Mike
Davis parte da molto lontano a delineare quella che chiama La
dialettica del banale disastro,
dove per comune e consolidata accezione un disastro non è mai
banale, è (o, almeno, dovrebbe essere) sempre eccezionale.
L’ossimoro in sé è usato da Mike Davis per spiegare, anzi, per
introdurre le Geografie
della paura da
un versante inaspettato, quello delle parole, della percezione, della
comunicazione, delle ricostruzioni e delle leggende. Cataclismi,
alluvioni, siccità, incendi, tornado, fenomeni climatici estremi,
rari o frequenti che siano, non sono allineati uno dopo l’altro per
evocare chissà giudizio universale o fine del mondo che sia, ma per
sottolineare come l’intervento umano alias l’urbanizzazione a
tappe forzate abbia generato un’aberrazione del luogo nella forma
di una città che non è una città ovvero è diventata “un falso
paesaggio che celebrava una storia fittizia”. La diretta
conseguenza di questo primo salto carpiato nella dialettica è che
“la costruzione del disastro naturale è
in gran parte celata da un modo di pensare che al tempo stesso impone
false aspettative sull’ambiente e quindi giustifica le delusioni
inevitabili come altrettante dimostrazioni di una natura maligna e
ostile”. Più chiaro di così, è impossibile ed è Los Angeles la
dimostrazione di come “l’umanità ha conquistato la natura invece
di adattarcisi”, una definizione di Richard Lillard che d’altra
parte collima con “la sensazione di un disastro imminente”
evocata da Stephen Pyne. La sensazione è confermata dall’imponente
ricerca, dalla mole delle statistiche e dal rigore delle analisi che
porta Mike Davis a sostenere: “che la paranoia riguardo la natura
distoglie l’attenzione dei più dall’ovvio dato che Los Angeles
si sia messa volutamente sulla traiettoria dei guai. Per generazioni
intere l’urbanizzazione spinta dagli interessi di mercato ha
dimenticato ogni buon senso ambientale”. Guardandolo dall’alto,
lo “sprawl urbano” richiamato da William Whyte, non è soltanto
la dispersione senza coordinate, pianificazioni o confini della
metropoli. E’ una sorta di deprivazione sensoriale dell’essenza
del territorio, che introduce quella pericolosa ambiguità che
Kenneth Hewitt riassume così: “La maggior parte dei disastri
naturali costituisce un aspetto caratteristico e tutt’altro che
accidentale dei luoghi e delle società in cui si verifica”. Va
compreso nel contesto anche il rapporto con la flora e la fauna
perché l’ecosistema californiano come scriveva Carey McWilliams è
“un’isola sulla terra”, con tutto quanto ne consegue. Se
l’allevamento, la caccia e più in generale la convivenza con il
resto del mondo animale ricorda i romanzi di Cormac McCarthy
o Butcher’s
Crossing di
John Williams o Il
figlio di
Philipp Meyer, ci sono variazioni sensibili e imprevedibili: “Il
terrore da puma, panici simili di fronte a serpenti sulla spiaggia e
altri strani fenomeni paranaturali (compresi i coyote mangiarifiuti,
gli orsi neri nelle vasche da bagno, gli scoiattoli apportatori di
epidemie, le api assassine e anche i vampiri succhiacapre), deve
essere preso sul serio in quanto sintomo di una crisi più ampia tra
la metropoli e il suo ambiente”. Non di meno il rapporto tra gli
esseri umani, visto che tra le Geografie
della paura viene
inserito anche l’allarmante demografia della popolazione
carceraria. Le condizioni dei detenuti, il peso dell’istituzione in
sé sui bilanci, l’intervento privato (anche in un campo molto
delicato come l’amministrazione della giustizia) e la
militarizzazione dell’ambiente si pongono come ultime e definitive
traduzioni delle Geografie
della paura che
alla fine sono riassunte da Jeff Unruh in una verità che appare
persino ovvia: “La topografia non è un caso”. La distopia di Los
Angeles diventa comprensibile allora solo attraverso la fantascienza,
ovvero Blade
Runner,
ma la spettacolarizzazione dei disastri (siamo a Hollywood, dopo
tutto) non è solo la versione fiction delle Geografie
della paura,
perché come precisa Mike Davis, “l’industria dello spettacolo ha
invertito la decadenza del vecchio splendore in un nuovo splendore
della decadenza”. Nel finale si concede anche una postilla
vagamente poetica, ma non meno drammatica nel ricordare che Los
Angeles vista dal satellite nella primavera del 1992 era “un’anomalia
termica”. E’ lì, in quelle Geografie
della paura,
che si discute addirittura se non sia il caso di privatizzare
l’industria degli incendi, perché certe logiche non si fermano
davanti a niente, nemmeno di fronte all’apocalisse.
