Propiziato
da Anaïs Nin, siglato con il dono di Seraphita di Balzac,
l’incontro tra Conrad Moricand e Henry Miller condensa e celebra un
momento singolare nella storia della cultura occidentale. A Parigi,
su cui incombeva l’avvento della seconda guerra mondiale, si era
data convegno una variopinta umanità con lo scopo (nel caso ne
servisse uno) di “rovesciare i valori costituiti, del fare del caos
che lo circonda un suo ordine che sia il suo proprio, di seminar
fermento e discordie sì che, per un rilancio emotivo, quelli che
sono morti possano essere restituiti alla vita”. Lo stesso Henry
Miller si considerava “un espatriato da Brooklyn, un francofilo, un
vagabondo, uno scrittore appena all’inizio della carriera, ingenuo,
entusiasta, assorbente come una spugna, pieno di interesse per ogni
cosa e, in apparenza, privo d’ogni paura”. Con Moricand nacque
un’istintiva complicità, dovuta alla comune passione per i voli
pindarici, per la fame di arte, in tutte le sue forme, e per una
concezione della vita libera da regole e luoghi comuni. Parigi
combacia in gran parte con il Paradiso perduto, dove Moricand
vede in Henry Miller, “un angelo circondato dalla fiamme”. E’
un’immagine che rende l’idea di “sfruttare al massimo la
situazione! Ed era quello che facevamo, noi che tenevamo duro fino al
colpo di sirena dell’ultima nave”. Ormai è questione di
settimane e con un saggia decisione Henry Miller (“Non aspetto che
gli unni vengano a scovarmi”) se ne va in Grecia, ultima tappa
prima di tornare all’incubo ad aria condizionata. Negli anni del
conflitto, Moricand resta in Francia, solo e stremato, finché, una
volta finita la guerra, Henry Miller non lo invita in America. Il
libro in sé è inconcludente nell’elencare le traversie della vita
dissoluta di Conrad Moricand e della sua permanenza a Big Sur che (a
dispetto della sua fama) non è mai stato un luogo agevole. Detto
questo, Moricand è anche l’archetipo di un mondo dove la
dimensione dell’arte permea qualsiasi cosa diventando “un
enchaînement che non era solo stimolante ed eccitante ma
spesso allucinante”. E’ un elemento del Paradiso perduto
che peserà: Conrad Moricand è un ospite complicato, è assorbito
dall’astrologia e dall’occultismo, ossessionato dalle espressioni
artistiche non di meno che dall’ozio. Ha il suo bagaglio di
idiosincrasie e l’America, una volta smaltita la sbornia, diventa
una gabbia. Comincia a diventare scomodo e irritante, anche perché
Henry Miller ha libri da scrivere e una famiglia (tutto sommato) da
mandare avanti. Il confronto è serrato, cerca di rispondere, dove
può, alle richieste di Moricand, fornendogli, oltre al sostentamento
essenziale, quelle piccole cose (le sigarette, il vino) che non fanno
altro che acuire la nostalgia per quel Paradiso perduto che
era quella Parigi, e che ormai non c’è più. Miller se ne
rende conto perché dice: “E’ solo quando smettiamo di cercar di
vedere, quando smettiamo di cercar di sapere, che vediamo e sappiamo
sul serio”. In una giornata radiosa si confrontano di fronte
all’oceano e Moricand gli dice che gli “manca il marciapiede
sotto le suole”, che si sente un recluso, che soffre l’allergia e
via via sfodera un lungo cahier de doléances. La risposta,
nonostante l’energia profusa, è insoddisfacente, ma è evidente
che Miller aveva preso coscienza che un’epoca era finita, che ormai
stava cambiando tutto, e gli dice, tra l’altro: “Al mondo non c’è
niente che non va. Quello che non va è il modo in cui noi lo
guardiamo”. Troppo poco per Moricand che se ne andrà tra mille
peripezie, insistenti richieste di denaro e di supporto e un (altro)
paradiso perduto per sempre. Come riassume Arthur Hoyle nella
biografia di Henry Miller, “alla fine Moricand fu arrestato
dall’ufficio immigrazione degli Stati Uniti e rimpatriato
nell’autunno 1949; morì cinque anni dopo a Parigi, ma non prima di
aver pubblicato altri strali contro Miller in Francia”, comunque
ormai “solo come un topo, nudo come l’ultimo dei clochard”,
come scrisse Théopile Briant, l’unico amico che gli era rimasto.
Nessun commento:
Posta un commento