Più
che l’inevitabile memoir di una rock’n’roll star, più che il
racconto autobiografico di un ragazzo della provincia americana
“blinded by the light”, Born To Run è un complesso,
pensieroso e articolato trattato di resa di Bruce Springsteen con se
stesso e con i suoi demoni. Avendo passato una parte importante della
vita prigioniero di un sogno e tutto il resto ostaggio di quello che
ha creato, Springsteen si è sforzato di comprendere e poi accettare
che “per quanto lo desideri, e per quanto mi sforzi, non riesco
proprio a venire a patti con le cose come sono”. La
soluzione, in concerto, dove è più a suo agio, è una sorta di rito
collettivo che produce un’energia gioiosa capace di far rimbalzare
tuoni e fulmini. Nelle cinquecento pagine di un libro diventa più
difficile, anche perché è vero che “le storie vanno rivendicate:
con il duro lavoro e il talento ne nobiliti l’ispirazione, ti
sforzi di raccontarle al meglio, dichiari il tuo debito e la tua
gratitudine verso di esse. Ambiguità, contraddizioni e complessità
delle scelte di accompagnano nella scrittura come nella vita, e tu
impari a conviverci, ad assecondare il bisogno di instaurare un
dialogo con ciò che ritieni importante”. Essendo costruito attorno
all’irrisolto rapporto con il padre e per estensione all’infanzia
nel New Jersey, la prima parte di Born To Run resta la più
densa ed efficace dal punto di vista narrativo. Gli esordi sono
ricchi di volti, di storie, di spunti e il racconto di Springsteen è
ironico, picaresco, spesso romantico, anche se il tono non supera mai
il perimetro di quello che pare, a tutti gli effetti, un
confessionale a porte aperte. L’inversione comincia a metà corsa
dove Springsteen confessa di combattere da anni contro la depressione
che, a ben leggere tra le righe, è causa e insieme effetto di
un’irrisolta crisi d’identità. Il disagio serpeggia, “la
ricerca di un senso e di un futuro” dentro una faglia identitaria
molto movimentata, comprende, oltre ai conflitti personali, quelli
tra realtà e illusione, e, non di meno, i dubbi legati all’essere
americano. In effetti, come sostiene Springsteen “per sapere cosa
significa essere americani dobbiamo scoprire cosa significava
un tempo: solo rispondendo a queste due domande saremo in grado di
immaginare cosa potrebbe significare”. E’ più facile che
diventi presidente degli Stati Uniti che uno scrittore tout court: se
Born To Run non è il grande romanzo americano, Springsteen
era e resta un grande storyteller. La seconda parte, soprattutto
nelle ultime fasi, è più frammentaria, quasi meccanica nello
svolgere i brevi capitoli. Gli aneddoti non trovano sbocchi in una
trama più articolata, il linguaggio non si sviluppa e Born To Run
risulta, alla fine, un greatest hits di storie che ruotano attorno al
nucleo della contrapposizione tra l’età adulta e l’eterna
adolescenza del rock’n’roll, una guerra psicologica senza fine,
con l’ombra della depressione in agguato. Il contorno è la musica
ed è ancora una contraddizione perché quella invece è la sostanza,
il cuore di tutta la sua autobiografia, ma Born To Run è un
tentativo di rimuovere e ricollocare, aprirsi e nascondersi, sempre
con il timore di essere un enorme bluff e che all’orizzonte non ci
sia “nessun sogno, nessun futuro, nessuna storia”. Ci sarà un
motivo se “credibile” è una delle parole che tornano più
spesso. L’altra è “adorabile” e insieme formano un ritornello
che riappare con una frequenza regolare perché nel tentativo, anche
un po’ goffo, di rendersi accettabile, Springsteen intravede sempre
qualcosa di meraviglioso, e vuole bene a tutti (ma proprio a tutti)
perché si sforza di riflettersi negli altri, e di voler bene a se
stesso. Con la chitarra a tracolla, il trucco funziona (eccome).