mercoledì 25 gennaio 2017
domenica 22 gennaio 2017
Henry Miller
Propiziato
da Anaïs Nin, siglato con il dono di Seraphita di Balzac,
l’incontro tra Conrad Moricand e Henry Miller condensa e celebra un
momento singolare nella storia della cultura occidentale. A Parigi,
su cui incombeva l’avvento della seconda guerra mondiale, si era
data convegno una variopinta umanità con lo scopo (nel caso ne
servisse uno) di “rovesciare i valori costituiti, del fare del caos
che lo circonda un suo ordine che sia il suo proprio, di seminar
fermento e discordie sì che, per un rilancio emotivo, quelli che
sono morti possano essere restituiti alla vita”. Lo stesso Henry
Miller si considerava “un espatriato da Brooklyn, un francofilo, un
vagabondo, uno scrittore appena all’inizio della carriera, ingenuo,
entusiasta, assorbente come una spugna, pieno di interesse per ogni
cosa e, in apparenza, privo d’ogni paura”. Con Moricand nacque
un’istintiva complicità, dovuta alla comune passione per i voli
pindarici, per la fame di arte, in tutte le sue forme, e per una
concezione della vita libera da regole e luoghi comuni. Parigi
combacia in gran parte con il Paradiso perduto, dove Moricand
vede in Henry Miller, “un angelo circondato dalla fiamme”. E’
un’immagine che rende l’idea di “sfruttare al massimo la
situazione! Ed era quello che facevamo, noi che tenevamo duro fino al
colpo di sirena dell’ultima nave”. Ormai è questione di
settimane e con un saggia decisione Henry Miller (“Non aspetto che
gli unni vengano a scovarmi”) se ne va in Grecia, ultima tappa
prima di tornare all’incubo ad aria condizionata. Negli anni del
conflitto, Moricand resta in Francia, solo e stremato, finché, una
volta finita la guerra, Henry Miller non lo invita in America. Il
libro in sé è inconcludente nell’elencare le traversie della vita
dissoluta di Conrad Moricand e della sua permanenza a Big Sur che (a
dispetto della sua fama) non è mai stato un luogo agevole. Detto
questo, Moricand è anche l’archetipo di un mondo dove la
dimensione dell’arte permea qualsiasi cosa diventando “un
enchaînement che non era solo stimolante ed eccitante ma
spesso allucinante”. E’ un elemento del Paradiso perduto
che peserà: Conrad Moricand è un ospite complicato, è assorbito
dall’astrologia e dall’occultismo, ossessionato dalle espressioni
artistiche non di meno che dall’ozio. Ha il suo bagaglio di
idiosincrasie e l’America, una volta smaltita la sbornia, diventa
una gabbia. Comincia a diventare scomodo e irritante, anche perché
Henry Miller ha libri da scrivere e una famiglia (tutto sommato) da
mandare avanti. Il confronto è serrato, cerca di rispondere, dove
può, alle richieste di Moricand, fornendogli, oltre al sostentamento
essenziale, quelle piccole cose (le sigarette, il vino) che non fanno
altro che acuire la nostalgia per quel Paradiso perduto che
era quella Parigi, e che ormai non c’è più. Miller se ne
rende conto perché dice: “E’ solo quando smettiamo di cercar di
vedere, quando smettiamo di cercar di sapere, che vediamo e sappiamo
sul serio”. In una giornata radiosa si confrontano di fronte
all’oceano e Moricand gli dice che gli “manca il marciapiede
sotto le suole”, che si sente un recluso, che soffre l’allergia e
via via sfodera un lungo cahier de doléances. La risposta,
nonostante l’energia profusa, è insoddisfacente, ma è evidente
che Miller aveva preso coscienza che un’epoca era finita, che ormai
stava cambiando tutto, e gli dice, tra l’altro: “Al mondo non c’è
niente che non va. Quello che non va è il modo in cui noi lo
guardiamo”. Troppo poco per Moricand che se ne andrà tra mille
