Sono
gli anni di Reagan ed essere “born in the U.S.A.” voleva dire vivere nel
futuro, solo che non è era così scintillante e divertente per tutti. Per Rory
Dawn Hendrix, e forse per la stessa Tupelo Hassman, non è stato semplice vivere
nella Calle de las Flores, un campeggio con l’ambizione di essere un quartiere
da qualche parte “in the middle of nowhere” attorno a Reno, Nevada, un posto
dove una casa può bruciare in sessanta seconti perché non è una vera casa, e
dove, inoltre, “non è affatto facile far sembrare che la cosa sia facile”.
Anche “rimettere insieme i pezzi” non viene spontaneo: alla Calle ci si salva
una sola volta. Forse, perché “la Calle è una specie di zona di guerra, il
nemico ci circonda, il nemico siamo noi. Siamo così chiusi che non riusciamo a
fidarci nemmeno di noi stessi, tantomeno gli uni degli altri, e quando pensi
che ti puoi rilassare un po’ c’è un’altra emergenza all’orizzonte e come se non
bastasse il cibo è terribile”. Bambina mia è Rory Dawn Hendrix, terza generazione di donne “deboli di
mente” che hanno trovato indigesto e insapore il cocktail dell’american dream.
Dal punto di vista di una bambina, che tale rimarrà fino alla fine, la Calle è
un microcosmo che ruota attorno al Truck Stop (il nome dice tutto) e ai
bungalow, non luoghi che sono soltanto l’anticamera della terra di nessuno in
cui cadrà. Per un’innocente girl scout in un mondo di adulti irrorato
dall’alcol e irretito dal gioco d’azzardo, non è complicato immaginare come può
finire: “Io ero bloccata tra un luogo spaventoso e un luogo spaventoso e così
aspettavo solo che la cosa passasse, che le domande non mi venissero fatte, e
quando ormai era tutto finito, tranne nei miei sogni, ho cercato di
dimenticare”. Bambina mia
ha una sola inquadratura, un primo piano che si allarga un po’: parte dal
sorriso mancato di Johanna, madre
di Rory Dawn Hendrix, e arriva a contemplare anche il terzo stadio dell’albero
genealogico con la presenza rivelatoria della nonna, Shirley Rose. Tre donne si
trasmettono con una certa naturalezza le proprietà famigliari perché “la merda
che produciamo non scompare mai, specialmente quando ci aspettiamo che sia
qualcun altro a pulicercela”. Eloquente: il debutto di Tupelo Hassman ha un
ritmo incalzante, attraente e avvincente ed è concreto nel rendere l’atmosfera
di disperazione e disintegrazione della Calle, dove fruga nella polvere quel
tanto che basta. Sorprendente nella prima metà, con alcuni passaggi davvero
notevoli, più ci si addentra nell’apatia della Calle, più Bambina mia, come per un processo di osmosi,
comincia ad assecondarne la routine e Tupelo Hassman sembra reiterare le
promesse iniziali. Anche se il talento e lo stile sono chiarissimi, Bambina
mia comincia a ripetersi
e a funzionare a corrente alternata nella fase finale, dove Tupelo Hassman,
senz’altro con un certo coraggio, assembla parti di sentenze, qualche gioco
linguistico e On The Road Again
di Willie Nelson, appuntata lì con un gran senso della location. Un
bell’esordio, limiti e ambizioni compresi nel conto.
domenica 29 dicembre 2013
venerdì 27 dicembre 2013
Frank Norris
Nel Kansas alla
fine del diciannovesimo secolo, Una speculazione sul grano svela in un racconto essenziale di poche
dozzine di pagine l’essenza e la consistenza del cosiddetto, onnipresente
mercato. A cui Frank Norris dedicò una trilogia di racconti, rimasta purtroppo
incompleta, anche se in fondo basta il micidialie meccanismo a incastri di Una
speculazione sul grano per
comprenderne la portata. Come scriveva John James Ingalls, citato da William
Least Heat-Moon in Prateria, “Il Kansas è stato il prologo di una tragedia che non ha ancora
l’epilogo, è stato il preludio a una fuga di battaglie di cui non s’è ancora
spenta la risonanza”. Il ribasso del prezzo del grano a sessantadue centesimi
per staio (circa un terzo di quintale) è una calamità. A Sam ed Emma Lewiston,
pionieri e agricoltori, costa un dollaro a staio produrlo e non rimane che
andarsene verso Chicago in cerca di altre opportunità. Per loro la matematica è
impietosa, per il mercato è un optional ed ecco che la cifra discriminante sale
a uno e dieci, uno e mezzo e uno a settantacinque fino alla mossa finale dei
due dollari per staio. Una speculazione da manuale: l’escalation del prezzo del
grano non è collegata ad alcuna logica produttiva o economica, all’offerta o al
consumo e non è il risultato di una politica industriale o delle leggi della
concorrenza. E’ solo frutto di quell’imperativo, “sostenere il mercato”, che è
tutt’altro che ambiguo perché come scriverà John Maynard Keynes qualche anno
dopo Frank Norris: “Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle
sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se
le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando
l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività
di un casinò, è probabile che le cose vadano male”. Horhung e Truslow, i due
finanzieri che combattono in Una speculazione sul grano, potrebbero persino essere soci: un giorno
va bene a uno e un giorno all’altro, ma a loro, ai mercanti nel tempio, va
sempre bene. Il rialzo e il ribasso nella logica del mercato sono soltanto
artifizi strumentali. Gli aumenti, le trattative, le sfumature economiche sono
piccoli abbagli, conditi dal gusto per il gioco d’azzardo, per nascondere il
vero scopo di quel mistero chiamato mercato, che è vincere sempre. Il mercato è
l’inganno e quando lo sconfitto di turno se ne accorge non fa altro che riderci
sopra: è il rischio del mestiere (sarà per la prossima volta). Gli sconfitti
sono sempre gli altri e il titolo del racconto di Frank Norris contiene già
nella sua etimologia latina la chiave di volta della storia. Con il grano a
sessantadue centesimi almeno il pane lo regalavano ai diseredati, ma con il
rialzo a due dollari anche quella spontanea e provvisoria forma di welfare
viene a mancare e Sam Lewiston si ritrova a fare La fila per il pane, come è chiamato l’emblematico paragrafo
conclusivo di Una speculazione sul grano che ancora oggi, nella sua drammatica attualità, è una
perfetta definizione di cos’è davvero il mercato.
lunedì 23 dicembre 2013
Willy Vlautin
L’incipit di Verso nord si snoda come il ritornello di una circus song ed è come se gli acrobati interpretassero il precario equilibrio dell’esistenza di Allison Johnson. L’altra indicazione strategica, prima della partenza, è il suono, l’aspra atmosfera delle ballate country & western, da Hank Williams a Johnny Cash (più di tutti), che sono la colonna sonora di un mondo white trash, povero di idee, di soldi, di tutto, che Allison Johnson interpreta allo stremo delle forze. Non è neanche una Motel Life, per ricordare il romanzo d’esordio di Willy Vlautin, perché la vita si svolge nei parcheggi, nelle tavole calde, in camere ammobiliate con la televisione onnipresente, dove si allinea una sterminata teoria di loser. Allison beve fino a cadere svenuta e quando è sveglia, è preda degli attacchi di panico e sempre sull’orlo del suicidio. Ha una svastica tatuata in fondo alla schiena, senza sapere né perché né cosa significa, anche se nell’iconografia di Verso nord non è altro che l’ennesimo marchio della solitudine e della disperazione. Dopo l’ennesimo crollo, e la scoperta di essere incinta, decide di abbandonare i sobborghi di Las Vegas, compresi il residuo di famiglia che le rimane e Jimmy Brodie, un fidanzato imbottito di speed. Nel viaggio Verso nord, Allison sembra sapere che “non c’è alcun posto in cui non ci siano i mentecatti, la morte, la violenza, i cambiamenti, la gente che arriva da fuori” e non dimentica, nemmeno quando non approda a Reno. E’ lì che, pur lottando contro una moltitudine rimpianti (primo tra tutti, il figlio dato in adozione), di fantasmi e di incubi, Allison riesce a fermarsi, a darsi un minimo di linea di galleggiamento e a coltivare l’ambizione di un diploma. Non è moltissimo, ma per una che nella vita ha fatto soltanto la cameriera sarebbe già qualcosa in più di un premio di consolazione. D’altra parte il miglior consiglio professionale che ha ricevuto è stato quando qualcuno gli ha detto: “Dovresti fare la cameriera in un locale chic, così faresti un sacco di soldi”. Per Willy Vlautin, Allison Johnson è una rabdomante che fruga nei bassifondi della vita e il pregio maggiore della sua scrittura, come già l’avevamo sentito nel songwriting per i Richmond Fontaine, è quello di seguirla senza intromettersi troppo. Partendo da lei, i quarantacinque frammenti di cui è composto Verso nord ricalcano il disorientamento, il malessere, il dolore di un’umanità ingenua, fragile, spezzata da troppe promesse e affondata in un fiume di alcol. La fuga, nella speranza di cominciare da un’altra parte, è la possibilità sottintesa in ogni frase scritta da Willy Vlautin, come se sulla strada ci fosse una risposta o magari una promised land da raggiungere. Viaggiando Verso nord, si scopre invece che il luogo più ospitale per Allison e per il suo occasionale compagno è il deserto e non c’è alcun suggerimento metaforico nell’immagine composta da Willy Vlautin. Solo l’alone di una luce fredda e crepuscolare e i filamenti della scrittura di un narratore destinato ad andare lontano.