Dentro le pagine di un libro è credibile, adorabile. La seconda più
della prima.
giovedì 29 settembre 2016
lunedì 19 settembre 2016
Joseph Heller
Quando
Tim O’Brien sostiene che “in una storia di guerra c’è un senso
connaturato all’importanza di vita e di morte, che altrimenti uno
scrittore dovrebbe costruire in altro modo”, definisce un perimetro
molto preciso, per certi versi persino ineluttabile. L’elemento
bellico è una distorsione permanente, dove è impossibile domandarsi
se “è realtà o un ricordo del passato”, come scriveva
Josip Osti in Il libro dei morti di Sarajevo. Solo così si
capisce il contorno della bellezza sottintesa da Comma 22:
“Ero l’eroe di un film”, dice Joseph Heller. E’ una
connotazione importante, per capire, in prospettiva, come si è snoda
la sua attualità, che è quella di un classico, e non è soltanto
perché la guerra è onnipresente nei secoli dei secoli. Ricordava E.
L. Doctorow: “Quando Comma 22 venne pubblicato la gente
sosteneva: beh, la seconda guerra mondiale non era certo così, ma
quando ci trovammo impantanati nel Vietnam quel libro divenne una
specie di manuale per la coscienza dell'epoca. Si sostiene che la
letteratura non sia capace di cambiare niente, ma è certamente in
grado di influenza la consapevolezza di una generazione”. Lo
è diventato perché attraverso Yossarian, il protagonista di Comma
22, Joseph Heller è stato ben più
che esplicito nel raccontare cos’è la guerra: “Ogni nuova
giornata rappresentava una nuova pericolosa missione contro la
mortalità”. Le storie degli avieri americani nei cieli italiani
sono narrate in modo lapidario, grezzo, senza alcuna correzione di
rotta: “Clevinger era morto. Ecco il difetto principale della sua
filosofia della vita. Diciotto aeroplani s’erano abbassati
attraverso una nuvola bianca e splendente poco lontano dalla costa
dell’isola d’Elba, mentre tornavano un pomeriggio dalla
missioncella settimanale a Parma; dalla nuvola ne uscirono
diciassette. Nessuna traccia fu mai trovata dell’altro, non
nell’aria, e neppure sulla superficie liscia dell’acqua verde di
sotto. Neanche un frammento di aeroplano”. Questa è la sfida
quotidiana e non c’è via di uscita perché la burocrazia e la
disciplina sono altrettanto spietate, come è ribadito dal Comma
22, ovvero “chi è pazzo può
chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di
essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. In effetti la
follia è un’altra e “quando arrivò il momento in cui il
colonnello Cathcart aumentò il numero delle missioni di volo
prescritte a cinquantacinque, il sergente Towser cominciò a
sospettare che forse ogni persona che indossava un’uniforme fosse
affetta da pazzia”. Joseph Heller non si esime dall’affondare
nelle radici con cui è alimentata la retorica perché quando non
basta la patria, c’è sempre il richiamo alla gloria, come spiega
il colonnello Korn: “Sai, questa può essere una soluzione:
gloriarsi di qualcosa di cui dovremmo sentire vergogna. E’ un
trucco che sembra riesca sempre”. Per quanto si cerchi di
mascherare l’effettiva consistenza della guerra, la conclusione è
sempre l’inevitabile sovrapposizione con la morte, che Comma 22
celebra con un’amarezza infinita: “C’era un tempo in cui
provavo grande soddisfazione quando riuscivo a salvare la vita di
qualcuno. Ora mi chiedo che dannato senso può avere, dal momento che
devono tutti morire una volta o l’altra”. Sulla scia di Comma
22, l’avrebbe ribadito Rodolfo
Fogwill in Scene
di una battaglia sotterranea, alla fine è il
destino, non la guerra, quello di cui stiamo parlando. Obbligatorio,
oggi più che mai.