peripezie, insistenti richieste di denaro e di supporto e un (altro)
paradiso perduto per sempre. Come riassume Arthur Hoyle nella
biografia di Henry Miller, “alla fine Moricand fu arrestato
dall’ufficio immigrazione degli Stati Uniti e rimpatriato
nell’autunno 1949; morì cinque anni dopo a Parigi, ma non prima di
aver pubblicato altri strali contro Miller in Francia”, comunque
ormai “solo come un topo, nudo come l’ultimo dei clochard”,
come scrisse Théopile Briant, l’unico amico che gli era rimasto.
giovedì 19 gennaio 2017
James Ellroy
James
Ellroy sguazza con perfida allegria nelle nuove e antiche paure
riemerse dopo l’11 settembre 2001. Gli viene spontaneo e naturale
ambientare la Jungletown Jihad nel
substrato di una città che in effetti non è una città, è
un’espressione senza forma di una moltitudine di ghetti e
roccaforti. La sua conoscenza della street life di Los Angeles gli
permette di muoversi a suo agio, e non solo, perché James Ellroy
traduce in narrativa, nella sua singolare, sincopata e brutale
narrativa, quelli che Mike Davis in Geografie
della paura chiama Impulsi
omicidi e panorami in fiamme, come
se le pulsioni di un’intera una “metropoli in fase esplosiva”,
come la definiva William Whyte filtrassero attraverso il terreno e
contaminassero le persone e i personaggi. L’impatto, va da sé, è
durissimo: le contrazioni di una lingua che, strapazzata e storpiata
pezzo per pezzo, parola per parola, diventa gergo, slang, invettiva
collimano alla perfezione con la trama psicotica di Jungletown
Jihad. Succede che Rick Jenson
scomodo detective del dipartimento di di Los Angeles incrocia un
contorto progetto terroristico finanziato dal mercato pornografico
nelle sue peggiori perversioni. Siamo a Hollywood, dopo tutto, e il
mondo fittizio e surreale del cinema (dove nel frattempo stanno
provando a mettere in piedi un film su Ann Sexton) è comunque
un’altra forma di vita rispetto al resto del pianeta. Rick Jenson
non ci casca, si difende con metodi meno che ortodossi e men che meno
istituzionali, ripara da Donna Dohanue, una femme fatale tra le più
in vista di sempre nella fiction di James Ellroy e non fa distinzioni
tra “delitti ignobili” che abbiano non abbiano una matrice
politica. Nella sua immaginazione sono tutti “farabutti con fini
criminali” e James Ellroy non restano alternative se non
crogiolarsi nell’infimo e alzare il tiro: il racconto è
scorticato, le frasi sono bruciate e masticate, il tono è per niente
corretto, anzi, è più spudorato che mai. La considerazione nei
confronti dei connazionali (per non dire del resto dell’umanità) è
al minimo storico, il diluvio di alcol e droghe inarrestabile, lo
svolgimento brutale, tambureggiante, senza respiro. Se lo si
asseconda, Jungletown Jihad può
anche considerarsi un’apoteosi nello stile di James Ellroy con i
suoi sarcastici neologismi, la sua sprezzante disposizione verso
regole, limiti e definizioni. Ovvero una logica autocelebrazione di
James Ellroy, solo che Jungletown
Jihad annuncia molto, forse troppo
perché rimane inchiodato sul punto: la storia sembra contorcersi su
se stessa, elenca con una frenesia cinematografica (e anche con una
certa fretta) i movimenti nelle strade, poi torna con insistenza a
Rick Jenson e a Donna Dohanue, come se ci fosse qualcos’altro da
raccontare che però deve essere andato perso nelle strade di Los
Angeles. Pare evidente che la forma ridotta di Jungletown
Jihad non è sufficiente: James
Ellory ha bisogno di molto più spazio e di molto più tempo per
avvelenare e ipnotizzare il lettore a cui, in questo caso, resta
soltanto un’indefinita sensazione di incompiutezza.