venerdì 20 dicembre 2013
Don DeLillo
“Il Mediterraneo è stato il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta e ha giocato nella storia della civiltà un ruolo molto più significativo di qualsiasi altro specchio di mare” scrive David Abulafia nella conclusione a Il grande mare. A cavallo tra il 1979 e il 1980 è “un mare dai molti nomi”, singolare coincidenza con il titolo del romanzo di Don DeLillo, dove si intersecano tensioni geopolitiche, rotte commerciali, strategie terroristiche e operazioni segrete. Il moderno Ulisse di Don DeLillo si chiama James Axton ed è un cittadino americano incaricato di valutare “le quantità di rischio” degli investimenti finanziari in paesi dalla situazione politica ed economica ambigua e/o instabile. Usa “una scala di valori complessa” per interpretare e analizzare i numerosi segnali che arrivano dal bacino del Mediterraneo, in particolare tra la Grecia e la Turchia, anche se poi confessa che nella sua natura resistono due tratti caratteristici a tutta l’umanità: “Noi abbiamo la nostra arroganza. Abbiamo anche la nostra inadeguatezza. La prima è una disperata invenzione della seconda”. Nella sua evoluzione, I nomi si nasconde dietro le sembianze di un thriller (comprensivo di una serie imprecisata di delitti) e invece ha la peculiarità di riuscire a vedere dentro e oltre il linguaggio delle civiltà mediterranee, scrutandone la decadenza negli “anni squallidi che verranno”. Tutto si svolge negli incontri di James Axton, che vede e parla con “gente costretta ad andare d’accordo dalle circostanze” ed è proprio così che prende forma I nomi perché “ogni conversazione è una narrativa condivisa, una cosa che fluttua in avanti, troppo densa per lasciare spazio allo sterile, il non detto. Il discorso è incondizionato, i partecipanti vi entrano completamente”. I nomi riflette la contorta conformazione del Mediterraneo in quel preciso frangente storico, sospeso a un filo di paura, ed è un romanzo avvinghiato all’estenuante capacità di Don DeLillo di insistere sull’obiettivo, fino a quando James Axton recita: “C’è qualcosa che mi irrita, quest’arroganza travolgente, abbattere il potere, rifare la lingua. Con che cosa ci lasciano? Delle designazioni etniche, dei mucchi di iniziali. Opera di burocrati, menti ottuse. Mi rendo conto di prendere questi cambiamenti in modo molto personale. Per me sono come un annullamento della memoria”. I nomi è la versione psicotica e visionaria dei grandi poemi omerici, con la differenza che attraverso le frontiere mediterranee Don DeLillo scopre un’inedita identità letteraria. Una definizione proiettata ben oltre la presunta modernità, visto che “nel nostro secolo, lo scrittore ha portato avanti una conversazione con la follia. Si potrebbe quasi dire, dello scrittore del ventesimo secolo, che aspiri alla follia. Alcuni ci sono riusciti, ed occupano dei posti particolari nella nostra considerazione. Per uno scrittore la follia è come una distillazione ultima di se stesso, un’autocensura finale. E’ l’affogamento delle false voci”. Lungimirante.
domenica 15 dicembre 2013
Chuck Rosenthal
Dopo aver lavorato
a un libro con un titolo che è tutto un programma, La morte della scrittura
in America altrimenti
conosciuto come Il libro di ogni cosa, Shark Rosenthal si divide tra la composita famiglia
(una figlia di nome Gesù e l’avvenente compagna Diosa), un instabile incarico
universitario, dozzine di incontri forieri di altrettanti evanescenti progetti
e la sua vocazione alla scrittura. Il metodo di Chuck Rosenthal, non deve
essere molto diverso da quello del suo alter ego protagonista di A Ovest dell’Eden: “Mi siedo e scrivo, scrivo la prima
frase, poi la seconda e lascio che mi portino dove mi devono portare. Ed è
sempre un libro diverso da quello che avevo concepito. Sono più interessato al
linguaggio che alla storia”. La frenesia è filtrata con discrezione e si
trasforma in un ritmo assiduo, forsennato, sincopato, spesso e volentieri
esilarante. Sa usare tutte le deviazioni e le variazioni dell’immaginario pop,
dal ribaltamento della realtà del cinema (siamo a Hollywood, dopo tutto)
all’insistenza con sui sfoggia il suo name dropping, lasciando scivolare un nome famoso dopo
l’altro e incastrandoli in una rete di eventi e relazioni collaterali
impercettibile a occhio nudo e che non finisce mai perché “non c’è chiusura
quando racconti una vita”. Figurarsi mentre si setacciano gli otto milioni di
vivere e di morire di Los Angeles attraverso il filtro deformante delle parole
che, nella percezione di Shark Rosenthal, “sono un miracoloso bisturi con cui i
miracoli sono dissezionati”. Infarcite di rimandi e di riferimenti,
dall’insistente presenza di William Gass, il suo mentore, a Bob Dylan e Jack
Kerouac, fino al rivelarsi con lo spezzone da Tropico del Cancro di Henry Miller e l’apparizione di Mark
Strand nel finale, le Cronache magiche da Los Angeles sono un flusso di parole che non è un
romanzo proprio come Los Angeles non è una città, e proiettano una scrittura
anarcoide, effervescente, incontrollabile in cristalli spezzati in mille
frammenti e in tutte le direzioni, non solo A Ovest dell’Eden. La versione della California di Chuck
Rosenthal unisce le visioni di John Steinbeck (anche il titolo contiene una
piccola citazione) e di Jack Kerouac a quelle di Bukowski e Hunter S. Thompson
riviste con una sottile, attualissima amarezza resa esplicita dalla convinzione
che “nulla nella nostra vita
funziona davvero. Nulla collega un momento all’altro, ma la nostra convinzione
è che le cose funzionino”. Nel gioco della rifrazione tra la realtà e il vero,
Shark Rosental ha un’epifania quando giunge “a scoprire che c’erano molte
illusioni a cui gli americani credevano, dalle assicurazioni sulla vita alle
polizze varie, al credere che la cosa che hai comprato e pagato ti sarà
consegnata a domicilio. Fino all’illusione di vivere in una casa o in un cosmo
funzionante”. A Ovest dell’Eden vince il premio Pesca alla trota in America perché surreale non è il giornalismo
magico di Chuck o Shark Rosenthal, è il mondo (e il modo) in cui viviamo e
nessuno l’aveva (ancora) raccontato così.
giovedì 5 dicembre 2013
David Byrne
Come funziona
la musica è destinato a
cambiare in modo sostanziale quel luogo comune, ispirato da Frank Zappa, per
cui scrivere di musica è bizzarro, inutile o addirittura dannoso. Prima di
tutto perché David Byrne affronta l’argomento con il piglio del narratore e
sapendo che “ci sono due conversazioni che si svolgono contemporaneamente: la
storia e il modo in cui la storia viene raccontata”, riesce a restare in
equilibrio, con un tono appassionato e nello stesso tempo molto efficace e
articolato. Dipende anche dalla scelta di affidarsi a un linguaggio chiarissimo
nella sua ricchezza, una scelta dovuta al fatto che “la semplicità è una sorta
di trasparenza in cui leggere sfumature possono avere un effetto enorme. Quando
tutto è visibile e pare banale, i dettagli assumono un significato più grande”.
