città” diventeranno i suoi “basketball diaries”, andata e ritorno nelle ombre della città che poi è sempre New York City. Agli elementi instabili e pericolosi della vita “wild in the streets”, Jim Carroll ne aggiunge un altro, altrettanto selvatico e velenoso, la scrittura (il rock’n’roll per il “catholic boy” arriverà in forma di salvezza, attraverso Patti Smith, ma questa è davvero un’altra storia) a cui affida il tormento e la bellezza delle sue visioni. C’è qualcosa di genuino nel perverso entusiasmo con cui Jim Carroll affronta le pagine dei suoi “basketball diaries” sbattendo nero su bianco il caos quotidiano di spacciatori, poeti, cestisti, musicisti, tossici, disperati di varia forma e naturata e almeno qualche altro milione di modi di vivere e (più spesso) morire. La sua narrazione, che qualcosa deve a William Burroughs, è scheletrica, grezza, eppure intensa. Con abbondanti dosi di autoironia, un colto fraseggiare e qualche punta di sarcasmo, non priva di una verve polemica (“Siete tutti vecchie palle al piede, governi di morte e accecanti capelli bianchi” scriveva, e come non è difficile condividerlo) i suoi “basketball diaries” rimangono una pagina cruda e indelebile di quella letteratura che ama frugare nell'oscurità, nelle backstreets, nei sogni asciutti e nei letti sfatti del Chelsea Hotel in cerca di una qualche luce. Il suo taglio è spietato, frutto della darkness metropolitana piuttosto che della ricerca intellettuale, delle esperienze “sul campo”, dove il tempo è scandito da quell’orologio chimico che non lascia scampo. La prima ancora di salvataggio sarà proprio la scrittura, una forza rivelatoria che si manifesta proprio con i “basketball diaries”, quando Jim Carroll scopre che “alla fin fine la droga è solo una delle tante versioni della gran menata dalle nove alle cinque, solo che le ore sono un po’ più spostate verso le ombre”. Una gabbia, una camicia di forza, un peso che ha l’effetto di costringere Jim Carroll a liberarsi per annusare un’aria diversa e per scoprire cos’ha dentro, per provare a sciogliere quel groviglio di decadenza umana di cui si è nutrito, ancora prima di conoscere tutto l’alfabeto. Il primo passo, ormai in fondo ai “basketball diaries”, sarà scoprire lettura e scrittura: “Più leggo, più capisco, ormai, un fatto che diventa ogni giorno più evidente, che ho bisogno di scrivere. Penso alla poesia e per come la vedo io è un blocco di pietra grezza che aspetta solo di essere modellato, cosicché le parole per me non sono mai un orribile limite, ma solo strumenti con cui dare forma. Prendo le immagini che mi vengono dall’archivio al piano di sopra (mi vengono sempre come immagini) e io le uso come mattoni, certe volte impilandoli bene bene e certe altre incasinandoli, così c’è il rischio che poi ti cascano addosso”. Sì, il rischio c’è sempre.
sabato 22 gennaio 2011
Amy Tan
martedì 18 gennaio 2011
Cormac McCarthy
Il vero serial killer di Figlio di Dio, un titolo che con ogni evidenza vorrà pur dire qualcosa, non è Lester Ballard (che comunque è un freak il cui nome è già destinato a entrare nella leggenda), ma la wilderness americana, che Cormac McCarthy racconta spietatamente e senza un briciolo di enfasi. L’afa, la neve, la terra che si squarcia e inghiotte tutto, la furia degli elementi, l’acqua che inonda la contea di Sevier, Tennessee, il fuoco e le gallerie umide dove Lester Ballard si nasconde: lui è il protagonista di una follia senza giustizia, ma sono l’humus, l’atmosfera, il paesaggio dove cresce gli elementi fondamentali di Figlio di Dio. Diventano una geografia attiva attraverso una scrittura fatta di frasi taglienti, brevissime, sincopate, uno stile ben lontano da lirismo della Border Trilogy: l’aria è quella irrespirabile di Il buio fuori ed appartiene al Cormac McCarthy crudo e violentissimo (quello che ha il suo apice nel capolavoro di Meridiano di sangue), ma con una vena urbana livida, come se i suoi primi romanzi (Figlio di Dio risale al 1973) fossero attraversati da una luce dipinta da Edward Hopper in acido. Nell’aura malefica e inquietante dell’amorfa, bucolica, bizzarra e paurosamente abbandonata provincia americana, la stessa in cui oggi covano le loro rabbie le milizie, i fondamentalisti e altre genialità simili, Lester Ballard è un outsider che ha deciso, e ha deciso di andare fino in fondo, “di continuare il suo viaggio perché tornare indietro non poteva, e quel giorno il mondo era bello come lo era stato tutti i giorni fin dal principio, e lui viaggiava verso la morte”. L’unica