Sono
gli anni di Reagan ed essere “born in the U.S.A.” voleva dire vivere nel
futuro, solo che non è era così scintillante e divertente per tutti. Per Rory
Dawn Hendrix, e forse per la stessa Tupelo Hassman, non è stato semplice vivere
nella Calle de las Flores, un campeggio con l’ambizione di essere un quartiere
da qualche parte “in the middle of nowhere” attorno a Reno, Nevada, un posto
dove una casa può bruciare in sessanta seconti perché non è una vera casa, e
dove, inoltre, “non è affatto facile far sembrare che la cosa sia facile”.
Anche “rimettere insieme i pezzi” non viene spontaneo: alla Calle ci si salva
una sola volta. Forse, perché “la Calle è una specie di zona di guerra, il
nemico ci circonda, il nemico siamo noi. Siamo così chiusi che non riusciamo a
fidarci nemmeno di noi stessi, tantomeno gli uni degli altri, e quando pensi
che ti puoi rilassare un po’ c’è un’altra emergenza all’orizzonte e come se non
bastasse il cibo è terribile”. Bambina mia è Rory Dawn Hendrix, terza generazione di donne “deboli di
mente” che hanno trovato indigesto e insapore il cocktail dell’american dream.
Dal punto di vista di una bambina, che tale rimarrà fino alla fine, la Calle è
un microcosmo che ruota attorno al Truck Stop (il nome dice tutto) e ai
bungalow, non luoghi che sono soltanto l’anticamera della terra di nessuno in
cui cadrà. Per un’innocente girl scout in un mondo di adulti irrorato
dall’alcol e irretito dal gioco d’azzardo, non è complicato immaginare come può
finire: “Io ero bloccata tra un luogo spaventoso e un luogo spaventoso e così
aspettavo solo che la cosa passasse, che le domande non mi venissero fatte, e
quando ormai era tutto finito, tranne nei miei sogni, ho cercato di
dimenticare”. Bambina mia
ha una sola inquadratura, un primo piano che si allarga un po’: parte dal
sorriso mancato di Johanna, madre
di Rory Dawn Hendrix, e arriva a contemplare anche il terzo stadio dell’albero
genealogico con la presenza rivelatoria della nonna, Shirley Rose. Tre donne si
trasmettono con una certa naturalezza le proprietà famigliari perché “la merda
che produciamo non scompare mai, specialmente quando ci aspettiamo che sia
qualcun altro a pulicercela”. Eloquente: il debutto di Tupelo Hassman ha un
ritmo incalzante, attraente e avvincente ed è concreto nel rendere l’atmosfera
di disperazione e disintegrazione della Calle, dove fruga nella polvere quel
tanto che basta. Sorprendente nella prima metà, con alcuni passaggi davvero
notevoli, più ci si addentra nell’apatia della Calle, più Bambina mia, come per un processo di osmosi,
comincia ad assecondarne la routine e Tupelo Hassman sembra reiterare le
promesse iniziali. Anche se il talento e lo stile sono chiarissimi, Bambina
mia comincia a ripetersi
e a funzionare a corrente alternata nella fase finale, dove Tupelo Hassman,
senz’altro con un certo coraggio, assembla parti di sentenze, qualche gioco
linguistico e On The Road Again
di Willie Nelson, appuntata lì con un gran senso della location. Un
bell’esordio, limiti e ambizioni compresi nel conto.
