Mike
Davis parte da molto lontano a delineare quella che chiama La
dialettica del banale disastro,
dove per comune e consolidata accezione un disastro non è mai
banale, è (o, almeno, dovrebbe essere) sempre eccezionale.
L’ossimoro in sé è usato da Mike Davis per spiegare, anzi, per
introdurre le Geografie
della paura da
un versante inaspettato, quello delle parole, della percezione, della
comunicazione, delle ricostruzioni e delle leggende. Cataclismi,
alluvioni, siccità, incendi, tornado, fenomeni climatici estremi,
rari o frequenti che siano, non sono allineati uno dopo l’altro per
evocare chissà giudizio universale o fine del mondo che sia, ma per
sottolineare come l’intervento umano alias l’urbanizzazione a
tappe forzate abbia generato un’aberrazione del luogo nella forma
di una città che non è una città ovvero è diventata “un falso
paesaggio che celebrava una storia fittizia”. La diretta
conseguenza di questo primo salto carpiato nella dialettica è che
“la costruzione del disastro naturale è
in gran parte celata da un modo di pensare che al tempo stesso impone
false aspettative sull’ambiente e quindi giustifica le delusioni
inevitabili come altrettante dimostrazioni di una natura maligna e
ostile”. Più chiaro di così, è impossibile ed è Los Angeles la
dimostrazione di come “l’umanità ha conquistato la natura invece
di adattarcisi”, una definizione di Richard Lillard che d’altra
parte collima con “la sensazione di un disastro imminente”
evocata da Stephen Pyne. La sensazione è confermata dall’imponente
ricerca, dalla mole delle statistiche e dal rigore delle analisi che
porta Mike Davis a sostenere: “che la paranoia riguardo la natura
distoglie l’attenzione dei più dall’ovvio dato che Los Angeles
si sia messa volutamente sulla traiettoria dei guai. Per generazioni
intere l’urbanizzazione spinta dagli interessi di mercato ha
dimenticato ogni buon senso ambientale”. Guardandolo dall’alto,
lo “sprawl urbano” richiamato da William Whyte, non è soltanto
la dispersione senza coordinate, pianificazioni o confini della
metropoli. E’ una sorta di deprivazione sensoriale dell’essenza
del territorio, che introduce quella pericolosa ambiguità che
Kenneth Hewitt riassume così: “La maggior parte dei disastri
naturali costituisce un aspetto caratteristico e tutt’altro che
accidentale dei luoghi e delle società in cui si verifica”. Va
compreso nel contesto anche il rapporto con la flora e la fauna
perché l’ecosistema californiano come scriveva Carey McWilliams è
“un’isola sulla terra”, con tutto quanto ne consegue. Se
l’allevamento, la caccia e più in generale la convivenza con il
resto del mondo animale ricorda i romanzi di Cormac McCarthy
o Butcher’s
Crossing di
John Williams o Il
figlio di
Philipp Meyer, ci sono variazioni sensibili e imprevedibili: “Il
terrore da puma, panici simili di fronte a serpenti sulla spiaggia e
altri strani fenomeni paranaturali (compresi i coyote mangiarifiuti,
gli orsi neri nelle vasche da bagno, gli scoiattoli apportatori di
epidemie, le api assassine e anche i vampiri succhiacapre), deve
essere preso sul serio in quanto sintomo di una crisi più ampia tra
la metropoli e il suo ambiente”. Non di meno il rapporto tra gli
esseri umani, visto che tra le Geografie
della paura viene
inserito anche l’allarmante demografia della popolazione
carceraria. Le condizioni dei detenuti, il peso dell’istituzione in
sé sui bilanci, l’intervento privato (anche in un campo molto
delicato come l’amministrazione della giustizia) e la
militarizzazione dell’ambiente si pongono come ultime e definitive
traduzioni delle Geografie
della paura che
alla fine sono riassunte da Jeff Unruh in una verità che appare
persino ovvia: “La topografia non è un caso”. La distopia di Los
Angeles diventa comprensibile allora solo attraverso la fantascienza,
ovvero Blade
Runner,
ma la spettacolarizzazione dei disastri (siamo a Hollywood, dopo
tutto) non è solo la versione fiction delle Geografie
della paura,
perché come precisa Mike Davis, “l’industria dello spettacolo ha
invertito la decadenza del vecchio splendore in un nuovo splendore
della decadenza”. Nel finale si concede anche una postilla
vagamente poetica, ma non meno drammatica nel ricordare che Los
Angeles vista dal satellite nella primavera del 1992 era “un’anomalia
termica”. E’ lì, in quelle Geografie
della paura,
che si discute addirittura se non sia il caso di privatizzare
l’industria degli incendi, perché certe logiche non si fermano
davanti a niente, nemmeno di fronte all’apocalisse.
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