Le short stories di Nemico, amico, amante… si incastrano l’una dell’altra in modo impressionante: uomini e donne (soprattutto donne) che affrontano i casi della vita (e della morte, ospite non raro nei racconti di Alice Munro) aggrappandosi a una dignità laboriosa, faticosa e comunque limitata. I limiti sono umani, non delle parole: l’imprevisto, la trasformazione, il movimento senza viaggio, le variazioni hanno un senso quasi musicale. La forma del racconto è espansa all’estremo e se ogni storia ha le potenzialità per diventare un romanzo, si risolve in una lunga ballata che sfuma dentro quella successiva. Nell’incipit di Nemico, amico, amante… c’è già un richiamo a Mobili di famiglia (un altro incipit memorabile) e una riflessione della protagonista che è il primo di una serie di cerchi che si propagano fino alla conclusione di The Bear Come Over The Mountain: “Incominciava a pensare a una possibile rinascita. Ecco il cambiamento di cui ho bisogno. Se l’era detto altre volte, e di sicuro prima o poi la previsione si sarebbe avverata. Inverni miti, profumo di foreste sempreverdi, mele mature. Il necessario per mettere su casa”. Le sue voci (femminili) si nutrono tanto di quest’assidua volontà di metamoforsi quanto di “un susseguirsi di ondate di intensa memoria” per ridefinire le proprie vite, per fare ordine tra desiderio e le sue conseguenze. In un certo senso è la protagonista di Post And Beam a mettere in chiaro quali sono i margini delle storie di Alice Munro, quando si rende conto che “la cosa più sensata era che l’impegno da rispettare nel continuare a vivere come era sempre vissuta. Il patteggiamento era già in atto. Accettare l’accaduto ed essere onesta rispetto a ciò che poteva capitare”. La scrittura di Alice Munro, per sua stessa ammissione, celata tra le righe di Nemico, amico, amante… è “più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell’aria che alla costruzione di storie” e il tono è quello di storie raccontate a salvaguardia di esistenze che vivono di emozioni anche se “la vita non dura abbastanza” per comprenderne fino in fondo la trama, lo svolgimento, la sua stessa essenza. Lo sforzo di Alice Munro si concentra lì, dove la consapevolezza degli errori, “la conoscenza di quello spazio chiuso, centrale, vuoto e senza calore” ha bisogno della finzione e di tutte quelle risorse si nascondono nel silenzio perché come si legge in The Bear Come Over The Mountain: “con certe cose non si poteva mai dire”. Tra quelle “cose” c’è una piccola, rischiosa variante che si chiama amore e su cui, già dal titolo, si giocano i principali cambi di registro di Alice Munro che è capace di indagare con rara profondità quel tempo in cui, come diceva Joni Mitchell, “le cose selvagge corrono veloci”. Arrivando a scoprire negli umori e nella sensazioni dei suoi personaggi che “non è detto che la gente qui dentro sia onesta per forza”. La precisazione non dovuta, eppure offerta con naturalezza da una grande narratrice, è qualcosa in più che rende i racconti di Nemico, amico, amante… pregevoli e illuminanti.