domenica 29 dicembre 2013
venerdì 27 dicembre 2013
Frank Norris
Nel Kansas alla
fine del diciannovesimo secolo, Una speculazione sul grano svela in un racconto essenziale di poche
dozzine di pagine l’essenza e la consistenza del cosiddetto, onnipresente
mercato. A cui Frank Norris dedicò una trilogia di racconti, rimasta purtroppo
incompleta, anche se in fondo basta il micidialie meccanismo a incastri di Una
speculazione sul grano per
comprenderne la portata. Come scriveva John James Ingalls, citato da William
Least Heat-Moon in Prateria, “Il Kansas è stato il prologo di una tragedia che non ha ancora
l’epilogo, è stato il preludio a una fuga di battaglie di cui non s’è ancora
spenta la risonanza”. Il ribasso del prezzo del grano a sessantadue centesimi
per staio (circa un terzo di quintale) è una calamità. A Sam ed Emma Lewiston,
pionieri e agricoltori, costa un dollaro a staio produrlo e non rimane che
andarsene verso Chicago in cerca di altre opportunità. Per loro la matematica è
impietosa, per il mercato è un optional ed ecco che la cifra discriminante sale
a uno e dieci, uno e mezzo e uno a settantacinque fino alla mossa finale dei
due dollari per staio. Una speculazione da manuale: l’escalation del prezzo del
grano non è collegata ad alcuna logica produttiva o economica, all’offerta o al
consumo e non è il risultato di una politica industriale o delle leggi della
concorrenza. E’ solo frutto di quell’imperativo, “sostenere il mercato”, che è
tutt’altro che ambiguo perché come scriverà John Maynard Keynes qualche anno
dopo Frank Norris: “Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle
sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se
le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando
l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività
di un casinò, è probabile che le cose vadano male”. Horhung e Truslow, i due
finanzieri che combattono in Una speculazione sul grano, potrebbero persino essere soci: un giorno
va bene a uno e un giorno all’altro, ma a loro, ai mercanti nel tempio, va
sempre bene. Il rialzo e il ribasso nella logica del mercato sono soltanto
artifizi strumentali. Gli aumenti, le trattative, le sfumature economiche sono
piccoli abbagli, conditi dal gusto per il gioco d’azzardo, per nascondere il
vero scopo di quel mistero chiamato mercato, che è vincere sempre. Il mercato è
l’inganno e quando lo sconfitto di turno se ne accorge non fa altro che riderci
sopra: è il rischio del mestiere (sarà per la prossima volta). Gli sconfitti
sono sempre gli altri e il titolo del racconto di Frank Norris contiene già
nella sua etimologia latina la chiave di volta della storia. Con il grano a
sessantadue centesimi almeno il pane lo regalavano ai diseredati, ma con il
rialzo a due dollari anche quella spontanea e provvisoria forma di welfare
viene a mancare e Sam Lewiston si ritrova a fare La fila per il pane, come è chiamato l’emblematico paragrafo
conclusivo di Una speculazione sul grano che ancora oggi, nella sua drammatica attualità, è una
perfetta definizione di cos’è davvero il mercato.
lunedì 23 dicembre 2013
Willy Vlautin
L’incipit di Verso nord si snoda come il ritornello di una circus song ed è come se gli acrobati interpretassero il precario equilibrio dell’esistenza di Allison Johnson. L’altra indicazione strategica, prima della partenza, è il suono, l’aspra atmosfera delle ballate country & western, da Hank Williams a Johnny Cash (più di tutti), che sono la colonna sonora di un mondo white trash, povero di idee, di soldi, di tutto, che Allison Johnson interpreta allo stremo delle forze. Non è neanche una Motel Life, per ricordare il romanzo d’esordio di Willy Vlautin, perché la vita si svolge nei parcheggi, nelle tavole calde, in camere ammobiliate con la televisione onnipresente, dove si allinea una sterminata teoria di loser. Allison beve fino a cadere svenuta e quando è sveglia, è preda degli attacchi di panico e sempre sull’orlo del suicidio. Ha una svastica tatuata in fondo alla schiena, senza sapere né perché né cosa significa, anche se nell’iconografia di Verso nord non è altro che l’ennesimo marchio della solitudine e della disperazione. Dopo l’ennesimo crollo, e la scoperta di essere incinta, decide di abbandonare i sobborghi di Las Vegas, compresi il residuo di famiglia che le rimane e Jimmy Brodie, un fidanzato imbottito di speed. Nel viaggio Verso nord, Allison sembra sapere che “non c’è alcun posto in cui non ci siano i mentecatti, la morte, la violenza, i cambiamenti, la gente che arriva da fuori” e non dimentica, nemmeno quando non approda a Reno. E’ lì che, pur lottando contro una moltitudine rimpianti (primo tra tutti, il figlio dato in adozione), di fantasmi e di incubi, Allison riesce a fermarsi, a darsi un minimo di linea di galleggiamento e a coltivare l’ambizione di un diploma. Non è moltissimo, ma per una che nella vita ha fatto soltanto la cameriera sarebbe già qualcosa in più di un premio di consolazione. D’altra parte il miglior consiglio professionale che ha ricevuto è stato quando qualcuno gli ha detto: “Dovresti fare la cameriera in un locale chic, così faresti un sacco di soldi”. Per Willy Vlautin, Allison Johnson è una rabdomante che fruga nei bassifondi della vita e il pregio maggiore della sua scrittura, come già l’avevamo sentito nel songwriting per i Richmond Fontaine, è quello di seguirla senza intromettersi troppo. Partendo da lei, i quarantacinque frammenti di cui è composto Verso nord ricalcano il disorientamento, il malessere, il dolore di un’umanità ingenua, fragile, spezzata da troppe promesse e affondata in un fiume di alcol. La fuga, nella speranza di cominciare da un’altra parte, è la possibilità sottintesa in ogni frase scritta da Willy Vlautin, come se sulla strada ci fosse una risposta o magari una promised land da raggiungere. Viaggiando Verso nord, si scopre invece che il luogo più ospitale per Allison e per il suo occasionale compagno è il deserto e non c’è alcun suggerimento metaforico nell’immagine composta da Willy Vlautin. Solo l’alone di una luce fredda e crepuscolare e i filamenti della scrittura di un narratore destinato ad andare lontano.