Per capire Come funziona la musica David Byrne parte dal definire quello che chiama, più
di una volta, “il contesto”, ovvero le condizioni che determinano la percezione
della musica. La sintesi, in breve, potrebbe stare tutta in questo passaggio:
“La musica è forma da onde sonore che captiamo in momenti e luoghi specifici;
sopraggiungono, le percepiamo e poi spariscono. L’esperienza della musica non
consiste semplicemente in queste onde sonore, ma altresì nel contesto in cui si
generano. Molti credono che ci sia una qualche misteriosa qualità insita nella
grande arte, e che ci sia questa sostanza invisibile a suscitare in noi una
reazione tanto profonda. Questa entità ineffabile non è ancora stata
identificata, ma sappiamo che le forze sociali, storiche, economiche e
psicologiche influenza le nostre reazioni tanto quanto l’opera stessa. L’arte
non può esistere nell’isolamento. E tra tutte le arti la musica, essendo
effimera, è la più prossima a essere un’esperienza più che un oggetto: è legata
al luogo in cui l’hai ascoltata, a quanto l’hai pagata e a chi era con te in
quel momento”. Da lì si arriva nella seconda metà di Come funziona la musica e l’apparato teorico e filosofico lascia
campo libero a considerazioni più concrete e prosaiche che riguardano la
produzione della musica. Sono altrettanto pertinenti e interessanti perché
l’analisi dell’industria discografica e dello show business in generale è
impietosa, documentata e sperimentata in prima persona, eppure non è priva di
speranza, alla fine perché di David Byrne rimane convinto che “sono la musica e
il testo a suscitare l’emozione dentro di noi, e non il contrario. Non siamo
noi a fare la musica, è la musica a fare noi”. A David Byrne la prima volta capitò molto tempo fa
ed è cangiante il suo ritratto del CBGB’s e del “contesto” in cui si è
sviluppata un’intera scena musicale ovvero la logica di un quartiere, del tempo
e degli spazi che allora hanno permesso alla musica dei Talking Heads (e di
Ramones, Television, Patti Smith e Mink DeVille) di sopravvivere. E’ laggiù che
“ogni sera quei promemoria sonori ci ricordavamo da dove arrivavamo, dove
eravamo in quel momento e dove eravamo diretti”. E’ così che funziona la
musica.
domenica 1 dicembre 2013
Billy Collins
Le poesie raccolta
in A vela, in solitaria, intorno alla stanza sono formate da istantanee, piccoli frammenti di vita
domestica, spicciole osservazioni metereologiche, tutto un diario quotidiano in
cui di Billy Collins va cercando “modi più semplici per costruire senso, la
conoscenza dei gesti, per esempio”. Nel calendario che annota trovano posto
brevi constatazioni di fuggevoli stati d’animo, come succede in Giorni: “sussurri, poi trattenendo il fiato,
metti questa tazza sul piattino di ieri, senza il minimo tintinnio”. Oppure
caustiche riflessioni sullo scorrere del tempo, che hanno uno zenith in Compiendo dieci anni: “Mi sembra solo ieri che credevo che
sotto la pelle non ci fosse altro che luce. Se mi tagliavi non potevo che
splendere. Ma ora quando cado sui marciapiedi della vita, mi pelo le ginocchia.
Sanguino”. Il linguaggio è sempre sciolto, brillante, immediato senza essere
banale e se la sua praticità, ben dimostrata nel suo pellegrinaggio A vela,
in solitaria, intorno alla stanza ha solleticato più di un parere urticante, tra chi vorrebbe sempre la
poesia in alto, magari in un tabernacolo, Billy Collins non sembra essersela
presa più del tanto. Considerando
la sua vocazione come quella di “un amanuense non pagato ma soddisfatto”, in
effetti Billy Collins qualche detrattore l’ha trovato sulla sua rotta e, non di
meno, è rimasto convinto che “una poesia accessibile ha un’entrata chiara, una
porta d’ingresso attraverso la quale il lettore può passare al corpo della
poesia la cui accessibilità complessiva, e cioè la disponibilità di
significato, è da vedere in seguito e può notevolmente cambiare”. Forse per
interpretare A vela, in solitaria, intorno alla stanza è più sensato passare da Sonny Rollins,
Art Blakey e Thelonoius Monk. Certe divagazioni, molte variazioni, parecchie
diversioni si nutrono più di principi ritmici jazzistici che letterari, così
come sembra confermare lo stesso Billy Collins in Nightclub: “Siamo tutti così pazzi, così comincia il
mio lungo assolo bebop, così terribilmente pazzi che siamo diventati bellissimi
senza neppure saperlo”. Billy Collins sembra persino defilarsi quando dice:
“Cerco parole per trarmi d’impaccio” e allora se serve un parere autorevole,
dovrebbe bastare quello di Charles Simić: “Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima
è ciò a cui aspirano i poeti del tuo tipo. Essi si affidano al loro senso del
comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è
meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di
pappagalli e indossare il costume di qualche antiquata moda letteraria”. Nella
sua essenzialità la definizione di Charles Simić è fin troppo precisa. In fondo
un’idea di Purezza la
svela lo stesso Billy Collins nella scia di A vela, in solitaria, intorno
alla stanza ed è la
miglior definizione possibile della sua esperienza: “Sono la concentrazione in
persona: esisto in un universo dove non c’è altro che sesso, morte, scrittura”.
Più chiaro di così.
venerdì 22 novembre 2013
Paul Auster
Questa
lunga intervista si rivela man mano che il dialogo si infittisce in
una raffinata dissertazione sullo scrittore, sulla sua arte e su
quella particolare realtà che si trova a vivere tra la sua
immaginazione e il mondo, fuori. Paul Auster parte da alcune
constatazioni molto semplici: a) “scrivere non è un modo molto
interessante di vivere: seduto il giorno intero in un locale, tutto
solo, concentrato su una macchina per scrivere. Eppure non potrei mai
immaginare di non farlo: la mia vita sarebbe vuota e incompleta se
non scrivessi”; b) “mi sento sempre più un principiante,
continuo ad imbattermi nelle stesse difficoltà, gli stessi vuoti, le
stesse disperazioni. Scrivendo si fanno così tanti errori, si
cancellano così tante brutte idee e frasi sbagliate, si cestinano
talmente tante pagine prive di interesse che alla fine uno capisce
almeno una cosa: quanto si è profondamente stupidi. Scrivere è
un’occupazione che rende umili”. Le
trame della scrittura meriterebbe
solo per la seconda asserzione, diretta conseguenza della prima,
perché riporta all’intima natura della scrittura, e della
letteratura, dove “ogni libro è un’immagine della solitudine”.
Anche l’identificazione di Paul Auster e della sua narrativa con
una città, New York, e con un quartiere in particolare, Brooklyn, è
funzionale a delineare Le
trame della scrittura che
è sempre l’approdo finale. Un microcosmo, un laboratorio umano
che, come dice Paul Auster, “è un modo di raccontare il mondo
attraverso personaggi umili e quotidiani, un mondo nel quale anche la
presenza di oggetti inanimati, apparentemente semplici e banali,
contribuisce ad esprimere emozioni particolarmente vivide”. Quello
di Paul Auster, anche nel limitato formato di un’intervista è un
modello apprezzabile e condivisibile lui riassume così: “Scrivere,
per me, non è un atto scientifico. E’ come vivere all’interno di
un sogno, e cercare di capirne il significato”. Ciò non toglie che
uno scrittore sia estraneo alla realtà, anche perché una volta che
si è applicato abbastanza scoprirà che “le atmosfere sono
altrettanto importanti dei fatti: e quando un certo tipo di discorso
arriva al paese dal vertice, influenza il modo di pensare e vedere se
stessi e gli altri dell’intera nazione”. Ecco perché anche dal
suo recinto di Brooklyn, Paul Auster riesce a essere convincente
quando si deve confrontare con una dimensione culturale come quella
americana, insieme complessa e degradata: “La nostra è diventata
una cultura della spazzatura, nutrita solo da celebrità e
pettegolezzi. Nessuno cerca più di vedere e ascoltare quello che sta
davvero succedendo nel nostro paese. La televisione distorce la
realtà americana, e così fa anche il cinema”. Ancora di più
quando deve prendere posizione rispetto agli uomini della repubblica
è chiaro e semplice come bisognerebbe essere: “Non capisco cosa
stiano combinando, perché si comportino così, in quale mondo
intendano farci vivere. Sicuramente non è il mondo nel quale voglio
vivere io”. Siamo d’accordo.
martedì 19 novembre 2013
Saul Bellow
A diciassette
anni, Louie si trova a varcare una soglia che non prevede possibilità di
ritorno. Sua madre sta morendo e lui deve consegnare un mazzo di fiori
dall’altra parte della città. Di solito, è un fattorino solerte e scrupoloso,
che segue percorsi già tracciati dai binari del tram e non si concede alcuna
distrazione, se non la travolgente passione per la letteratura. La monotonia
della sua esistenza è destinata a essere travolta e Saul Bellow non ne fa
misero fin dal memorabile incipit: “Quando stanno succedendo troppe cose, più
di quante tu ne possa sopportare, puoi scegliere di fare finta che non stia
accadendo niente di particolare, che la tua vita stia girando e rigirando come
il piatto di un giradischi. Poi un giorno ti rendi conto che quello che credevi
un piatto di giradischi, liscio e uniforme, era in realtà un mulinello, un
vortice”. Per una serie di piccole congetture del caso, che Saul Bellow sa
incastrare una dopo l’altra come raffinati rompicapi che ipnotizzano il
lettore, Louie finisce nello studio medico di un parente, dove rimane incantato
dalla visione del corpo di una donna, nuda e disinibita. Lei lo invita a
seguirla, Louie crede, immagina, spera, sogna che L’iniziazione sia quello che tutti, lettore compreso,
pensano, fremendo al solo pensiero dei rituali sessuali. Il colpo di scena è
dietro l’angolo perché “per strada non c’erano redentori, né guide, confessori,
consolatori, né nessuno che ti illuminasse la mente o ti rivelasse la verità a
cui rivolgersi. Dovevi prendere insegnamento ovunque lo potessi trovare”. L’iniziazione si trasforma allora in un’odissea nelle
strade di “Chicago d’inverno, corazzata di ghiaccio grigio, il cielo basso, il
tirare avanti, pesante”. A parte il clima stagionale, comunque gelido, tutta
l’atmosfera è tesa e ingannevole come un incubo kafkiano perché Saul Bellow non
concede facili vie di scampo al suo protagonista, che si ritrova invischiato in
un storia agrodolce, per metà commedia degli equivoci e per metà tragedia dai
toni malinconici e crepuscolari. Altrettanto tocca al lettore perché, pur nella
sua brevissima e insolita forma (poco più di un racconto, molto meno di un
romanzo) Saul Bellow riesce a trasportarci in una dimensione particolarissima,
ottenuta sovrapponendo in continuazione fattori ambientali e umani. Strato dopo
strato, L’iniziazione si
evolve in modo plastico e mentre si sfumano i confini tra Louie, il sesso e la
morte, diventa la dimostrazione plateale di quello che sosteneva Saul Bellow,
poi riportato nella postfazione: “Forse lo scrittore non ce l’ha in mente, un
vero pubblico. Spesso il suo unico presupposto è di partecipare in uno stato di
unità psichica con altri che non conosce direttamente. Egli è in grado di
comprendere la condizione mentale di questi altri perché è anche la sua condizione.