sabato 14 gennaio 2017
Andre Dubus
Nei
Voli separati di Andre Dubus, la sua prima raccolta di
racconti, di fatto un esordio, sono tutti fuori posto, ma in qualche
modo si accertano di avere un margine di manovra, per quanto minimo.
Vorrebbero avere il “cuore leggero”, ma in si scontrano sempre
con un ostacolo imprevisto o si trovano incastrati in “ostinati
cerchi concentrici di delusione e amarezza”, perché “la forza
centrifuga della loro evasione li porta sempre più lontani dal
centro di se stessi”. La definizione geometrica ha un suo senso.
Quando, nel racconto che presta il titolo alla raccolta, uno dei
protagonisti dice che è “meglio giocarsi una vita alla volta che
non tutte e due insieme”, in riferimento (appunto) ai Voli
separati, diventa chiara la connessione, la rete invisibile che
lega i racconti. Non è soltanto perché i protagonisti tendono a
sovrapporsi, fluttuando da una storia all’altra, come Miranda in
Affondando e poi in Miranda sulla valle, o scambiandosi
un tema sensibile come la masturbazione (maschile) in Se
conoscessero Yvonne e quella (femminile) ancora in Voli
separati, ma perché, come dice Andre Dubus, “tutte le storie
iniziano da un dolore personale, autobiografico, che vuoi raccontare,
e poi, mentre lo racconti, la storia, certe azioni, cambiano, e i
personaggi diventano loro stessi e non ti appartengono più. Così
finisci per avere una prospettiva diversa”. L’archetipo è Il
disertore che sintetizza un vasto elenco di tradimenti,
separazioni, fratture, poi delineato in abbondanza nelle storie
successive. In particolare, per Il disertore c’è una
rottura multipla: con la moglie, con la famiglia, con il corpo dei
marines, con l’amante e per finire con se stesso. Nello stesso
modo, la precisione, “come in Faulkner”, di Nella mia vita
decide il registro generale di Voli separati perché,
nonostante la trama drammatica (uno stupro, una condanna a morte), è
la celebrazione del senso di Andre Dubus per le luci. Un’ossessione
che annota con metodo e scrupolo tutte le sfumature dell’alba e del
tramonto che entrano nelle case, tutti i filamenti naturali o
artificiali che filtrano all’inizio o alla fine della notte.
L’occhio di Andre Dubus non vede solo le luci: sa delineare anche
le ombre, le identifica una dopo l’altra, le colloca, le ritaglia.
E’ uno scrittore capace di infondere più dimensioni alla storia
pur tenendo la trama sempre in evidenza, in superficie, davanti a
tutto, senza una divagazione inutile o posticcia. Ci sono lunghi
passaggi, in tutti i racconti di Voli separati, dedicati ai
riflessi, alle varianti e alle angolazioni che, in fondo, sono
soprattutto modi per ricordare che “l’amore è anche tempo”. I
racconti sono lancinanti e nella loro rappresentazione delle “guerre
periferiche” tra mogli, mariti e amanti, Andre Dubus si concede “un
distacco che diventa lussuria”. Nel senso che la sua posizione
ravvicinata, meticolosa, lo porta prima a maneggiare l’intersecarsi
dei rapporti, quasi a scioglierne i nodi inestricabili, poi lo vede
tuffarsi dentro senza risparmiare nulla ai suoi personaggi e di fatto
neanche a se stesso. Le sofferenze sono palesi, scoppiano nelle
pagine, perché la scrittura di Andre Dubus procede a scatti, furiosa
e sincopata come i movimenti dei suoi personaggi. Tutto ciò basta e
avanza, ma poi la progressione matematica culmina in quello che sta
già diventando un romanzo vero e proprio, Non abitiamo più qui.