venerdì 20 dicembre 2013
Don DeLillo
“Il Mediterraneo è stato il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta e ha giocato nella storia della civiltà un ruolo molto più significativo di qualsiasi altro specchio di mare” scrive David Abulafia nella conclusione a Il grande mare. A cavallo tra il 1979 e il 1980 è “un mare dai molti nomi”, singolare coincidenza con il titolo del romanzo di Don DeLillo, dove si intersecano tensioni geopolitiche, rotte commerciali, strategie terroristiche e operazioni segrete. Il moderno Ulisse di Don DeLillo si chiama James Axton ed è un cittadino americano incaricato di valutare “le quantità di rischio” degli investimenti finanziari in paesi dalla situazione politica ed economica ambigua e/o instabile. Usa “una scala di valori complessa” per interpretare e analizzare i numerosi segnali che arrivano dal bacino del Mediterraneo, in particolare tra la Grecia e la Turchia, anche se poi confessa che nella sua natura resistono due tratti caratteristici a tutta l’umanità: “Noi abbiamo la nostra arroganza. Abbiamo anche la nostra inadeguatezza. La prima è una disperata invenzione della seconda”. Nella sua evoluzione, I nomi si nasconde dietro le sembianze di un thriller (comprensivo di una serie imprecisata di delitti) e invece ha la peculiarità di riuscire a vedere dentro e oltre il linguaggio delle civiltà mediterranee, scrutandone la decadenza negli “anni squallidi che verranno”. Tutto si svolge negli incontri di James Axton, che vede e parla con “gente costretta ad andare d’accordo dalle circostanze” ed è proprio così che prende forma I nomi perché “ogni conversazione è una narrativa condivisa, una cosa che fluttua in avanti, troppo densa per lasciare spazio allo sterile, il non detto. Il discorso è incondizionato, i partecipanti vi entrano completamente”. I nomi riflette la contorta conformazione del Mediterraneo in quel preciso frangente storico, sospeso a un filo di paura, ed è un romanzo avvinghiato all’estenuante capacità di Don DeLillo di insistere sull’obiettivo, fino a quando James Axton recita: “C’è qualcosa che mi irrita, quest’arroganza travolgente, abbattere il potere, rifare la lingua. Con che cosa ci lasciano? Delle designazioni etniche, dei mucchi di iniziali. Opera di burocrati, menti ottuse. Mi rendo conto di prendere questi cambiamenti in modo molto personale. Per me sono come un annullamento della memoria”. I nomi è la versione psicotica e visionaria dei grandi poemi omerici, con la differenza che attraverso le frontiere mediterranee Don DeLillo scopre un’inedita identità letteraria. Una definizione proiettata ben oltre la presunta modernità, visto che “nel nostro secolo, lo scrittore ha portato avanti una conversazione con la follia. Si potrebbe quasi dire, dello scrittore del ventesimo secolo, che aspiri alla follia. Alcuni ci sono riusciti, ed occupano dei posti particolari nella nostra considerazione. Per uno scrittore la follia è come una distillazione ultima di se stesso, un’autocensura finale. E’ l’affogamento delle false voci”. Lungimirante.