soluzione definitiva e in qualche modo eccitante che può offrire un paesaggio di allucinante desolazione, forse anche una prima avvisaglia dei paesaggi “fotografati” per La strada la fornisce Cormac McCarthy che incastra l’abominevole vita di questo figlio di Dio con apparizioni letali e disastrose che, però, visto il contesto in cui maturano, sono difficili da distinguere dal resto e da definire, in qualche modo, criminali. Non c’è ombra di dubbio che Lester Ballard abbia un legame perverso con la vita e che le sue orme siano piene di sangue, ma il suo punto di vista è univoco ed elementare: “Io non ho chiesto niente a nessuno in questa merda di città”. La comunità, gelida quanto il clima che la circonda, gli risponde senza esitazioni: “O trovate un altro modo di vivere, oppure vi trovate un altro posto al mondo per viverci”. E’ lì che Lester Ballard diventa un “sotterraneo”, un outsider assoluto tanto che “ci fossero state più buie regioni della notte, lui le avrebbe trovate”, eccome se le avrebbe trovate. In una contea, in una regione, in un’America dove violenza, razzismo, ignoranza formano un inestricabile groviglio di miserie (poco) umane, Lester Ballard alla fine risulta, se non proprio simpatico, almeno comprensibile nel suo delirio. Merito di uno scrittore, Cormac McCarthy, che pur nel suo privilegiato isolamento, era già da allora destinato ad occupare un posto importante nella letteratura americana.
lunedì 17 gennaio 2011
Diane Thomas
Tra il 1955 e il 1956, Elvis Presley si sta lasciando alle spalle le sue prime incisioni per entrare nella televisione e diventare una delle più grandi leggende del ventesimo secolo. In quell’anno, The Year The Music Changed, appunto, intrattiene un rapporto epistolare con Achsa McEachern, una giovane, appassionata e intraprendente ragazza incastrata in una famiglia con troppi segreti. Con la precisione di una ricercatrice e l'affetto di un’appassionata, Diane Thomas inventa, per il suo esordio narrativo, un romanzo epistolare che nei suoi corrispondenti ha i due estremi dello stardom system: il fan da una parte e la rock'n'roll star dall'altra. Una condizione già vista e consumata in altre mille storie che però Diane Thomas fissa in un attimo speciale, quanto entrambi stanno per varcare una sottile linea oscura. Elvis Aaron Presley, l'impacciato figlio della working class, sta per diventare Elvis The Pelvis (e lui stesso se ne sta accorgendo tanto che Diane Thomas gli fa scrivere: “E sta succedendo tutto così in fretta. Sembra quasi che mi sono addormentato che ero ancora un camionista che stava studiando per diventare elettricista. Poi mi sono svegliato e cantavo il rock and roll e c'erano donne che mi strappavano i vestiti di dosso e avevo tanti fan quanto Hank Snow. Muoio dalla paura di addormentarmi di nuovo. Non ho idea di dove mi sveglierò la prossima volta”) e sa, l’ha sempre saputo, che non sarà un passaggio indolore perché, come confessa alla sua giovane amica “sembra che ci sono solo due strade davanti a me. O smettere di fare felici i miei fan. Oppure smettere di fare del male alle persone che amo. Devo scegliere”. Achsa McEachern, un nome che è già un programma, sta sgusciando dal bozzolo di un’educazione rigida e monotematica. Il dialogo, per quanto frutto della fiction, è avvincente proprio perché sottoscritto ai due diversi e controversi destini che però hanno qualcosa di molto profondo in comune: Achsa deve confrontarsi con le proprie radici mentre Elvis le sta abbandonando, destinazione Hollywood e/o Las Vegas. Il confronto è biunivoco e serrato. Lui le suggerisce come muoversi nei suoi primi passi all’aria aperta: “Il modo in cui cammini, i vestiti che indossi, dicono che tu sai di essere una bella ragazza. E la gente crede a quello che gli dici. Io ne sono la prova vivente”. Lei lo vede dal vivo e gli lascia un post scriptum che ha il sapore della premonizione: “Non avevo mai immaginato che cantare fosse così pericoloso. Grazie al cielo sei ancora vivo!”. Lettera dopo lettera, non prende forma soltanto un curioso e intenso rapporto tra fan e rock'n'roll star, che Diane Thomas sa leggere nelle sue più intime profondità, ma anche tutto un immaginario particolare che comprende James Dean e Bill Haley, i "southern accents" e il gospel, Ray Charles e Robert Mitchum e un’America ancora e sempre sospesa tra innocenza e ignoranza. Tra gli innumerevoli libri scritti per celebrare il fantasma più famoso del mondo questo è il più utile, il più garbato e anche il più intelligente.