Un racconto straziante nell’intreccio tra due coppie di coniugi e
amanti, un’equazione che non riesce, un diluvio di alcol e
malinconia invernale. Per inciso, la sequenza dei lavori domestici
all’inizio di Non abitiamo più qui è quasi rap ed è
qualcosa di travolgente, almeno quanto una scena muta, con un gorilla
che fa rimbalzare la tristezza sulla pagina. Il ritmo è costante: un
battito insistente, modulato con cura, ma anche con una spontanea
aderenza agli eventi e alle contorsioni dei suoi protagonisti,
travolti dal desiderio prima e dal rimpianto poi. Dove non arriva la
luce, arriva la musica: Hank Williams (alla radio) e poi soprattutto
i dischi, Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Janis Joplin, Paul McCartney,
Crosby, Stills, Nash & Young, Judy Collins, Joan Baez, Simon &
Garfunkel, Beatles, Rolling Stones. In questo Voli separati è
coetaneo e coincide (e non soltanto per la colonna sonora) con le
Gelide scene d’inverno di Ann Beattie, annata di gran
classe, quella del 1975. Con la sublime differenza di Cannonball
Adderley, che doveva essere il protagonista di una serata di Jack,
Terry, Edith, Hank in Non abitiamo più qui. Andre Dubus non
la cita, ma la sua Mercy, Mercy, Mercy resta pur sempre la
miglior dedica possibile, valida per ogni cuore spezzato, e per tutti
i Voli separati.
martedì 10 gennaio 2017
Harry Smith
Personaggio
eclettico, eccentrico ed esoterico, Harry Smith è stato un mago
(davvero) ma senza trucchi o effetti speciali, soltanto il gusto e
l’istinto dnel seguire il proprio pensiero, in tutte le
divagazioni, le allucinazioni, le visioni possibili. Nella sua
dimensione di ricercatore disordinato, di bricoleur imperfetto, di
filmaker a corto di budget, di intellettuale senza definizione e
senza schema viene incanalata un modello di conoscenza non
accademica, non razionale, non raziocinante, non finalizzata a una
produzione. Era incomprensibile allora, figurarsi oggi e infatti uno
che l’ha conosciuto bene, il fotografo Robert Frank, ha detto: “Era
avanti a tutto e a tutti”. Nel caos primordiale di Harry Smith c’è
vitalità, c’è stupore, incontaminato e naïf
finché si vuole, ma molto creativo nella sua artistica percezione
dell’esistenza. Lo spirito dell’improvvisazione si nota
nell’immagine di Harry Smith che tiene il tempo di Thelonious Monk
cercando di ricostruirlo battuta per battuta (auguri). Lo si vede
anche nella fantasmagorica eredità che si è lasciato alle spalle
perché Harry Smith è stato soprattutto un
collezionista. Ha raccolto di tutto, e senza una particolare
giustificazione scientifica o storica: “Lascerò al futuro
il compito di capire il significato di tutte queste uova, delle
coperte, dei patchwork dei seminole che non guardo mai, e i dischi
che non ascolto mai. Comunque è giustificabile quanto qualcosa che
si fa, quanto qualsiasi tipo di ricerca, ed è più giustificabile di
cose più violente, come litigare con qualcuno, o diventare un
pescatore per l'esportazione. E' un modo di ingannare il tempo nel
modo più innocuo possibile, in modo non violento. Se qualcuno vuole
essere violento, lo avviso dei cinquemila dollari di uova fradice,
pronte ad esplodere. Non deve esserci violenza qui”. Bisogna però
notare che proprio dai suoi bizzarri archivi discografici è
scaturita l’Anthology of American Folk Music, la pietra
d’angolo della riscoperta della tradizione della cultura popolare
americana. Un ingente patrimonio che ha determinato una svolta
importantissima e una fonte inesauribile di sollecitazioni, a cui
tutti hanno attinto. E’ senza dubbio il risultato più eclatante
ottenuto dalle sue stravaganti collezioni e ricerche (per la cronaca
la ristampa ha vinto un Grammy nel 1991), ma American Magus,
pur con il suo carattere variopinto (dalle interviste alle note di
copertina dell’Anthology, contiene moltitudini), rende
omaggio a tutta la complessità di un personaggio la cui importanza è
ancora in gran parte oscura e inesplorata. Non vedendo distinzione
tra arte e vita, era brillante anche nel suo candore, quando scriveva
in un nota al Catalogo N. 3 della Film-Maker’s Cooperative,
1965: “Per coloro che sono interessati a questi film: dal N. 1
al N. 5 vennero fatti sotto l’effetto dell’erba; il N.