domenica 15 dicembre 2013
Chuck Rosenthal
Dopo aver lavorato
a un libro con un titolo che è tutto un programma, La morte della scrittura
in America altrimenti
conosciuto come Il libro di ogni cosa, Shark Rosenthal si divide tra la composita famiglia
(una figlia di nome Gesù e l’avvenente compagna Diosa), un instabile incarico
universitario, dozzine di incontri forieri di altrettanti evanescenti progetti
e la sua vocazione alla scrittura. Il metodo di Chuck Rosenthal, non deve
essere molto diverso da quello del suo alter ego protagonista di A Ovest dell’Eden: “Mi siedo e scrivo, scrivo la prima
frase, poi la seconda e lascio che mi portino dove mi devono portare. Ed è
sempre un libro diverso da quello che avevo concepito. Sono più interessato al
linguaggio che alla storia”. La frenesia è filtrata con discrezione e si
trasforma in un ritmo assiduo, forsennato, sincopato, spesso e volentieri
esilarante. Sa usare tutte le deviazioni e le variazioni dell’immaginario pop,
dal ribaltamento della realtà del cinema (siamo a Hollywood, dopo tutto)
all’insistenza con sui sfoggia il suo name dropping, lasciando scivolare un nome famoso dopo
l’altro e incastrandoli in una rete di eventi e relazioni collaterali
impercettibile a occhio nudo e che non finisce mai perché “non c’è chiusura
quando racconti una vita”. Figurarsi mentre si setacciano gli otto milioni di
vivere e di morire di Los Angeles attraverso il filtro deformante delle parole
che, nella percezione di Shark Rosenthal, “sono un miracoloso bisturi con cui i
miracoli sono dissezionati”. Infarcite di rimandi e di riferimenti,
dall’insistente presenza di William Gass, il suo mentore, a Bob Dylan e Jack
Kerouac, fino al rivelarsi con lo spezzone da Tropico del Cancro di Henry Miller e l’apparizione di Mark
Strand nel finale, le Cronache magiche da Los Angeles sono un flusso di parole che non è un
romanzo proprio come Los Angeles non è una città, e proiettano una scrittura
anarcoide, effervescente, incontrollabile in cristalli spezzati in mille
frammenti e in tutte le direzioni, non solo A Ovest dell’Eden. La versione della California di Chuck
Rosenthal unisce le visioni di John Steinbeck (anche il titolo contiene una
piccola citazione) e di Jack Kerouac a quelle di Bukowski e Hunter S. Thompson
riviste con una sottile, attualissima amarezza resa esplicita dalla convinzione
che “nulla nella nostra vita
funziona davvero. Nulla collega un momento all’altro, ma la nostra convinzione
è che le cose funzionino”. Nel gioco della rifrazione tra la realtà e il vero,
Shark Rosental ha un’epifania quando giunge “a scoprire che c’erano molte
illusioni a cui gli americani credevano, dalle assicurazioni sulla vita alle
polizze varie, al credere che la cosa che hai comprato e pagato ti sarà
consegnata a domicilio. Fino all’illusione di vivere in una casa o in un cosmo
funzionante”. A Ovest dell’Eden vince il premio Pesca alla trota in America perché surreale non è il giornalismo
magico di Chuck o Shark Rosenthal, è il mondo (e il modo) in cui viviamo e
nessuno l’aveva (ancora) raccontato così.
giovedì 5 dicembre 2013
David Byrne
Come funziona
la musica è destinato a
cambiare in modo sostanziale quel luogo comune, ispirato da Frank Zappa, per
cui scrivere di musica è bizzarro, inutile o addirittura dannoso. Prima di
tutto perché David Byrne affronta l’argomento con il piglio del narratore e
sapendo che “ci sono due conversazioni che si svolgono contemporaneamente: la
storia e il modo in cui la storia viene raccontata”, riesce a restare in
equilibrio, con un tono appassionato e nello stesso tempo molto efficace e
articolato. Dipende anche dalla scelta di affidarsi a un linguaggio chiarissimo
nella sua ricchezza, una scelta dovuta al fatto che “la semplicità è una sorta
di trasparenza in cui leggere sfumature possono avere un effetto enorme. Quando
tutto è visibile e pare banale, i dettagli assumono un significato più grande”.