lunedì 10 gennaio 2011
Jon Ronson
Uomini che uccidono le capre con lo sguardo, interrogatori a base di telepatia, armi segrete nascoste nel cervello di ogni soldato, LSD distribuito per vedere l’effetto che fa, pillole stop & go per restare svegli tre giorni di fila e dormirne altrettanti senza interruzioni: gli esperimenti senza fine dell’esercito americano per conquistare cuori e menti nella battaglia non hanno mai avuto limiti né di budget né di immaginazione, e su questa ricostruzione non si discute. Bisogna però partire con il piede giusto: L’uomo che fissa le capre, a differenza dalla sua interpretazione cinematografica, ha ben poco del romanzo. Jon Ronson, come succede spesso con giornalisti e storici americani e anglosassoni, usa un tono narrativo, se non proprio confidenziale, e questo può indurre in errore e pensare che tutto quello che racconta sia frutto di una fantasia illimitata e bizzarra. In qualche modo lo è davvero soltanto che non è la sua: è quella dei comandanti americani che nella sfrenata corsa a soluzioni sempre più micidiali e devastanti si sono infine rivolti all’unica, vera arma di distruzione di massa presente sul pianeta, il cervello umano. Jon Ronson, incontrando di persona ufficiali e responsabili di quelle esercitazioni a base di sforzi del pensiero e tentativi di attraversare i muri e superando una comprensibile incredulità iniziale (“Per un agnostico non è facile accettare l’idea che a volte i nostri leader e i leader dei nostri nemici sembrino convinti che la gestione delle faccende mondiali debba svolgersi, oltre che sul piano del reale, anche in una dimensione soprannaturale”) descrive una minima parte dei progetti speciali dell’esercito americano, con un particolare riguardo alle cosiddette operazioni psicologiche. Alcune hanno radici filosofiche indiscutibili (“Se capisci il nesso tra osservazione e realtà impari a danzare con l’invisibile”: lo direbbe anche Alejandro Jodorowsky), altre servono solo a dissipare enormi quantità di risorse pubbliche e altre ancora non nascondono l’unico obiettivo. Il solito, che uno degli intervistati di Jon Ronson spiega in maniera fin troppo chiara: “La guerra è sia una realtà fisica, sia uno stato mentale. La guerra è ambigua, incerta e sleale. In guerra, dobbiamo pensare e agire diversamente. Dobbiamo prepararci per tempo all’ultima e più importante prova dei fatti: il combattimento. Dobbiamo vincere sia la guerra, sia la pace. Dobbiamo essere pronti a dubitare di qualsiasi cosa”. Jon Ronson è brillante, acuto e coinvolgente e il suo reportage, pur tra le inevitabili omissioni e le frasi lasciate a mezz’aria rivela molti lati oscuri (e criminali) degli uomini che fissavano le capre ed è una lettura inquietante anche perché lascia intuire che abbia soltanto raschiato la superficie. Mettendo almeno in chiaro che la vera arma segreta della mente umana è la menzogna perché “chi travisa i fatti li controlla perfettamente, fin dall’inizio. E’ molto difficile leggere in controluce il significato di una storia che ci è stata propinata in un certo modo”. Efficace.