6 con eroina (faceva splendere il sole) e stimolanti; il N. 7
con cocaina e stimolanti; dal N. 8 al N. 12 con quasi
tutto, ma principalmente in uno stato di veglia allucinata, e il N.
13 con pillole verdi avute da Max Jacobson, pillole rosa da Tim
Leary, e vodka; il N. 14 con vodka e porto bianco
italo-svizzero”. Se ne è andato in una camera del Chelsea Hotel,
naturalmente. Facile condividere la comprensione e l’affetto di
Allen Ginsberg (più di tutti), Jerry Garcia e Bob Dylan che attinse
dall’Anthology of American Folk Music e forse ne comprese la
portata più di chiunque. Harry Smith non ricambiò molto la stima.
Una notte, proprio a casa di Allen Ginsberg che lo ospitava, sbatté
la porta chiedendo a Dylan di smettere di far rumore. L’aneddoto,
confermato dai presenti, oltre a essere emblematico degli sbalzi
d’umore di Harry Smith, è curioso perché Dylan stava facendo
ascoltare Empire Burlesque. Forse Harry Smith non aveva tutti
i torti, anche perché il titolo, a ben vedere, sembra fatto su
misura per lui.
sabato 7 gennaio 2017
Flannery O'Connor
Nella
perfezione dell’incipit, Il cielo è dei
violenti trova subito una collocazione
precisa e inevitabile: l’ambientazione rurale (il campo di
granoturco), la povertà come una condizione rigida, in cui si svolge
tutto, in particolare dove “Tarwater portava il suo isolamento come
una cappa, se l’avvolgeva addosso quasi fosse un segno distintivo
di elezione”. Tarwater è cresciuto con un vecchio ossessionato
dalla fede e dalle sue visioni che, alla sua morte, ricorda solo che
un profeta serve “a riconoscere che qualcuno è un asino o una
puttana”. Flannery O’Connor è (quasi) blasfema quando dice che
“il mondo è stato creato per i morti”, ma d’altra parte è
altrettanto credibile quando ne consegue che: a) “nessuno è più
povero dei morti”, e che, soprattutto, b): “ci sono un milione di
volte più morti che vivi, e i morti restano morti milioni d’anni
più di quanto i vivi restino vivi”. Ecco che Tarwater prova a
“scavare la fossa sotto il fico perché il vecchio avrebbe fatto
bene ai fichi”, ma non riuscendo a completare l’opera, incendia
la misera casupola in mezzo ai boschi, con il cadavere e i suoi ormai
inutili arnesi. Quando bussa alla porta di Rayber, il maestro che
vive con Bishop, un figlio menomato, sgorga un complessa
triangolazione tra l’ombra del vecchio, il maestro e lo stesso
Tarwater, su cui grava il rilevante peso di scelte inevitabili, delle
costrizioni della vita e di un feroce scontro tra fede e ragione, tra
mistero e dubbio. Il cielo è violento
è un capolavoro livido ed estremo: le contorsioni di un linguaggio
umile, economico, con un vocabolario limitato, eppure espressivo e
fortissimo nel rappresentare i contrasti tra i protagonisti almeno
quanto i loro conflitti interiori. “Sono soltanto parole”, ma le