In un modo o nell’altro capisce, o intuisce, quanto sia grande lo sforzo,
spesso uno sforzo segreto e nascosto, per rimettere in ordine la coscienza
confusa”. Piccolo, grande libro.
lunedì 11 novembre 2013
Gay Talese
La saga della
famiglia Bonanno che si dipana dalla scomparsa del patriarca, Joseph, alle
gesta del figlio Bill è “un mondo così strano e sfibrante” che la narrazione di
Gay Talese, al solito acuta, puntigliosa e brillante, assume un carattere
paradossale. Per arrivare a concludere Onora il padre, Gay Talese si muove con passo felpato in
quello che è un territorio minato, e non in senso metaforico. Il rischio della
vita è una componente quotidiana dell’identità mafiosa, come confessa lo stesso
Bill Bonanno: “Quando la mattina mi alzavo dal letto, il mio unico obiettivo
era arrivare vivo fino a sera. E al tramonto, il mio unico obiettivo era
sopravvivere fino all’alba”. La convivenza di Gay Talese con la famiglia
Bonanno è tale da rappresentare un pericolo concreto, anche se gli permette di
comprendere, sul campo e in diretta, l’intima essenza della vita mafiosa, “una
routine fatta di attese interminabili, di monotonia, di giornate e giornate
passate in nascondigli, fumando eccessivamente, mangiando troppo, rinunciando
forzatamente a ogni esercizio fisico, stando allungati sul letto in stanze
dalle imposte chiuse, morendo di noia, mentre si faceva tutto questo per
cercare di restare vivi”. Dal capo dei capi all’ultimo gregario, per gli uomini
d’onore non c’è altro se non “la disciplina, ecco il requisito fondamentale. I
travestimenti, i nascondigli, i falsi documenti d’identità gli amici leali
erano tutte cose importanti, ma la disciplina individuale era il fattore
essenziale, in quanto comportava la capacità di mutare abitudini di vita, di
adattarsi alla solitudine, di stare all’erta senza lasciarsi prendere dal
panico, di evitare i luoghi e le persone con cui in passato si aveva maggior
dimestichezza”. Per tutti gli altri, le moglie, le fidanzate, i figli c’è un’ambiguità
velata dalla paura, un vago senso di pericolo nascosto nella reciproca
diffidenza e un alone di paranoia diffuso e costante nell’aria. Abituato a
toccare con mano, Gay Talese si accorge di essere “diventato una valvola di
comunicazione all’interno di una famiglia a lungo oppressa dalla tradizione del
silenzio”. Non si avvede che Onora il padre, forse per un processo di osmosi, assume una forma
iperbolica, per cui dopo qualche centinaio di pagine, viene spontaneo accettare
persino una ritratto della mafia abbastanza accomodante: “In massima parte
quegli uomini erano implicati nel gioco d’azzardo: per quanto illegale,
rientrava nella naturale tendenza umana. Il racket del lotto, le scommesse, la
prostituzione e altre attività vietate dalla legge avrebbero continuato a
esistere anche senza la mafia. In realtà i mafiosi erano semplici servitori in
una società ipocrita, era i mediatori che fornivano quelle possibilità di
piacere e di evasione che il pubblico chiedeva e che la legge proibiva”. Nel
raccontare una dimensione parallela in cui, dopo anni di tradimenti e vendette,
“nessuno sapeva più con certezza chi fosse il nemico”, Onora il padre è scrupoloso, florido e oculato solo che
rimane a distanza di sicurezza. Si può capire, anche se nello stile di Gay
Talese certe omissioni si notano, e stonano.
domenica 10 novembre 2013
Michael Kimball
Una famiglia in
viaggio sulle strade americane. Non hanno alternative, se non andare avanti.
Non hanno niente e per continuare si devono privare di tutto. Vivono in
macchina e due bambini scrutano dal sedile posteriore il mondo difficile che
gli va incontro. E allora siamo andati via ha alcuni momenti di straziante bellezza in cui il
dolore filtra davvero attraverso il racconto di Michael Kimball. L’escamotage
della doppia voce, quella più matura e consapevole del fratello maggiore e
quella acerba della sorella, alterna i punti di vista ed è lo strumento con cui
E allora siamo andati via
riesce a collocarsi in una sua dimensione. La storia è lineare e spietata come
la strada che la famiglia sta seguendo “in mezzo all’America con tutti quei
chilometri alle spalle e tutti quei chilometri davanti noi”: le uniche scosse
sono le tappe disperate che i genitori impongono ai figli, gli adulti ai
bambini. A ogni sosta, cedono qualcosa per poter continuare a viaggiare e la
spoliazione è costante almeno quanto umiliante: “Abbiamo continuato a barattare
la nostra roba per chilometri e chilometri. Abbiamo barattato la nostra vita
con quella di altre persone, gli abbiamo dato quello che forse poteva capitarci
e in cambio abbiamo preso quello che ci è capitato davvero”. E’ un rito che si
ripete, martellante, come un refrain e in effetti, per via delle reiterazioni e
dei suoi temi spigolosi E allora siamo andati via richiama l’andamento di un’aspra ballata
tradizionale, di un blues rurale o di una canzone della Carter Family. Anche il
linguaggio povero, grezzo e infantile si adatta con una certa naturalezza allo
scopo. Quello che stona e inquieta è l’insistenza, quasi compiaciuta, con cui
Michael Kimball ribadisce le condizioni lancinanti in cui ha infilato i suoi
personaggi che, dalla miseria all’incesto, sono costretti a sopportare tutto lo
spettro di uno strazio indicibile. E’ evidente fin dalle prime pagine di E
allora siamo andati via
che non ci sarà via di uscita e che la speranza è la prima a morire, per cui
non si capisce la necessità di ribadire in continuazione una condizione che è
già esplicita. E’ chiaro che la fuga non ha meta, che stanno tutti scappando da
qualcosa che si portano dietro, dentro e che “a forza di viaggiare e di aver
bisogno dovevamo andare sempre più lontano per raggiungere le cose più vere che
c’erano nella nostra famiglia. Dovevamo vendere tutto quello che era rimasto
nella nostra famiglia vera. Dovevamo passare per altri paesi e altri posti e
per tutte quelle cose che ci succedevano sulla strada”. Allora il tentativo di
guardare la storia dalla prospettiva dei bambini, con il linguaggio grossolano
e storpiato, se è pregevole a livello intuitivo e adatta alla dimensione on the
road, attraverso l’uso di ricostruzioni frammentarie, grezze, infantili come
vuole la realtà, a lungo andare si risolve nella ripetizione di uno schema,
come se Michael Kimball sapesse soltanto quello e infierire non è mai giusto,
anche (e soprattutto) se è solo fiction.
sabato 9 novembre 2013
Chaim Potok
Nella sua casa di
Brooklyn, Ilana Davita Dinn è un magnete per le storie, la loro destinazione,
il capolinea, la meta finale. Per accoglierle, nel trittico di Vecchi a
mezzanotte, Davita si
trasforma in modo sensibile ed è attraente in forme diverse perché “senza
storie non esiste nulla. Le storie sono la memoria del mondo. Senza storie il
passato viene cancellato”. Solo che “i racconti erano una presenza” ed è spontaneo associare una diaspora di
fantasmi, “tenaci, come la memoria”, alle voci che fanno visita a Davita. Da
New York ai confini europei, dalle strade torturate dall’afa al gelido fango
delle trincee, per lei, che è il protagonista in tutti i passaggi, una sorta di
testimone, si tratta di imparare, imparare la lingua di un secolo, il
ventesimo, che si è distinto per la ricerca nell’orrore, nella brutalità, nel
tradimento. Il primo degli ospiti di Vecchi a mezzanotte è Il custode dell’arca ed è, pare ovvio, Noah, un ragazzo che è
l’unico sopravvissuto della sua famiglia ai campi di concentramento a cui
Davita deve insegnare “una nuova lingua. Una nuova cultura”. Al dialogo serve
la necessità di un incontro, e ogni volta Davita e Noah devono trovare un guado
per avvicinarsi. La distanza è anche maggiore quando tocca a Leon Shertov.