Samuel Fuller
giovedì 6 gennaio 2011
Jerome Charyn
Cosa succede se un poliziotto dalla morale inattaccabile e dal cuore fin troppo tenero, ma cresciuto rispondendo colpo su colpo alle durezze delle strade del Bronx diventa sindaco di quella Babilonia in terra che risponde al nome fittizio di New York? La risposta a questa domanda vale un milione di dollari, anzi di più: tutto il campionato di baseball americano e un intero quartiere a cui Isaac Sidel, detto il Puro, non esiterà un attimo a dedicare ogni sua forza per reagire a chi oserà calpestare impropriamente la terra del suo Bronx. Degno capitolo di quella saga metropolitana che annovera altri gioielli noir come Occhiblù e Marylin la Selvaggia, Bronx sembra piuttosto un particolare estratto di Metropolis, probabilmente il capolavoro narrativo di Jerome Charyn. Perché è sempre New York (“L'unica città al mondo dove le comunità esplodono e muiono con tanta regolarità che nessuno se ne accorge”: la definizione è dello stesso Jerome Charyn, proprio in Metropolis), quella ragnatela di interessi, razze, uomini e donne che sembra vivere una vita propria, nascondendosi dietro le gesta insieme epiche e confusionarie di personaggi che si chiamano Joey Barbarossa, Candida Cortez e, al di là del bene e del male, lui, El Caballo, Isaac Sidel detto il Puro. Un sindaco che crede ancora di essere il poliziotto di un tempo e che non esita un secondo a tirar fuori la sua pistola (sempre nella cintola perché il Bronx è un posto dove una Glock è uno status symbol) per ristabilire la (sua) legge. Non inganni lo stile picaresco, volutamente caotico e surreale di Jerome Charyn: la visione alterata (ma nemmeno tanto) di eventi che potrebbero essere cronaca (nera) e dramma garantisce un ritmo serratissimo che fanno, sì, di Bronx un perfetto romanzo noir (o thriller, o giallo o poliziesco) ma anche un bellissimo affresco della vita metropolitana americana: poliziotti che diventano delinquenti, circoli culturali dove si decidono i destini della città, bande metropolitane con nomi di tribù indiane, strade trasformate in campi di battaglia, squadre sportive dal taglio di associazioni a delinquere. Difficile credere sia soltanto Bronx, l'ultimo romanzo di Jerome Charyn. O è Jerome Charyn che, pur divertendosi ad inventare un noir dopo l'altro, ha capito tutto. O quasi, perché laggiù, come ovunque, la scrittura è anche autodifesa: “Ho cominciato a scrivere perché le parole erano l'unico mezzo per collegarmi al mondo. Non ho mai considerato la scrittura una professione, malgrado mi consentisse di guadagnare qualche soldo. E’ stata l’arma con cui combattere le scariche elettriche che mi vibravano nel cervello, un modo per trovare coerenza e musica, per risolvere il caos e allo stesso tempo per avvicinarmici senza essere risucchiato da qualche suo buco nero”. Come si può vedere, gli bastano poche righe di un'intervista (tratta da L'arte dello scrivere, a cura di Sybil Steinberg) per farsi capire e per suggerire uno spunto, un'idea, un briciolo d'ispirazione: un uomo del nostro tempo.
mercoledì 5 gennaio 2011
John Cheever
martedì 4 gennaio 2011
Elliott Murphy
Quello che vede John Little (o Petit Jeanne) ancora bambino lo segnerà per tutta la vita: il padre ammazzato senza pietà e per motivi ancora meno che futili dallo sgherro di un politicante prepotente e corrotto. E’ solo l’inizio, drammatico e feroce, di una lunga saga ambientata nelle terre di frontiera (americane) alla fine del diciannovesimo secolo, ma anche nei bassifondi di New York e lungo i meandri della storia di una nazione. La cui sorte, per parafrasare un passaggio dedicato alle figure femminili del romanzo, è stata infine molto, molto diversa dalle sue ambizioni. Qualcosa dipende anche dalla difficoltà nel distinguere la vendetta dalla giustizia, nel considerare una libertà individuale (intoccabile) quella di possedere e usare le armi da fuoco, fin dai primissimi giorni della frontiera. In quelle condizioni John Little si accorge che la sua scelta del tutto personale, come è evidente, e dettata dall’istinto, è invece piuttosto comune perché nonostante il “destino manifesto” nell’America di frontiera “bisognava essere folli per credere che il timore del castigo potesse dettare legge e mettere ordine nel cuore di un uomo, quando le possibilità di farsi arrestare per i crimini più atroci dipendevano dalla velocità del proprio cavallo di partire al galoppo verso una giurisdizione più clemente”. Quando non si può più fuggire, la scelta è obbligata e l’altra ferita, lacerante e a suo modo definitiva, che impone a John Little d’impugnare le sue pistole, è vedere, dopo il padre ucciso, la madre costretta a uccidere e a giustificarsi senza particolari tentennamenti: “Figlio mio, ho perso tutto quello che c’era di buono e di puro nella mia vita, e a quel punto non potevo che sposare il male. Era l’unica forza che poteva farmi smarrire del tutto e cancellare per sempre la felicità perduta. Il male era più forte del mio dolore”. Indurito da un’educazione così feroce, John Little diventa un cavaliere solitario, ma dato che “la vendetta, quella vera, non è mai anonima”, le sue missioni e la sua abilità con grilletto e mirino diventano sempre più richieste in terre di nessuno dove tra autodifesa e giustizia non c’è molta differenza. Il finale è tutto meno che scritto (“Non sono certo di essere sopravvissuto a niente” dice John Little) anche se questo “romanzo western” come si premura di precisare il sottotitolo, Elliott Murphy incarna tutto lo spirito di quell’epopea e lo fa riassumere al suo protagonista in una dichiarazione che è qualcosa di più del proposito di una vita: “Vendicare l'onore di un uomo non m’interessa e non ammazzo neanche gli indiani. A modo mio faccio rispettare la legge, proprio come voi. Non sono altro che un'appendice della legge in queste regioni senza legge”. Il cuore e l'anima del romanzo sono, con ogni probabilità, proprio in queste righe, anche se poi Elliott Murphy sfoggia una padronanza di miti e leggende americane che è pari soltanto al suo talento musicale. A partire da Walt Whitman che è il vero compagno di viaggio e di vendetta del piccolo e indomito eroe.