domenica 30 ottobre 2011
Alice Munro
venerdì 28 ottobre 2011
Richard Ford
giovedì 27 ottobre 2011
Stefan Merrill Block
Una casa nel bosco e sulla riva del lago nel clima bucolico del New England, un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. E' estate, eppure dal camino escono densi filamenti di fumo. E’ Katharine, la nonna di Stefan Merrill Block, che con “la semplice consapevolezza di quello che va fatto” sta bruciando le ultime tracce lasciate dal marito, Frederick. Una decisione difficile, dolorosa e presa con grande fatica perché nel camino dell’Echo Cottage si sta trasformando in cenere un pacco di lettere arrivato dalla Mayflower Home, l’ospedale psichiatrico in cui è relegato Frederick Merrill. Il suo stato di alterazione, la malattia, non è definita e con ogni probabilità non è definibile: è tornato dalla guerra, che ha visto da lontano, disturbato, annoiato, sempre pronto a seguire impossibili voli pindarici così come ogni possibile avventura passionale. Cede all’alcol, alle provocazioni, all’autocommiserazione, alle fughe notturne, quando lascia sole e incredule moglie e figlie. Il suo tormento più verosimile è la costante “la tristezza di essere sempre distante dalle cose, al di sopra o al di sotto”. Una sera più malinconica di altre, mentre Katharine ospita la borghesia di Boston e dintorni, Frederick decide di movimentare la compassata compagnia e si va a mostrare in tutte le sue nudità sulla Route 109. Lo spettacolo non è edificante, per quanto non sia nulla che non si possa ricondurre a uno stato di euforia o di ubriachezza, ma Katharine in quel momento si rende conto che “la loro vita era stata perfetta rappresentazione di una vita perfetta” e decide di tirare il sipario. Per lei, e per Frederick, il ricovero in un ospedale psichiatrico, il più costo e rinomato, diventa davvero un’opzione senza alternative. Sembra anche una soluzione ragionevole, finché Frederick non varca la soglia della Mayflower Home: lì dentro, come in tutte le istituzioni totali, si combatte “una guerra silenziosa e terribile” come la definisce il direttore che lo accoglie. Disturbi e cure sono relativi: tra le mura sono l’organizzazione del potere, la distinzione dei ruoli, le maschere indossate dagli ospiti e dal personale a definire la realtà della vita in comune. Frederick è imprigionato con compagni di sofferenza straordinari a partire da Robert Lowell, esimio poeta che ritrae così l’umanità dolente che si trascina nella Mayflower Home: “Siamo poveri fatti passeggeri, avvertiti in tal modo di dare a ogni figura nella fotografia il suo nome vivo”. Con un tono accorato e nello stesso tempo lineare e limpido, da consumato storyteller, Stefan Merrill Block riesce a ricostruire il legame indissolubile e inevitabile tra Frederick e Katharine, l’ordalia di cure psichiatriche coinvolte in regolamenti di conti, l’extrema ratio del suicidio come ultima chance per la libertà. Un po’ agendo sulla realtà delle cronache e un po’ raccordando i frammenti con l’astuzia della fiction e un po’ tenendo presente “il fatto che per le persone ordinarie l’eccesso di intelletto e di passione appare un indice di follia” La tempesta alla porta traccia una solida (e non facile) linea tra arte, la cosiddetta normalità e follia, e lo fa persino con tutta una sua particolare grazia.
lunedì 24 ottobre 2011
Kary Mullis
Colum McCann
Questo bacio vada al mondo intero è “il libro dei morti” di New York: tutti se ne sono andati o se stanno andando: per l’eroina, per il Vietnam, per la mafia, per la galera, per la povertà, per la strada, per la solitudine. Un calendario di dolore disturbato da un piccolo uomo in equilibrio tra le torri gemelle del World Trade Center. Siamo nel 1974 e l’acrobazia di Philippe Petit, funambolo fragile e geniale, è “un tentativo verso la bellezza” attorno a cui la città si raduna in spirali che gli si avvicinano sempre di più: tutto ciò di cui hanno bisogno gli abitanti di New York “per sentirsi una famiglia era la distrazione di un attimo” e quel momento arriva soltanto per caso: con l’arte, la follia, l’amore, la fede. Colum McCann ci arriva stringendo il cerchio capitolo dopo capitolo e infilando chiari segnali già nell’incipit di ogni nuovo passo verso il centro: Lenny Bruce, Hoagy Carmichael, Allen Ginsberg, Bob Marley, Andy Warhol. I nomi vengono fatti filtrare con disinvoltura con una sequenza ciclica e non sembra proprio casuale che Bob Dylan e Bruce Springsteen, appaiano nel finale di Questo bacio vada al mondo. Mentre un folletto nero rimane in equilibrio tra le torri gemelle e mette tutti a guardare nel cielo, le esistenze si incrociano come le strade della città, e “uno dei prodigi di New York è che, da ovunque tu venga, pochi minuti dopo l’atterraggio ti appartiene già”. Una patria di adottati e di stranieri, che si svegliano ogni mattina “sospesi tra la promessa di una tragedia e la delusione dell’ordinario” che Colum McCann racconta frugando nella polvere, nei resti della pioggia, sulle strade: sbirri analfabeti, preti impazziti, generazioni di puttane, artisti fuori tempo e tutti i “rain dogs” (come direbbe Tom Waits, a sua volta citato in modo opportuno) che New York riesce a trattenere sulla sua scacchiera. Anche in forma virtuale, elettronica e digitale “questa è l’America. Superi ogni frontiera. Puoi andare dove vuoi. Devi essere connesso, attraverso i nodi, lungo le vie di accesso, come un telefono senza fili in cui se non azzecchi la parla giusta di tocca tornare indietro e ricominciare tutto daccapo” ed è una ben strana famiglia quella intrecciata dalle strade e dal ritmo frenetico di New York perché è “la bellezza dei vinti” quella che racconta Questo bacio vada al mondo, che è poi un altro modo di parlare degli sconfitti, dei disperati, degli ultimi. Non c’è ombra di moralismo nel cammino di Colum McCann attraverso i bassifondi, peraltro aggiornati con un’ideale connessione tra New York e New Orleans nella comune tragedia (il romanzo si conclude nel 2006): Questo bacio vada al mondo è un romanzo fuzzy che sovrappone figure geometriche in contrasto (le parallele, le perpendicolari e le verticali della città con la circolarità delle singole storie che si inanellano l’una nell’altra) lasciando una vaga sensazione di vuoto, alla fine, quando l’equilibrio si spezza nel tempo perché “il mondo è un posto che vallo a capire” e anche la letteratura, a volte, è figlia del caos.