Per capire Come funziona la musica David Byrne parte dal definire quello che chiama, più
di una volta, “il contesto”, ovvero le condizioni che determinano la percezione
della musica. La sintesi, in breve, potrebbe stare tutta in questo passaggio:
“La musica è forma da onde sonore che captiamo in momenti e luoghi specifici;
sopraggiungono, le percepiamo e poi spariscono. L’esperienza della musica non
consiste semplicemente in queste onde sonore, ma altresì nel contesto in cui si
generano. Molti credono che ci sia una qualche misteriosa qualità insita nella
grande arte, e che ci sia questa sostanza invisibile a suscitare in noi una
reazione tanto profonda. Questa entità ineffabile non è ancora stata
identificata, ma sappiamo che le forze sociali, storiche, economiche e
psicologiche influenza le nostre reazioni tanto quanto l’opera stessa. L’arte
non può esistere nell’isolamento. E tra tutte le arti la musica, essendo
effimera, è la più prossima a essere un’esperienza più che un oggetto: è legata
al luogo in cui l’hai ascoltata, a quanto l’hai pagata e a chi era con te in
quel momento”. Da lì si arriva nella seconda metà di Come funziona la musica e l’apparato teorico e filosofico lascia
campo libero a considerazioni più concrete e prosaiche che riguardano la
produzione della musica. Sono altrettanto pertinenti e interessanti perché
l’analisi dell’industria discografica e dello show business in generale è
impietosa, documentata e sperimentata in prima persona, eppure non è priva di
speranza, alla fine perché di David Byrne rimane convinto che “sono la musica e
il testo a suscitare l’emozione dentro di noi, e non il contrario. Non siamo
noi a fare la musica, è la musica a fare noi”. A David Byrne la prima volta capitò molto tempo fa
ed è cangiante il suo ritratto del CBGB’s e del “contesto” in cui si è
sviluppata un’intera scena musicale ovvero la logica di un quartiere, del tempo
e degli spazi che allora hanno permesso alla musica dei Talking Heads (e di
Ramones, Television, Patti Smith e Mink DeVille) di sopravvivere. E’ laggiù che
“ogni sera quei promemoria sonori ci ricordavamo da dove arrivavamo, dove
eravamo in quel momento e dove eravamo diretti”. E’ così che funziona la
musica.
domenica 1 dicembre 2013
Billy Collins
Le poesie raccolta
in A vela, in solitaria, intorno alla stanza sono formate da istantanee, piccoli frammenti di vita
domestica, spicciole osservazioni metereologiche, tutto un diario quotidiano in
cui di Billy Collins va cercando “modi più semplici per costruire senso, la
conoscenza dei gesti, per esempio”. Nel calendario che annota trovano posto
brevi constatazioni di fuggevoli stati d’animo, come succede in Giorni: “sussurri, poi trattenendo il fiato,
metti questa tazza sul piattino di ieri, senza il minimo tintinnio”. Oppure
caustiche riflessioni sullo scorrere del tempo, che hanno uno zenith in Compiendo dieci anni: “Mi sembra solo ieri che credevo che
sotto la pelle non ci fosse altro che luce. Se mi tagliavi non potevo che
splendere. Ma ora quando cado sui marciapiedi della vita, mi pelo le ginocchia.
Sanguino”. Il linguaggio è sempre sciolto, brillante, immediato senza essere
banale e se la sua praticità, ben dimostrata nel suo pellegrinaggio A vela,
in solitaria, intorno alla stanza ha solleticato più di un parere urticante, tra chi vorrebbe sempre la
poesia in alto, magari in un tabernacolo, Billy Collins non sembra essersela
presa più del tanto. Considerando
la sua vocazione come quella di “un amanuense non pagato ma soddisfatto”, in
effetti Billy Collins qualche detrattore l’ha trovato sulla sua rotta e, non di
meno, è rimasto convinto che “una poesia accessibile ha un’entrata chiara, una
porta d’ingresso attraverso la quale il lettore può passare al corpo della
poesia la cui accessibilità complessiva, e cioè la disponibilità di
significato, è da vedere in seguito e può notevolmente cambiare”. Forse per
interpretare A vela, in solitaria, intorno alla stanza è più sensato passare da Sonny Rollins,
Art Blakey e Thelonoius Monk. Certe divagazioni, molte variazioni, parecchie
diversioni si nutrono più di principi ritmici jazzistici che letterari, così
come sembra confermare lo stesso Billy Collins in Nightclub: “Siamo tutti così pazzi, così comincia il
mio lungo assolo bebop, così terribilmente pazzi che siamo diventati bellissimi
senza neppure saperlo”. Billy Collins sembra persino defilarsi quando dice:
“Cerco parole per trarmi d’impaccio” e allora se serve un parere autorevole,
dovrebbe bastare quello di Charles Simić: “Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima
è ciò a cui aspirano i poeti del tuo tipo. Essi si affidano al loro senso del
comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è
meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di
pappagalli e indossare il costume di qualche antiquata moda letteraria”. Nella
sua essenzialità la definizione di Charles Simić è fin troppo precisa. In fondo
un’idea di Purezza la
svela lo stesso Billy Collins nella scia di A vela, in solitaria, intorno
alla stanza ed è la
miglior definizione possibile della sua esperienza: “Sono la concentrazione in
persona: esisto in un universo dove non c’è altro che sesso, morte, scrittura”.
Più chiaro di così.
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