martedì 6 settembre 2016
Ann Beattie
Le
Gelide scene d’inverno di Ann Beattie inquadrano, all’inizio
del 1975, la precarietà degli anni americani della sconfitta e della
caduta, quando tutti sembravano reduci, o dalla guerra, o da
Woodstock. Questa dimensione pubblica si riflette nel disorientamento
privato dei personaggi, a partire da Charles, il protagonista, che è
ossessionato da Laura, nel frattempo prigioniera del matrimonio con
Jim alias il bue (proprio così). Ogni rapporto è un’elisse che ne
comprime un altro e nelle Gelide scene d’inverno non c’è
spazio di manovra perché un insieme di solitudini non basta a
rappresentare una comunità. I tentativi di comunicazione sono tanto
insistiti e ripetuti quanto destinati al fallimento e le reiterazioni
di Ann Beattie funzionano come colpi di frusta e giri di boa. Non
soltanto ribadiscono intere frasi, ma portano il periodo, di
conseguenza il dialogo e quindi tutte le Gelide scene d’inverno
al livello successivo. Eppure, nonostante lo sguardo ravvicinato,
quasi intimo, come se Ann Beattie fosse proprio lì, in mezzo a ogni
singola discussione, “l’atmosfera è così impersonale” e sono
soltanto le canzoni a ristabilire un po’ di calore. Gelide scene
d’inverno è punteggiato in tutti i passaggi più importanti da
Janis Joplin, Bob Dylan, Elton John, Billie Holiday George Harrison,
Rod Stewart. Per quantità e qualità la colonna sonora ha un valore
determinante non soltanto perché “le canzoni non sono mai a
sproposito. Qualunque disco si stia ascoltando, le parole si possono
sempre applicare alla realtà”, ma soprattutto perché sottolinea e
intervalla un romanzo costruito quasi per intero sui dialoghi.
Altrimenti Ann Beattie è lapidaria, essenziale, fotografica. Un
esempio: “Charles raggiunge Susan alla porta, escono e si avviano
alla macchina. Charles nota che gli uccelli hanno finito tutto il
mangime e che dovrà mettergliene ancora. C’è da aspettarselo: uno
mette fuori il mangime, scompare, ne mette dell’altro, scompare, e
così via”. Anche l’uso del presente è spiazzante: Gelide
scene d’inverno è una lastra di cristallo, trasparente in
superficie, piena di schegge nei suoi angoli più remoti, e comunque
senza alcun filtro o protezione. Come ha ammesso la stessa Ann
Beattie nella prefazione: “Avevo sviluppato una passione per le
storie che si potevano leggere fra le righe e per le narrazioni che
risultavano fuorvianti, a volte per una scelta deliberata dello
scrittore, a volte semplicemente perché i personaggi non dicevano la
verità”. Gelide scene d’inverno resta complesso per il
carattere coraggioso, a tratti anche sperimentale e innovativo, delle
scelte di Ann Beattie e più che leggerlo, va studiato. Con un po’
d’attenzione, si capirà che è molto doloroso nel riflettere
l’amarezza di un’era, in fondo riassunta in una battuta di
Charles: “Certo che mi sento solo. Perché continui a
ricordarmelo?” La domanda, nel gioco di specchi delle Gelide
scene d’inverno, sembra persino rivolta ad Ann Beattie e la
risposta, visto che tutti stanno aspettando il nuovo album di Dylan,
rimane abbandonata nel vento.
giovedì 1 settembre 2016
Mike Davis
Un
personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve
storia dell’autobomba è esemplare
per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di
una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki,
ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un
anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel
1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo
stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è
morte”. C’è tutta la Breve
storia dell’autobomba in quelle
ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale
di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui
diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui
“conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La
puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte
dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda
nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un
romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo
efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il
sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è
indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici
dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles
Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il
contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta
all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e
tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non
distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve
storia dell’autobomba è evidente
che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e
l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive
con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno
“l’impressione di essere guidati simultaneamente da una
disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a
tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione
preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi
dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo
darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore
di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le
esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft
targets, porteranno sicuramente a
scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico,
funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati
storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la
riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima
di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una
nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata
sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la
meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi
bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve
storia dell’autobomba rivela “una
corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza
orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è,
nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta
speranza per il genere umano.
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