giovedì 20 ottobre 2011
Jay McInerney
sabato 15 ottobre 2011
Paul Bowles
Tangeri è stato il covo, il rifugio della Beat Generation, uno dei punti cardinali del movimento a cui facevano riferimento tutti, da William Burroughs a Jack Kerouac. La spiaggia dell’oceano sul versante opposto e il dettaglio cosmopolita, insieme all’India, alle fughe nel Mediterraneo e ai viaggi di scoperta nelle giungle tropicali è stato un polo magnetico, ma nella Messa di mezzanotte di Paul Bowles è soltanto un punto di partenza, anche se l’aria di averla conosciuta e compresa più di tutti. Il Marocco che introduce Messa di mezzanotte non è un luogo della mente e nemmeno il dedalo di vicoli in cui barattare tutto, persino l’anima. Si scopre, mentre si levve Qui per imparare che “era un paese derelitto; aveva l’odore della povertà nella quale i suoi residenti erano abituati a vivere. Né c’era segno che in un tempo passato ci fosse stato qualcosa di più. Il vento che proveniva dal mare sollevava in alto la polvere dalle strade per scagliarla poi rabbiosamente sulla campagna. Perfino le foglie degli alberi di fico erano coperte da una patina bianca”. In Qui per imparare la storia di Malika, che dopo aver viaggiato e toccato il lusso ai quattro angoli del mondo, torna in Marocco per trovare una discarica al posto della sua casa, ed è quando comincia a comprendere “la vera dimensione della propria ignoranza”. A parte Qui per imparare, che è una bozza di romanzo a tutti gli effetti, tutti i racconti di Messa di mezzanotte sono brevissimi ed eterogenei anche se in gran parte derivati dall’esperienza marocchina di Paul Bowles. Tra questi, spicca la perfezione di Madame e Ahmed, un racconto di quattro pagine con altrettanti personaggi che si muovono con la precisione di un cronometro. Anche frammenti come Bouayad e i soldi o Il marito che sembra essere più frutto dell’ascolto, di storie sentite, piuttosto che di invenzione, sono cesellati con pochi passaggi semplici e diretti che tendono ad accomunare i racconti attorno a un paio di temi ricorrenti. L’inganno e il sotterfugio spesso mettono in risalto in contrasto tra la tradizione e la modernità, come succede in modo evidente in L’amuleto vuoto. La conoscenza della cultura, degli usi e dei costumi nonché della storia del Marocco permette a Paul Bowles di raccontare con estrema disinvoltura le vicende famigliari che, quasi sempre, hanno come protagoniste le donne, e la loro condizione. Le donne al centro dell’attenzione sono risolutive nell’evolversi delle storie e sono determinanti anche nell’ambientazione occidentale di Kitty. La curiosa metamorfosi avviene tutta attraverso gli occhi dei personaggi femminili che Paul Bowles racconta con una grazia tutta sua. In apparenza Kitty è un episodio incongruo rispetto agli altri capitoli di Messa di mezzanotte e sembra un bizzarro esercizio di stile o una divagazione psichedelica degna di Lewis Carroll (qualche debito si nota) eppure Paul Bowles lo risolve con un tono sornione e divertito tra il surreale e il naïf che risulta subito accattivante. E’ spiazzante, ma funziona.