profezie (da un parte) non meno dei test e delle analisi (dall’altra)
conducono alla privazione, allo strazio, alla follia e nella
costruzione di Flannery O’Connor hanno una forza ipnotica, proprio
nel suo calibrare i passaggi dei personaggi, la lunga discesa nelle
tenebre dove, una volta di più, sono ancora gli opposti (l’acqua e
il fuoco) che si sviluppano, simbolici e teatrali, a sottolineare i
paesaggi nel finale. E’ risoluta, convinta, decisa, Flannery
O’Connor nel seguire i protagonisti, scrupolosa nel sottolinearne i
difetti e le idiosincrasie. Non gli concede nulla, perché sono
combattuti, divisi e piegati, ma li accompagna e li asseconda,
spiegandone così i motivi portanti delle loro caratteristiche: “Non
mi interessano le sette religiose in quanto tali. Quello che mi
interessa è l’individuo religioso, il profeta dei boschi. L’eroe
de Il cielo è dei violenti
è il vecchio Tarwater, e io sono con lui al cento per cento”.
Tarwater ha un’intelligenza limitata (anzi, concentrata) e
sofferente, come se l’istinto di sopravvivenza fosse frutto di un
lento apprendimento ed è la migliore espressione di quella che
Flannery O’Connor chiama “l’atroce chiarezza”. La violenza è
scandita attraverso i dialoghi, in particolare quelli tra Rayber e
Tarwater, che sono sferzanti. Quando Rayber dice a Tarwater: “Io ti
ho salvato perché tu fossi libero, perché fossi te stesso e non
un’informazione dentro la tua testa”, compie un primo, decisivo
passo verso la dissoluzione di entrambi. “Pensi della scatola o
nella testa?” chiede Tarwater, e la domanda è ambivalente perché
è rivolta a Rayber, che ha bisogno di un apparecchio acustico per
sentire, ma nasconde una perfida e sottile allusione al figlio. Con
matematica precisione, Flannery O’Connor associa alle tre figure
centrali e stanziali, altrettanti personaggi secondari. Il primo
viaggiatore, il rappresentante di tubi ovvero Meeks, giunge ben
presto alla conclusione che Tarwater era “abbastanza suonato e
abbastanza ignorante da essere un buon lavoratore, e lui aveva
bisogno di un ragazzo energico e molto ignorante da metter sotto a
lavorare”. Notare, en passant, l’uso delle reiterazioni, come uno
schiocco di dita per tenere sveglio il lettore. Ci saranno altri due
incontri di Tarwater nella sfumatura conclusiva che incupisce Il
cielo è dei violenti: il camionista che,
indifferente, si addormenta sul bordo della strada e l’autista che
lo deruba e ne abusa, proprio ai confini della radura dove il rogo ha
bruciato il vecchio e la sua tragica dimora. Non resta nulla, non un
pensiero, non una preghiera. Cala il sipario, buio, silenzio.
martedì 3 gennaio 2017
Mezz Mezzrow
Mezz
Mezzrow, che nasce “coetaneo del secolo ventesimo”, ha trascorso
una vita intera a scoprire che “jazz e libertà sono sinonimi”.
