mercoledì 2 aprile 2025

Erskine Caldwell

La madre “era una danzatrice di facili costumi di passaggio sulla Quarantanovesima Strada, e non teneva il registro di chi andava a letto con lei”. Con questo, il milieu che affronta il primo romanzo di Erskine Caldwell, pubblicato nel fatidico 1929, è delimitato chiaramente fin dalle prime pagine: Gene Morgan è Il bastardo, di nome e di fatto, che non trova il suo posto e si muove in continuazione con la sua pistola. Nasconde un istinto omicida (che sfodera giusto un paio di volte, restando tuttavia impunito) e si inoltra in territori cupi, segnati dalla disperazione e dalla promiscuità. Il bastardo offre tre livelli essenziali che Gene Morgan affronta in fretta consumando tutto e troppo presto. Prima trova un impiego in un oleificio, che sembra un passo obbligato verso una condizione esistenziale più accettabile, nonostante le modalità del lavoro, che consistono “nel riempire continuamente di seme di cotone le bocche di alimentazione” nell’arco di “undici ore, cinque notti e mezzo la settimana”. Anche se i ritmi sono questi, gli operai trovano modo di sfruttare ogni piccolo intervallo per tirare i dadi e consumarsi la misera paga. L’azzardo è una costante per Gene e non solo per il gioco, ma anche nei confronti delle donne, dove viene coinvolto in incontri e rapporti ambigui, dove la violenza è dietro l’angolo. Per Il bastardo, viene il momento di capire che “non valeva la pena di fare una vita come quella”, lascia l’oleificio e comincia un’assidua frequentazione dei bordelli. È la seconda parte dell’esordio di Erskine Caldwell, una fase di transizione che vede Gene Morgan trascinarsi di stanza in stanza in combutta con lo sceriffo Jim Hunter e il figlio John. A Lewisville, Georgia “faceva troppo caldo per vivere. Il sole cuoceva e spellava le colline sabbiose dalle sette del mattino fino alle sei o sette di sera, e le notti non erano molto più fresche”. Il clima è bollente, e non solo per le condizioni atmosferiche: il linguaggio di Erskine Caldwell è crudo e particolarmente limitato nel raccontare le vicissitudini che Il bastardo si ritrova ad affrontare di volta in volta, come se fosse una testimonianza diretta senza l’intermediazione di una parvenza di stile. Le frasi sono troncate, il tono è ruvido e impietoso, la forma sprofonda spesso nel gergo con parole che sono “colpi di frusta brutali”, per dirla con lo stesso Gene Morgan. Una modalità scarna, limitata, con molte accezioni blues (le reiterazioni, per esempio) che filtrano scena dopo scena con un momento di particolare efficacia nel racconto del funerale di Jim Hunter, un paio di pagine davvero impressionanti. L’ultimo passaggio vede Il bastardo arrivare a toccare con mano la felicità. Riprova ad avere un lavoro come autista (“A Gene piaceva molto guidare e infatti in breve tempo divenne così esperto da portare un autocarro. Per la prima settimana il suo lavoro di autista si svolse in città. Gli fu promessa presto una lunga corsa. Questo era ciò che voleva”) e sposa Myra, poco più di una bambina. La gioia del matrimonio viene celebrata su un autocarro in un viaggio traballante, dove “un altro mondo traboccante delle pene e delle gioie della vita passava in rivista solo per essere subito fatalmente distrutto”. Le antiche ombre tornano a pesare quando nasce il figlio, Leon, che stenta a sopravvivere e ha una lunga serie di problemi, al punto di rendere la vita di Myra e Gene “una tortura continua” e costringendo Il bastardo a una scelta crudele e fatale, degna conclusione di un romanzo feroce e inesorabile.

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