giovedì 13 ottobre 2011
Chuck Kinder
Eccessivo, generoso nello scoprirsi senza esitazioni, Chuck Kinder appartiene alla categoria di quei narratori che fuggono ogni definizione, outsider per scelta e per natura le cui vite collimano con quelle dei loro personaggi, “sopravvissuti in fuga che vivono in una sorta di indefinito assedio onirico”. Il suo vagabondare con L’ultimo danzatore di montagna conosciuto anche come Jessico White all’inseguimento delle “le vite segrete di Elvis” gli permette di snocciolare una storia “all american” che serpeggia attraverso i territori più ostici dell’unione svelando molto di quel “white trash” che è uno dei colori meno conosciuti della babele americana. Lo fa con ironia, lasciando scorrere un nome dopo l’altro in modo caotico e disordinato. Jack Kerouac e Jerry Lee Lewis, James Dickey e John Sayles e Willie Nelson, Wes Craven e Mark Twain e Flannery O’Connor: le disgressioni sono continue, anche se almeno due punti di riferimento sono saldi e costanti per tutto L’ultimo danzatore di montagna. Il primo è Hank Williams, eroe maledetto ed epigone del “white trash” che nel romanzo di Chuck Kinder è una voce che appare e scompare dalla radio, come se a intervalli regolari dovesse indirizzare il viaggio e, forse anche il senso racconto. Hank Williams gli serve a restare ancorato alla terra e alla sua missione perché Chuck Kinder è uno scrittore a tutto tondo, uno storyteller con la vocazione per l’iperbole, capace di lasciarsi trascinare dai momentanei flussi di coscienza: “Tutto è possibile, almeno una volta, perché il prezzo da pagare per essere disposti a rischiare tutto, compresa la vita, è alto, ma che me ne importava, immerso com’ero nella dolce inebriante anarchia della giovinezza, nella ricerca dell’amore e della leggenda? Un’altra cosa intuii, in quel momento in cui mi sentivo come se fossi insieme alla fine e sulla soglia di tutto. Che quel momento magicamente carico di aspettative era probabilmente il punto più alto della mia vita”. L’altro snodo fondamentale per L’ultimo danzatore di montagna è naturalmente Elvis, un’icona che ha prodotto una quantità infinita di sogni: come direbbe Jessico White “se osi vivere una vita pericolosa e leggendaria allora tutto è possibile”. Si tratta di due fantasmi, comunque, per cui la storia scorre vorticosa, rigogliosa, senza soluzione di continuità e avvolta nel mistero di una fede tribale e pagana. Non essendoci una vera e propria trama, se non le avventure picaresche con Jessico White, alla fine la ricerca del tempo perduto di Chuck Kinder si rivela in un’epifania che da sola spiega il senso di tutti i rock’n’roll dream: “Ed ecco che mi sentii attraversato da una sensazione di benessere, un senso di antica forza e determinazione, insieme a un senso inesprimibile, dolce aspettativa, e di felicità, una strana e misteriosa felicità, e per qualche breve istante la vita mi sembrò incantata, miracolosa, intrisa di intensi significati. Per pochi istanti mi sentii come il giovane, bellissimo Elvis sul tetto del mondo”. Trascinante.