Fuggito all’apocalisse della prima guerra mondiale, dove l’ha salvato Il
medico di guerra, dai
fantasmi delle purghe staliniane, a cui si è applicato con solerzia, da
brandelli di vita umana travolti dalla disperazione, deve imparare una lingua,
in mezzo alle tragiche imposizioni del “secolo breve”. Se nel passato di Noah
c’erano gli spettri delle vittime, Leon Shertov è inseguito dal rimorso dei
carnefici. Un esilio infinito. L’ultimo ad arrivare è Il maestro di tropi, Benjamin Walter, insegnante (a sua volta)
e scrittore abituato a misurare “le persone col metro dei libri che leggevano e
delle biblioteche che possedevano in casa”. I suoi codici e le sue inclinazioni
dovrebbero renderlo il più vicino a Davita che nel frattempo è cresciuta,
lasciando trasparire una sensualità, e invece sono separati da un abisso, che
Chaim Potok riesce a rendere con un’ossessiva concentrazione sui dettagli. Qui
la citazione è in un certo senso dovuta e consequenziale perché Vecchi a
mezzanotte conferma quello
che scriveva (l’altro) Walter Benjamin, quello vero: “Scrivere un romanzo
significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita
umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa
ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del
vivente” ed è l’esatta traduzione del romanzo di Chaim Potok. I tre atti di cui
è composto Vecchi a mezzanotte si incastrano a formare un ciclo perfetto e il numero biblico non è
una coincidenza. Il tenore è apocalittico ed è perché “viviamo in strani tempi.
Occorre proprio visitare un inferno diverso”. Per dirlo con una delle figure
retoriche dello stesso Chaim Potok, Vecchi a mezzanotte è “un maestoso arazzo di vite dal sapore
di sale”. Più che un romanzo, sembra un’ammonizione.
giovedì 31 ottobre 2013
David Foster Wallace
Tra i primissimi
tentativi di comprendere la cultura hip-hop e in particolare il rap, che ne è
la voce, l’excursus di David Foster Wallace e Mark Costello si basava in modo
esclusivo, o quasi, sulla spinta della curiosità, senza appoggiarsi su punti di
vista determinati o affrettate conclusioni. Essendo un tema delicato e
complesso, DFW si è affidato all’intuito e alla percezione, corroborate da un
sublime bagaglio di conoscenze e di parole che gli faceva sostenere in prima
battuta: “E’ a livello di un bregma fondamentale della cultura pop, dove certe
dicotomie come quelle fra arte e politica, mezzo di comunicazione e messaggio,
centro e periferia, si congiungono e devono coabitare, che si incaglia ogni
tentativo di giudizio estetico obiettivo sul rap compiuto da un ingranaggio del sistema
bianco, anche col massimo entusiasmo. Dato che il rap si autodefinisce creato da e per un gruppo che noi, in quantro cultura bianca postreaganiana,
consideriamo altro, è
un tipo di musica da cui tendiamo automaticamente a isolare ed eliminare alcune
fastidiose complessità, come l’unicità delle esperienze, dei gusti, delle
convinzioni, dei modelli, dei valori e degli obiettivi di ogni singolo artista,
allo scopo di raggiungere la definizione ampia e superficiale che ci viene imposta
dalla rubrica voce rappresentativa di una cultura aliena e minacciosa”. Più che illustrare il rap ai bianchi,
David Foster Wallace cerca di spiegarselo a se stesso e lo fa vagando tra
istantanee sociologiche (“Il rap è un distillato unico dell’energia e
dell’orrore della realtà contemporanea urbana degli Stati Uniti”) e lampi di
filosofia, soprattutto quando enuncia che quella del rap è “una visione
profondamente cupa: un presente in forma di distopia da cui non può emergere
alcun futuro, neppure costruito dalla fantasia”. Opinioni e posizioni
discutibili e, potendo, aggiornabili, anche in virtù del fatto che Il rap
spiegato ai bianchi risale
al 1990, ovvero all’inizio di tutto. Resta la sensazione che DFW abbia sfiorato
le estremità più importanti del rap e del suo senso ultimo. Da una parte, in
particolare quella bianca, c’è l’eterno fascino dell’épater le bourgeois, promuovendo in misura
eguale quell’ingenua e mitica caccia alla purezza che da sempre alimenta
l’immaginario pop e altrettanta, complementare inquietudine. Dall’altra c’è la
comprensione, molto precisa, dei meccanismi linguistici del rap che David
Foster Wallace sintetizzava così in una brillante definizione: “La cazzuta
genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del
suo mondo, tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento
nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita, ha
trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte
d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di
mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del
cesso”. Lungimirante.
martedì 29 ottobre 2013
William Burroughs
Forse il titolo
può indurre in inganno perché La scrittura creativa di William Burroughs non è quella strana
materia che provano a insegnare in tanti corsi e in tante scuole dalle
fondamenta tutto sommato discutibili. Questa succinta raccolta di saggi, per
quanto ristretta e striminzita, colleziona alcuni dei passaggi principali e
insindacabili delle visioni di William Burroughs che, proprio come prima e
sacrosanta discriminante, dichiara che “prima di tutto, ho riconosciuto lo
scrivere come un’operazione magica” e di conseguenza “nel mondo della magia
niente accade a meno che qualcuno voglia che accada, usi la volontà per farlo accadere, e ci sono certe
formule magiche per incanalare e dirigere la volontà”. Burroughs non procede in
modo lineare perché “la coscienza è cut-up; la vita è un cut-up” e le sue analisi sul linguaggio, sulle parole di cui
siamo composti, si sovrappongono all’idea, al modello, alla silhouette della
figura dello scrittore, esseri che “cercano di creare un universo in cui hanno
vissuto e dove dovrebbero vivere”. La distinzione, che è molto chiara e nitida,
ritorna con una frequenza sinusoidale nelle tesi e nelle ipotesi che William
Burroughs dipana nei suoi saggi: se “l’immagine e la parola sono gli strumenti
del controllo”, ed è difficile sostenere una teoria differente, se “la parola
scritta è un’immagine” e se “piantano spilli nell’immagine di qualcuno e poi
mostrano quell’immagine a milioni di persone”, La scrittura creativa è una forma di resistenza, una mappa per
aprirsi vie di fuga, un manuale di sopravvivenza, e nemmeno in senso tanto
metaforico. Lo era già quando questi articoli uscirono per la prima volta, tra
il 1975 e il 1977, vista la conclusione, abbastanza esplicita, da cui Burroughs
partiva e a cui di conseguenza tornava con convinzione: “Più la gente sa,
meglio è. E’ venuto il tempo di sbattere tutti questi segreti sul tavolo. Armi
segrete, dottrine segrete, tutto. Sono meno pericolose nelle mani del pubblico
che nelle mani dei servizi segreti e dei militari. La conoscenza appartiene a
chi la sa usare”. Chissà cosa avrebbe detto e/o scritto adesso: Burroughs
sosteneva che “ogni estensione tecnologica esteriorizzata produce un effetto di
ambientazione collettiva” e non solo aveva intuito bene l’infinito guado in cui
sarebbero finite le parole e le immagini, aveva capito anche che “per uscire da
questa impasse sarebbe auspicabile che sperimentassimo dei metodi di
comunicazione alternativa”. Ecco a cosa serve davvero La scrittura creativa, intesa come questa piccola antologia di riflessioni di un genio e
come espressione felice per identificare un’arte di cui William Burroughs ha
saputo cogliere e rendere lo spirito rivoluzionario avendo compreso che “ciascuno
scrittore si crea il suo universo. Quando comprate un libro voi comprate un
biglietto per viaggiare nel tempo dello scrittore”. Neanche a dirlo, il ticket
vale per la sola andata, che magari è basta e avanza, ma con un po’ di cut-up le destinazioni diventano infinite.
giovedì 24 ottobre 2013
Thomas Pynchon
E’ pop, è acido, è surf.