Comincia che è ancora un bambino a seguire il ritmo della street
life, lo slang dei bassifondi, e quell’utile consiglio per cui “se
non sapete far soldi, fatevi almeno degli amici”, che diventerà
poi il classico Makin’ Friends
di Jack Teagarden. La sua è “una tipica storia americana, ma
capovolta”, nel senso che l’unica scuola che ha frequentato è
stata quella della galera, che ricorderà soprattutto per il
condannato a morte che andava incontro al suo destino con Dear
Old Girl nell’aria. La musica c’è
sempre, è l’unico linguaggio condiviso, una forma di sollievo e di
piacere, “un geyser di emozioni in ebollizione, che spalanca tutte
le finestre e permette ai nostri istinti, alle nostre idee, ai nostri
sentimenti di sgorgare liberamente”. E’ anche l’ultima spiaggia
per Mezz Mezzrow che comincia a suonare e a scrivere perché “nel
1926 la danza di San Vito, punteggiata dal ritmo dei mitra, si
diffuse per tutto il paese. Dal tramonto all’alba non si fece che
suonare il jazz, bere whisky di contrabbando e abbandonarsi alla
pazzia”. E’ un’epoca bollente e selvaggia che vede Mezz Mezzrow
dividersi tra sassofono, clarinetto e valanghe di marijuana che, a
lungo, costituirono la sua principale fonte di sostentamento. Il
doppio lavoro non gli impedisce di ritrarre da vicino i protagonisti,
con minuziosa passione. A Bessie Smith dedica un lungo omaggio che si
conclude così: “Bessie era una vera donna, tutte le donne del
mondo riunite in una persona sola”. Più colorito, ma non meno
affettuoso il ritratto di Bix Beiderbecke che “suonava una cornetta
che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso affare
inargentato, che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel
momento dalla spazzatura. Mentre suonava, s’era piantato davanti a
me, perché noi eravamo i due strumenti di spalla, e le esalazioni di
whisky che mi soffiò sul naso per poco non mi fecero svenire; ed
anche la musica che usciva dal suo strumento sembrava sotto spirito”.
Sono altrettanto vivide e sanguigne le rappresentazioni della legione
di musicisti che Mezz Mezzrow convoca racconta snocciolando i suoi
blues, da Jelly Roll Morton a Sidney Bechet, da Gene Krupa ad Alberta Hunter fino a Louis Armstrong, che “era un genio, e avrebbe
saputo creare della grande musica anche avendo a sua disposizione
solamente un’asse da lavandaia e un pettine”. Attorno a questi
indimenticabili (e geniali) protagonisti, si sviluppa tutto “un
mondo equivoco”, come lo definisce Mezz Mezzrow, dove artifici ed
espedienti per la sopravvivenza dei jazzisti (in un aneddoto, capita
che vengano pagati in anatre, ancora da cucinare) devono sopportare
la convivenza forzata con i gangster, la somma incomprensione delle
loro idee, per non dire le tentazioni degli oppiacei. Tra Chicago,
Detroit, New York, New Orleans e Parigi, diario di bordo di Mezz
Mezzrow resta una cronaca cruda, spontan e grezza finché si vuole,
ma molto sincera, anche nella sua limitata, e ben precisa,
collocazione temporale: “Il 1927 e il 1928 furono gli ultimi anni
fortunati del vero jazz, gli ultimi in cui un solista, dotato di vera
ispirazione, potesse ancora abbandonarsi alla sua vena e conquistare
il pubblico, che lo ascoltava a bocca aperta. Ma quel periodo stava
per concludersi, per diventare un capitolo nella storia del jazz,
anzi la favola di un’età mitica”. In effetti è proprio così, e
alla fine soltanto la musica è rimasta coraggiosa, intrepida,
inalterata, splendida perché, come racconta Mezz Mezzrow, “è
sgorgata tutta da nostro entusiasmo, dal nostro vivo senso di
amicizia, proprio come la musica nata quaranta o cinquant’anni fa a
New Orleans, e sempre nuova. E questo è il tipo di musica che
continueremo a incidere sui nostri dischi, finché riusciremo a
respirare, o finché il nostro vecchio cuore non si stancherà di
battere”. L’ultima tappa, nella Big Easy, in realtà riporta
all’inizio di tutto ed è la chiave di volta nel commiato di Mezz
Mezzrow: “Questo era quel che New Orleans voleva dire: era una
celebrazione della vita, respirare, piegare i muscoli, sbattere le
palpebre, leccarsi le labbra, malgrado tutto il male che il mondo può
farvi”. Questo è il blues, questo è il jazz.
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