Theodore Dreiser
Agli albori della cultura popolare americana, Theodore e Paul Dreiser si trovano su due fronti opposti e contigui. Theodore Dreiser è uno scrittore e un reporter che sta generando l’essenza di un linguaggio. Un pioniere, in fondo, che non avrà la fortuna di comprendere la qualità delle sue scoperte. Paul Dreiser conosciuto con il nome di Paul Dresser come attore, songwriter ed editore è un uomo di mondo “dotato di una specie di genio lieve, non gravato dalla pensosità di un temperamento riflessivo, ma caldo e genuinamente tenero, con un gusto per quella bellezza semplice che maggiormente è in grado di suscitare emozioni”. Insieme scrissero in modo piuttosto rocambolesco una ballata, On The Banks Of Wabash, Far Away, destinata a diventare uno dei primi e più consistenti hit di Tin Pan Alley. La canzone, anche soltanto per restare fedeli al titolo, è un po’ lo spartiacque di Piangeremo per questi sogni? che è, in fondo, una storia autobiografica di ambizione, talento e di quella “ricerca della felicità” che è una vocazione (quasi) istituzionale dell’identità americana. Theodore Dreiser racconta la vita del fratello e insieme il nascere e il proliferare della cultura popolare, dal vaudeville al minstrel show, fino a Broadway. Il successo è alterno perché se la figura di Paul Dresser è volitiva, generosa, coraggiosa, l’altra metà è fragile, ingenua e superstiziosa. Paul Dresser non tollera il numero 13 (e i suoi multipli) e quando vede un cappello sul suo letto ci legge una premonizione fatale. La “tragedia americana” è una sorta di scambio che i fratelli Dreiser alternano con il più classico degli american dream, palleggiandosi di volta in volta il ruolo di perdente: all’inizio è Theodore, intristito dai suoi insuccessi e dalla difficoltà di trovare una sua voce, a essere salvato nelle strade di New York dalla carrozza del fratello; poi sarà Paul a dover scontare la propria incapacità di gestire il successo e a soccombere ai lati più ombrosi e tentennanti del proprio carattere. Il fratello lo descrive così: “La sua era una di quelle indoli semplici, fiduciose, non indurite, calorosa e variegata, ma intensamente sensibile, e facilmente e fatalmente soggetta alle raffiche gelide delle difficoltà umane, per lievi che siano”. Anche se la scrittura di Theodore Dreiser è florida nei dettagli (le sue descrizioni di Broadway e della New York del diciannovesimo secolo sono più nitide delle fotografie dell’epoca) e accorato nel tono la sua analisi della parabola del fratello è ferma e impietosa: “Per quanto irreale possa sembrare, essere tagliati fuori da quel mondo luminoso di cui lui si considerava una figura essenziale era quasi insopportabile”. Piangeremo per questi sogni? è un piccolo capolavoro di concentrazione perché nel ridotto spazio di un racconto e senza sprecare una parola di troppo, Theodore Dreiser riesce a farci abitare un’epoca, ci fa scoprire alcuni elementi fondamentali della cultura americana e spiega dove può portare “il tentativo di essere felici”. Non si può chiedere di più.
mercoledì 12 ottobre 2011
Joseph Heller
martedì 11 ottobre 2011
H. D. Thoreau
“Comporterebbe la rigenerazione dell’umanità, se ci si elevasse tanto da venerare sinceramente tronchi e pietre” scriveva H. D. Thoreau il 30 agosto 1856. Il suo diario (i suoi Journal, qui ripresi) ancora più di Walden raccontano la contemplazione, il senso di attenzione e discrezione su cui ha costruito il suo “agire nel mondo” che è soprattutto un pensare, un credere ed esistere che è figlio della meditazione e della riflessione. L’elevazione parte da un fiducia estrema e totale nei suoi strumenti preferiti, l’osservazione, la scrittura, il pensiero che H. D. Thoreau celebra così: “Siamo armati del linguaggio adeguato per descrivere ogni foglia nel campo, o almeno per distinguerle fra loro, ma non per descrivere un carattere umano, descriviamo gli uomini con una vaghezza e una confusione ugualmente meravigliose”. Il legame tra notizia e percezione, tra descrizione e interpretazione è sviscerato in modo appassionato e florido perché “un fatto puramente enunciato è arido. Deve essere il veicolo di un po’ di umanità per interessarci. E’ come dare una pietra a un uomo, quando vi chiede del pane. In fondo, la morale è complessiva, e non ci disturba se la verità inferiore viene sacrificata a quella superiore, come quando il moralista crea fiabe e fa parlare e agire gli animali come gli uomini. La morale deve essere calda, umida, incarnata, deve almeno aver ricevuto il soffio. Un uomo che non ha sentito una cosa, non l’ha vista”. Come contrappunto è curioso e interessante citare l’opinione di William Fense Weaver che a proposito del sentire e vedere di Walden diceva in un’intervista: “C’è un pezzo scritto da Henry David Thoreau in cui descrive il risveglio dopo una notte di neve: dentro la casa e senza aprire la finestra, lui ha già capito che c’è la neve fuori dalla qualità del silenzio, dalla qualità di quel po’ di luce che trapela, dalla qualità di rumori che fanno gli animali e sono due o tre pagine di pura magia. Quasi senza aprire gli occhi”. L’assemblaggio delle pagine di diario che prende una sua forma con L’agire nel mondo sembra rispecchiare proprio quell’attitudine alla conoscenza che non cresce “per inferenza e deduzione, né con l’applicazione della matematica alla filosofia, ma attraverso il rapporto diretto e l’affinità”. E’ una dimensione che esige formule speciali, soprattutto per chi ha il compito di agire che tradotto nello specifico vuol dire scrivere. Secondo H. D. Thoreau “uno scrittore, un uomo che scrive, è lo scriba di tutta la natura, egli è il grano, l’erba e l’atmosfera che scrivono. E’ sempre fondamentale amare ciò che stiamo facendo, che lo facciamo col cuore”, e il rapporto con la wilderness, con il silenzio, con l’osservazione quotidiana di eventi infiniti e infinitesimali sono lo scopo essenziale per comprendere che il sapere, l’agire nel mondo è sempre la maturazione di una scoperta, è la vocazione per l’insolito, è la piccola nota che si vede senza sentirla, è il dettaglio che si sente senza vederlo, è dimenticare tutto quello che si è imparato, e ricominciare, di nuovo.