Spuntano come funghi i Beach Boys, i Byrds di Eight Mile High, Roy
Orbison e, va da sé, l’alter ego rock’n’roll di Thomas Pynchon, ovvero Frank
Zappa. E’ Vineland tinto di noir, se fosse possibile, o forse
è solo un’alternate take di Vineland frutto di uno strano e denso
trip. E’ Raymond Chandler con la colonna sonora dei Grateful Dead e, guarda un
po’, Doc ha lo stesso nom de plume di Hunter S. Thompson e si muove, parla e ha
qualche dubbio proprio come lui visto che “ormai era quasi convinto che
quell’epoca di temerarietà fosse conclusa; ma ora ricominciava a sentirsi
nervoso”. Doc è, o dovrebbe essere, un investigatore privato dal profilo hippie
e il caso che deve affrontare è una bolla che si espande, gonfiandosi di vite e
di volti e di storie. I personaggi non finiscono mai e ogni incontro è una
porta che si apre su altri mondi, su altri tempi, su altri livelli. L’assetto
di Vizio di forma è psichedelico, prevede il continuo movimento, non solo per
assecondare le rocambolesche peripezie di Doc e il suo girovagare sulla costa
californiana e attorno a Los Angeles. A ogni incrocio, a ogni appuntamento si
apre un nuovo e ulteriore girone: comincia come una diatriba nata nel contesto
di una relazione extraconiugale, poi si evolve in una truffa con tanto di
raggiro psichiatrico (Thomas Pynchon non si fa mancare niente), poi si incunea
in un conflitto per una partita di droga (ce n’è in abbondanza) e si gonfia
fino all’inevitabile complotto ordito da frammenti instabili e out of control
del governo e della repubblica. L’aura di Charles Manson si aggira onnipresente
e quando Vizio di forma comincia a ingranare marce più veloci, i
Doors, Jim Morrison in particolare, appaiono più virulenti delle altre
rock’n’roll band citate a piene mani. E’ giusto così perché rappresentano
meglio di chiunque altro il lato oscuro di un’era ed è opinione di Thomas
Pynchon che “se era destino che quel sogno prerivoluzionario finisse e che il
mondo senza fede, motivato solo dal denaro, riaffermasse il suo dominio su
tutte le vite che si sentiva in diritto di toccare, carezzare e molestare, ciò
sarebbe successo per opera di agenti come questi, zelanti e silenziosi,
impegnati a fare il lavoro sporco”. Il primo in cima alla lista era Ronald
Reagan che, da governatore della California e già protagonista al centro di una
macchina politica ben avviata, studiava operazioni di controllo militare delle
cittadine in caso di rivolta, altrimenti chiamate golpe. Questa ormai è storia
e il complotto c’era davvero, non era un’invenzione letteraria perché come
diceva Doc o altrimenti Xqq (in un altro trip a cavallo delle civiltà perdute
di Lemuria e di Atlantide): “Saranno contenti solo quando ci avranno tirato su
tutti con la rete a strascico, tagliati a pezzi e accatastati sugli scaffali
del Supermarket Amerika, e nel subconscio la cosa terribile è che noi, noi vogliamo che lo
facciano”. Vizio di forma è un romanzo caotico e
brillante in cui Thomas Pynchon riesce a “cavalcare l’onda del futuro”
attraverso le immagini sbiadite e sfuggenti di un variopinto passato.
Funambolico e geniale, as usual.
martedì 22 ottobre 2013
Joan Didion
Il viaggio Verso
Betlemme di Joan Dirion
attraversa un momento prospero ed effervescente della vita americana nel cuore
del ventesimo secolo, tra il 1961 e il 1968, eppure evidenzia in presa diretta
“la prova tangibile dell’atomizzazione, la dimostrazione che le cose cadono a
pezzi”. Anche quando il prodotto interno lordo è alle stelle e metà della
popolazione ha più o meno venticinque anni. Per quanto coinvolta, partecipe,
vicina e attenta, Joan Didion è un’osservatrice molto acuta, che riesce a
mantenere un distacco spontaneo per riuscire a cogliere una prospettiva
singolare e precisa. Un’attitudine che discende dalla sua personalità che lei
stessa riconosce “così minuta, così caratterialmente riservata, e così
nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare come la mia
presenza vada contro i loro migliori interessi. Ed è sempre così”. I soggetti e
i temi centrali dei saggi e degli articoli sono tra i più disparati: si va da
un ritratto di John Wayne al reportage da Pearl Harbour, dove Joan Didion si
stupisce di commuoversi di fronte alle corazzate affondate, dall’intervista a
Joan Baez alla rilettura di un cold case di cronaca nera, dal suo arrivo a New
York all’esperienza in Haigh Street tra i Grateful Dead e Allen Ginsberg fino a
un matrimonio a Las Vegas e alle paranoie di Howard Hughes. Tutti svolti con
una scrittura fluida, pungente e colta, per cui le caratterizzazioni dei
personaggi formano la parte essenziale di Verso Betlemme perché “le nostre persone preferite e le
nostre storie preferite diventano tali non per una virtù intrinseca, ma perché
rappresentano qualcosa di profondamente radicato, qualcosa di inconfessato” e
comunque quale che sia l’argomento Joan Didion concede poco, rimane incollata
alla sua percezione e, a distanza di mezzo secolo, la sua visione è ancora
molto nitida. Joan Didion ha soltanto il necessario spessore per confrontarsi
con tante, differenti realtà: ha anche il coraggio di esprimere quelle
perplessità e quel pensiero critico che qualcuno vorrebbe ridurre a moralismo e
che invece è un punto di vista, un’osservazione, una linea tracciata, una
scelta di campo. Il vero dilemma che alimenta Verso Betlemme è piuttosto che “ogni incontro esige
troppo, logora i nervi, prosciuga la volontà, e lo spettro di un’inezia come una
lettera non evasa provoca un senso di colpa così sproporzionato, che rispondere
alla lettera diventa impossibile. Assegnare il giusto peso alle lettere
inevase, liberarci dalle aspettative degli altri, restituirci a noi stessi:
ecco dove risiede il grande, singolare potere del rispetto di sé. Senza questo,
finiamo per scoprire l’ultimo giro di vite: fuggiamo per trovare noi stessi, e
non troviamo nessuno in casa”. Verso Betlemme è una rappresentazione efficace della battaglia di
Joan Didion al confine tra giornalismo e narrativa e, oltre a rivelare un
talento indiscutibile, capace di fondere la profondità delle analisi con un
tono sempre eloquente, è la prova di un raro acume, ancora intatto.
venerdì 11 ottobre 2013
Charles Mingus
Charles Mingus, fra tutti i
jazzisti, fu il più feroce, il più duro, il più irascibile e anche il più
coerente perché, come scriveva Geoff Dyer nel suo ritratto in Natura morta
con custodia di sax, “non sapeva perché
fosse fatto a quel modo, ma sapeva che doveva essere così e non altrimenti”.
Com’era lo racconta in prima persona nella sua autobiografia, Peggio
di un bastardo, dove si concede con la
consueta, straripante generosità, e senza mediazioni, a proposito della musica,
che poi coincide in gran parte con la sua vita: “La mia musica dimostra la
volontà della mia anima di vivere oltre la tomba del mio sperma, è la mia
metatesi, la nuova sede della mia anima eterna. Amati e amanti, unione, amore.
Concepimento, uno più uno fa due fa quattro, fa otto, fa sedici, fa trentadue,
fa te”. Con la stessa verve Mingus racconta la sua infanzia e si rivela un
narratore dai toni forti e sincopati: “Quando ero piccolo una volta caddi e
persi i sensi. C’era un bambino lì in terra tutto sporco di sangue. Quel
bambino ero io e allo stesso tempo non ero io. ero qualcun altro lì in quella
stanza, eppure i miei non potevano vedermi. Ero una specie di vecchio saggio,
vecchio come il tempo. Dipendeva solo da me lasciare lì in terra quel bambino e
andarmene verso l’eternità o soffiargli di nuovo dentro la vita. Così adesso
riesco a vedere te e tutto il resto con la stessa chiarezza di quel giorno
quando vedevo tutti gli altri e me stesso e sarei potuto restare lì o salire in
macchina con loro senza essere visto”. Peggio di un bastardo è una sorta di vademecum in presa diretta di
un’epopea intensa e drammatica che ebbe la musica (dal blues al jazz, tutto
compreso) al centro di ogni movimento. Il suo valore sta proprio nella
ricostruzione vivida delle immagini nella vita nelle strade di New York
(“Voglio solo farti sapere dove ti vai a cacciare. Perché se ti beccano finisci
peggio di Al Capone, perché anche tu sei un nero che ha delle donne bianche. Se
abiti nell’East Side di Manhattan, quelli penseranno che hai la grana anche se
non ce l’hai. Non farti venire in giro con i magnaccia, neri o bianchi. Così ti
fai etichettare”). La cruda versione di Peggio di un bastardo dei rapporti tra uomini e donne, tra bianchi e neri,
tra musicisti e il resto del mondo nonché la grezza espanzione di tutte le
contraddizioni, le controversie e le follie che l’hanno visto protagonista
diventano sorprendenti quando Mingus si occupa di questioni politiche, che
affronta dimenticandosi di ogni singola sillaba contenuta dalla parola
diplomazia: “E’ ora di sapere cosa fanno i nostri leader che ci portano a
morire per i loro vizi, le loro evasioni. Puttane! Strappategli via i vestiti
ai nostri leader! Oggi! In tutto il mondo! E se cercano di scappare tagliate lì
dove dovrebbero avere le palle. Salvatelo voi questo mondo malato, o mie
inestimabili puttane”. Per la cronaca alla sua versione dei fatti va aggiunta
quella scritta dalla moglie Sue Mingus, ovvero Tonight At Noon, anche se è sempre meglio la fonte diretta.