lunedì 3 gennaio 2011
Joe Bageant
Charles Bukowski
La sua storia, esemplare, è quella di un fuoriclasse che si distingue ancora nitida, netta, senza possibilità di errore, a distanza negli anni. E’ un solido macigno che pesa ancora sulla coscienza di tutti gli intellettualoidi che non si sono mai sforzati di capirlo, forse perché raccontava la vita (e la letteratura) in maniera troppo cruda e sincera per loro. In questa prova di forza si distingue Il Capitano è fuori a pranzo, una specie di diario surreale, e nello stesso tempo lucidissimo, che Charles Bukowski ha tenuto tra il 1991 e il 1993, poco prima di morire. Le scommesse alle corse, i suoi gatti, i visitatori più o meno graditi, la sua vita (“A volte mi sento come fossimo tutti prigionieri di un film. Sappiamo le battute, sappiamo dove metterci, come recitare, manca solo la macchina da presa. Però non possiamo uscire dal film. Ed è un brutto film”) sono il centro focale del libro, ma più che in altre situazioni, Bukowksi si dedica volentieri anche a qualche meditazione sulla scrittura, sulla narrativa, sui libri. Con una generosità che ribalta l’immagine da pigro incallito e incontinente e ce lo riconsegna come “un gran lavoratore”, definizione offerta per gentile cortesia di Fernanda Pivano, la cui voce è unica e riconoscibile, come quella voce di un vecchio amico. Le sue “lezioni” di scrittura creativa sono perentorie e minimali, ma tradiscono una passione sterminata e con uno stile che non lascia adito a molte interpretazioni è prodigo di consigli, suggerimenti e aforismi: “Il primo compito della scrittura è salvarti il culo. Se ci riesce, allora è automaticamente vivace, divertente”. Le difficoltà non sono escluse, ma “non c’è niente che possa impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo”. Anche perché in fondo “c’è solo un giudice ultimo della scrittura ed è lo scrittore” e il Buk si è inventato una versione tutta sua del rigore e della disciplina che riassume così: “Uno scrittore non ha niente da dare se non quello che scrive. Al lettore deve nient’altro che la disponibilità della pagina stampata. E il peggio è che molti di quelli che bussano alla porta non sono nemmeno lettori. Hanno solo sentito parlare di te. Il miglior lettore e il miglior essere umano sono quelli che mi fanno la grazia della loro assenza”. E’ una delle tante teorie che gli scappano tra un resoconto di una corsa e una bottiglia di vino, con il contorno dei disegni di un altro superbo outsider, ovvero Robert Crumb, quanto mai appropriati al personaggio e al libro. La sua stessa biografia svela come Charles Bukowski sia riuscito a “ribaltare tutti i pronostici” che, come sembra ovvio, lo davano perduto e fallito in partenza. Invece no, eccolo qui, a scadenze regolari, a raccontarci che “alla fine non vince nessuno, si cerca soltanto una tregua, qualche momento fuori dalla luce”. L'unica cosa che possiamo rimproverare, al grande Buk, è solo che non amava un granché il rock'n'roll. Poco male: nessuno è perfetto, ma lui ha vinto la sua scommessa più importante.