Don DeLillo
lunedì 10 ottobre 2011
Jack Kerouac
Viaggiatore solitario assembla racconti di molte odissee, il più delle volte in “un’America senza fine” e quasi sempre immaginando altri percorsi, senza badare alle destinazioni o alle spese, visto che Jack Kerouac dice: “Avevo risparmiato su ogni centesimo e poi all’improvviso decisi di sperperare tutti i risparmi in un grande glorioso viaggio in Europa o in qualsiasi altro posto, e mi sentivo leggero e contento, anche”. Nella sua varietà, Viaggiatore solitario è un vecchio bagaglio inesplorato che contiene una moltitudine di ritratti, come la lunga e splendida definizione di hobo, forse la più pittoresca e pertinente in assoluto: “L’hobo è figlio dell’orgoglio, non ha niente da spartire con la comunità ma solo con se stesso, gli altri hobos e forse un cane. Gli hobos vicino alle banchine ferroviarie di notte si preparano enormi latte di caffè. Orgoglio era la via che l’hobo percorreva nelle città vicino alle porte di servizio dove, sui davanzali delle finestre, si stavano raffreddando le torte, l’hobo era un lebbroso mentale, non aveva bisogno di mendicare per mangiare, forti ossute madri del West riconoscevano la sua barba tintinnante e la toga stracciata, vieni e serviti!”, ed è soltanto una piccola parte delle riflessioni elargite da un Jack Kerouac saggio & maturo. La strada rimane la via principale (“Sulla strada è di nuovo tutto perfetto, il mondo è permeato di rose di felicità, ma nessuno di noi lo sa. La felicità consiste nel capire che tutto ciò è un grande sogno strano”), ma c’è molta disobbedienza e c’è molto Walden in questo Viaggiatore solitario in modo implicito (quando dice: “Dopo tutto ‘sto casino, e via dicendo, arrivati al punto che avevo bisogno di un po’ di solitudine proprio per fermare il meccanismo di pensare e godere che chiamano vita; avevo bisogno di stendermi sull’erba e guardare le nuvole”) o più esplicito quando confessa l’aspirazione di “vivere in solitudine nei boschi, tranquilla scrittura della vecchiaia, dolci speranze di paradiso (che in ogni caso arriva per tutti)”. Non è tutto perché il fine si nasconde in “una confusione di vita così come è stata vissuta da un indipendente educato senza una lira scapestrato che va dovunque. Lo scopo e l’intenzione è semplicemente la poesia, o, le descrizioni naturali” dove il racconto diventa meraviglia per il jazz, e ancora per la strada e per la vita consumata senza timori, nell’entusiasmo di mille follie e di un’infinità di “espedienti d’emergenza e idee personali. Tra le descrizioni del Viaggiatore solitario va annoverata anche quella autobiografica, poche righe che Jack Kerouac butta lì, per raccontare tutta la sua storia: “Ho sempre considerato lo scrivere il mio dovere. Oltre la predicazione della gentilezza universale, di cui gli isterici critici non si sono accorti, presi come erano a parlare della frenetica attività dei miei romanzi veritieri sulla Beat Generation. Attualmente non sono beat ma uno strano solitario pazzo mistico cattolico”. E’ un frammento, è perfetto.