lunedì 7 ottobre 2013
John Fante
I due brevissimi racconti, qui accoppiati, ruotano attorno ai
perimetri di altrettante case nelle valli californiane e John Fante, si sa, è
un architetto d’interni molto abile ed efficace nel ricostruire le dimensioni e
l’atmosfera della vita tra le mura domestiche. I rapporti famigliari, sempre
sull’orlo di una crisi di nervi, rendono le cucine, i soggiorni, le camere da
letto dei veri e propri campi minati a cui non c’è trasloco che possa porre
rimedio perché certe ossessioni rimangono sempre nel bagaglio. Il caso dello
scrittore tormentato è da manuale: una coppia crede di aver trovato il suo nido
ideale, anche perché ammette il protagonista “eravamo stanchi di cercare, il
prezzo era alla nostra portata, e a me il posto piaceva pure”. Il problema è
che i precedenti proprietari ormai sono fantasmi che vagano per i corridoi e
sulle scale e la felicità rimane legate all’impressione iniziale, come
riconosce lo scrittore tormentato: “C’era sole, spazio, aria fresca. Qui, pensavo, c’è la
pace; qui mi verranno le parole e le pagine cresceranno una dopo l’altra. E
cominciai a credere a quello che avevo detto fin dal primo momento: che quella
casa l’avessi davvero già vista nei miei sogni. Le parole non vennero, e
nemmeno le idee. Vennero invece i pittori, e i falegnami, perché mia moglie
voleva cambiare la casa dentro e fuori, per cancellare ogni traccia del
passato”. I guai degli spettri sono relativi rispetto a quello che possono fare
gli esseri viventi e infatti quando il padre comincia a invitare gli amici (muratori
come lui) a godersi la cantina l’idillio immobiliare svanisce, e non solo
quello. Lo scrittore si trova spaesato, straniero e in esilio nella sua stessa
casa (“La mia serenità subì gravi intrusioni. Non riuscivo a scrivere”) e come
se non bastasse il trambusto che gli organizza un giorno sì e l’altro pure, il
padre lo smimuisce senza pietà:
“Quello me lo chiami lavoro, la roba che scrivi?”, e il sogno di un posto dove
poter stare evapora per sempre. E’ facile immaginare come finisce Il caso
dello scrittore tormentato che John Fante spiega così: “Per gli scrittori, sonno e
prosa vanno insieme. Se ti viene l’ispirazione, se le pagine funzionano, le
notti sono serene. Se mancano le parole, non si dorme. E quello era un periodo
così. Non riuscivo a dormire”. Per inciso, il padre di Il caso dello
scrittore tormentato non è molto diverso da quello di Sogno di mamma: entrambi non hanno
“praticato la tenerezza” e la loro misantropia non è negoziabile. La vita
imposta dal capofamiglia in Sogno di mamma dipende, più di tutto, dalla qualità della
preparazione dei peperoni, che vuole cotti e cucinati alla perfezione, per cui
il giorno che torna a casa e li trova bruciati si aprono le porte
dell’apocalisse e tutto un mondo viene giù. John Fante è straordinario nel mettere
in cornice le scene fondamentali e anche relegato nell’ambito ridotto delle short stories riesce a illuminare due perle grezze come Il
caso dello scrittore tormentato e Sogno di mamma. Da riscoprire.
lunedì 30 settembre 2013
Francis Scott Fitzgerald
Catturare per
sempre il riflesso di una stagione, la luminescenza di un tramonto,
l’affievolirsi notturno di una danza, la sfumatura calante della parabola di
una vita, la coda interminabile di una suite jazzistica davanti alla sterminata
presenza dell’oceano, irridente nel suo infinito movimento a sfidare le
solitudini umane, è una missione impossibile con il limitatissimo strumento
della scrittura. Più di tutto, coglierne la distanza, e insieme la prospettiva,
dentro l’avvertimento di una luce crepuscolare, è riuscito soltanto alle
panoramiche marine e alle finestre oblique inondate di pulviscolo di Edward
Hopper che usava la pittura per tracciare trame tanto cangianti quanto
impercettibili. Ribaltando gli strumenti e le relative applicazioni, Francis Scott
Fitzgerald è riuscito nel miracolo di mettere a fuoco l’inafferabile atmosfera
di un’epoca e insieme la natura di un grappolo di emozioni sfuggenti. L’elevato
tasso di romanticismo che Il grande Gatsby asseconda è sostenuto dall’equilibrio con cui Francis
Scott Fitzgerald si regge “dentro e fuori, al contempo incantato e respinto
dall’inesauribile varietà della vita”. L’immedesimarsi nel tenore quotidiano
che si sviluppa tra le ville di Long Island, in apparenza un’imperturbabile
enclave senza peccato, è un cammino acrobatico su un filo di rasoio che porta Francis Fitzgerald Scott a raccontare il dettaglio più microscopico con
un uso macroscopico (e inarrivabile) delle parole. A maggior ragione quando
deve inquadrare lo spirito del suo protagonista perché, “se la personalità è
una serie continua di gesti riusciti”, Il grande Gatsby si è identificato nell’anfitrione di
un’era, aprendo le porte della sua villa, dove “le persone non erano invitate:
ci andavano”, a una galassia incredibile, evanescente e pervasa da una
frenetica, invisibile tensione. E’ Il grande Gatsby che non è esente da ombre perché “nessun
fuoco, nessuna freschezza può sfidare quello che un uomo accumula nel suo cuore
fantasma” e la tragedia su cui si immola è logica e coerente con le movimentate
orbite di collisione dei suoi protagonisti, così come, nelle tonalità scelte da
Francis Scott Fitzgerald è la perfetta riduzione di “un mondo nuovo, materiale
senza essere reale, dove poveri spettri, respirando sogni come aria, andavano
alla deriva”. I fuochi d’artificio di Jay Gatsby diventano un incendio che
divora tutta la comitiva che gli si raccoglie intorno e l’orizzonte si tinge di
un colore vermiglio più denso, cupo e impenetrabile. Un tempo stava volgendo al
termine e, chissà, nemmeno i
mutevoli party del grande Gatsby erano esenti dall’incombente presagio e, come
se avesse intuito un destino senza comprenderlo, “non sapeva che il sogno era
già alle sue spalle, in un punto di quel vasto buio oltre la città dove i campi
oscuri della repubblica si estendevano nella notte”. Rimane il ricordo e forse
la nostalgia di quei, “fatti casuali in un’estate affollata” visto che seguire Il
grande Gatsby “era come
sfogliare a tutta velocità una dozzina di riviste”. Fa ancora lo stesso
effetto.
giovedì 26 settembre 2013
Jack Kerouac
Scritta nel 1957 e
rimasta avvolta nella polvere fino a qualche anno fa, Beat Generation è una commedia che fa onore al suo titolo.
E’ sgangherata, eccessiva, divertente, anche se ha una sua solidità nei
dialoghi sincopati che a vario titolo prendono forma con Buck, Milo, Tommy,
Manuel, Slim, Jule, Vicki, Irwin, Mezz, Cora e Paul. Una carrellata di
personaggi che bevono, giocano e più di tutto, come ha sottolineato A. M.
Homes, “vogliono sapere come e perché esistono e poi, in una specie di
combustione spontanea, alla fine arrivano a scoprire che una risposta non
esiste, esistono solo l’attimo in cui ci troviamo e le persone attorno a noi”.
Se il tema è in buona sostanza proprio quello, le improvvisazioni deviano
spesso e volentieri in sacrosanti voli pindarici fino a quando ci si chiede:
“Quante sabbie ci sono, che devono essere tolte dall’oceano Pacifico, ogni
volta che versi un milione di galloni di succo della gioia nel vuo dell’intero
spazio, e importa davvero qualcosa”. Dalla buca del suggeritore a quel punto
della pièce arriva un bisbiglio che dice: “(Beve)”, e non sono previste
controindicazioni. Le chiacchiere fluttuano inesorabili almeno quanto i
propositi di Jack Kerouac che erano, al solito, fantastici e magniloquenti
perché, prima di lasciarsi sfuggire Beat Generation in un angolo, e di
imbarcarsi in altre mirabolanti avventure, proclamava: “Quello che voglio è
rifare il teatro e il cinema in America, imprimere un moto spontaneo, rimuovere
i concetti imposti di situazione e lasciare che la gente vada a ruota libera come fa
nella vita reale. Ecco che cos’è questa commedia: non c’è una particolare
storia, non c’è un particolare significato, c’è solo il modo di essere delle persone. Ogni cosa
che scrivo è scritta immaginando me stesso come un angelo che fa ritorno sulla
terra e, tristemente, la vede com’è”. La direzione intrapresa è suggestiva ed è
la lettura di A. M. Homes a
renderla esplicita: “A differenza di quei reduci della seconda guerra mondiale
che, dopo essere tornati a casa, si erano sposati e trasferiti nei sobborghi,
abbandonandosi completamente al sogno americano e alla cultura rampante del di
più e di più, allargando a dismisura il loro stile di vita, la vita beat veniva
vissuta ai margini. I beat avevano poco da perdere e non molto in basso da
cadere”. E’ un’annotazione interessante perché riporta la Beat Generation alle sue radici blue collar: la
“guerriglia linguistica” di Jack Kerouac nasce dai bassifondi ed è per questo
che, come dice A. M. Homes, “Beat Generation è un dono, una caramella trovata sotto i cuscini di
un divano. Per quelli di noi che di Kerouac non ne hanno mai abbastanza, ecco
qualcosa in più”. Anche se non è molto, con “tutta questa mediocrità che è
entrata nella nostra vita negli ultimi tempi”, può sempre servire a guagnarsi
il “permesso di esistere”. Un piccolo dettaglio scenografico. Alla fine c’è un
flauto che suona. Lo immagino un po’ stridente e il profilo del jazzista
nell’ombra è quello di Roland Kirk.
lunedì 23 settembre 2013
Leonard Cohen
Il Libro della
misericordia di Leonard
Cohen occupa una posizione speciale nell’arco di tutta la sua espressione. E’
un bizzarro breviario, non allineato, non conforme, non adeguato agli schemi e
alle leggi della fede così come a quelle della scrittura. Volendo è persino
incompiuto, e gran parte del suo fascino risiede proprio lì. E’ una forma di
libero dialogo, anomalo e impossibile perché se è difficile “studiare senza un
amico”, è altrettanto arduo confrontarsi con interlocutori divini e/o
invisibili. E’ lo “scudo della solitudine” la forma di protezione che permette
a questi arabeschi un po’ poesia, un po’ invocazioni, un po’ racconti e un po’
meditazioni di concatenarsi l’uno con l’altro in una sequenza logica. Le
“lunghe sessioni di prova piene di rettifiche, applausi immaginari,
umiliazioni, proclami di vendetta” sono un modo per parlare con se stessi
pregando: l’univocità del tema non rende onore alla complessità della figura di
Leonard Cohen e non di meno è proprio questa caratteristica a rendere straordinario
il Libro della misericordia. Se l’aspetto religioso ha precisi contorni mistici, il tono è
colloquiale e confessionale “da solitudine a unità”, come dice Leonard Cohen,
precisazione che esprime benissimo il senso di un dialogo a metà: il rapporto
con l’altro è scheggiato, improprio, limitato e segue vie misteriose, perché il
divino è intangibile e si rivolge a quel “signore del caso fortuito che è
l’essere umano”. Per tutto il Libro della misericordia Leonard Cohen è in mezzo a un guado, come
gli è successo di frequente, e la sua ammissione è esplicita arriva quando
dice: “Ho spaccato in due il tuo mondo, e sono andato a finire da entrambe le
parti”. Anche separato e conscio che il tentativo di lasciarsi stritolare dalla
comodità dell’ignoranza “era una strategia, e non funzionò affatto”, Leonard
Cohen non rinuncia comunque ai suoi strali: “Qui la distruzione è appena
percettibile, e là il corpo è lacerato. Qui ci si rende conto che tutto va in
frantumi, e là i morti, inconsapevoli, trascinano i loro putridi resti. Tutti
commerciano in lerciume, portano l’uno all’altro il proprio lerciume, tutti
camminano per le strade come se la terra non si ritraesse per il disgusto,
tutti allungano il collo per mordere l’aria, come se il respiro non si fosse ritratto
in sé”. Una visione apocalittica, nel senso proprio di rivelatoria, che Leonard
Cohen richiama spesso nel Libro della misericordia e in modo sempre più esplicito perché
“tutto ciò che non sei tu è l’uomo che crolla contro la propria fronte e la
fronte lo schiaccia. Tutto ciò che non sei tu se ne va sempre più lontano,
raccogliendo le voci della vendetta, mietendo perduti trionfi lontano dalla
vera e doverosa sconfitta”. A quel punto, Leonard Cohen si ritrova “solo con i
gusci e le conchiglie” e un ultimo, grezzo e magnifico vespro che contiene ed
esprime tutto il senso di questi esercizi spirituali: “Anche se non credo,
vengo ora a te, e sollevo il mio dubbio alla tua misericordia”. Inafferrabile.
mercoledì 18 settembre 2013
Louise Erdrich
Siamo nel North Dakota, è il 1988, e per
attraversare il territorio in cui sorge La casa tonda bisogna prima di tutto
risalire al peccato originale nelle vene dell’America perché alla fonte, come
scrive Louise Erdrich, la logica era “arraffare terra indiana più in fretta che
si può e in tutti i modi possibili e immaginabili. La speculazione sui terreni
è la borsa valori dell’epoca. Lo fanno tutti. George Washington. Thomas
Jefferson”. I fondatori della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Non
è facile da digerire ed è per quello che le riserve hanno assunto un carattere
ambivalente. Sono terre di frontiera in cui l’idea stessa del diritto, delle
istituzioni su cui si fonda la moderna nazione americana, gli Stati Uniti, è
latente e ambigua fin dai registri delle nascite e delle morti visto che “di
generazione in generazione siamo diventati un impenetrabile sottobosco di nomi
e di rapporti”. La casa tonda è il luogo rituale, poco più di una capanna in
riva a un lago, accanto alla quale viene aggredita, violentata, massacrata
Geraldine Coutts. Solo per un caso fortunato, uno di quei piccoli dettagli che
Louis Erdrich ama disseminare nei suoi racconti, la donna è riuscita a salvarsi
dall’aggressione che, nell’idea del suo carnefice avrebbe dovuto risolversi con
un bel cadavere carbonizzato. Attorno a lei c’è tutta la comunità e la famiglia
nativa a cercare di curare ciò che le sta erodendo l’anima e la vita come
“un’infezione dello spirito” e più di tutti il marito e il figlio, Joe. Il
primo è il giudice della riserva e cerca di districarsi come meglio può nella
babilonia di codici e giurisdizioni per amministrare una parvenza di giustizia.
E’ una vocazione che si scontra tutti i giorni con il fallimento e soprattutto
con la sensazione di essere stranieri sulla propria terra. Joe è poco più di un
bambino che ha appena scoperto la birra e quel poco di indipendenza che può
concedere l’uso della bicicletta e ha un’ammirazione sconfinata per il padre,
che vede come un saggio uomo delle istituzioni. Quando scopre che in realtà le
sue sentenze hanno sempre riguardato piccole diatribe locali, capisce che non
potrà contare su di lui per risolvere il mistero della violenza subita dalla
madre. Ci vuole proprio l’innocente libertà di associazione che riesce ad
annodare le leggende e il linguaggio nativo, i codici tribali e le leggi
federali, piccoli scampoli della realtà e “così tante cicatrici che non era
facile contarle” per mettere insieme la visione di un mondo complicato. Quello
delle riserve, che non sono soltanto il lascito di una sconfitta, la prima e
fondamentale perdita americana, ma continuano a essere una zona grigia di
violenza e di dolore per le donne. Louis Erdrich riesce a mantenere in
equilibrio tra la sua storia e quella tragica realtà con una delicatezza e una
cura nei suoi personaggi che sono ammirevoli e con un finale, dolente e
bellissimo, in cui l’unico vero giudice, la vita, emette il suo verdetto e “la
sentenza è: soffrire”. Ha ragione Philip Roth: stupendo.
martedì 17 settembre 2013
Percival Everett
In Ferito, Percival Everett sceglie il ranch di
John Hunt come un crocevia singolare in cui si intersecano vecchie e nuove
tensioni americane, un luogo in cui la magia naturale (animali compresi) si
annoda alle forme incompiute e inconsulte della violenza degli esseri umani, i
rigori e le difficoltà del paesaggio e le perversioni razziste e omofobe. Anche
se Percival Everett sveglie un tono informale, Ferito si sviluppa in modo
esponenziale, una spirale che si snoda velocissima, tagliente, per giungere a
un finale crudele e amaro perché in fondo la frontiera è proprio così. John
Hunt si è insediato a Highland, Wyoming ad allevare ed educare cavalli. E’
nero, colto, appassionato e risoluto e non è capitato laggiù per errore, anche
se sa deve e dovrà lottare tutti i giorni per sentirsi a casa: “Non provavo
necessariamente affetto per la storia di questa gente e certo non per il mitico
West, il West che non era mai esistito. Ma era diventata la mia terra. E forse
era proprio questo l’effetto che aveva questa terra su quelli che avevano
scelto di viverci”. Il suo ranch è isolato, il luogo ha una sua ruvida e
impervia bellezza e Highland “è un paesino normale. Quasi tutti bianchi. Gli
indiani sono trattati di merda. Insomma, l’America”. L’ambiente è ostile e può
solo peggiorare: quando Wallace, un giovane aiutante di John Hunt scompare e
viene trovato ucciso, il confine tra l’ignoranza e la brutalità viene varcato
per sempre. Nel ranch Wallace non godeva di grande popolarità, mettiamola così,
perché nonostante l’impegno, la vita tra i cavalli e la prateria non era il suo
destino. Wallace era gay e il suo presunto assassino, presto arrestato, viene
trovato suicida in carcere. Fino a questo punto John Hunt rimane ai bordi della
corrente feroce e violenta che serpeggia tra Highland e il suo ranch, ma è
davvero Ferito
quando scompare David, figlio di un vecchio amico e suo ospite. David era gay e
viene trovato massacrato in modo orribile e senza senso. E’ allora che John
Hunt, qualcosa del predatore è rimasto nel suo nome, rimarrà coinvolto nella
scia di sangue perché “la frontiera è ovunque” ed è una linea sottile che
unisce la vendetta e la giustizia. Ispirato, per stessa ammissione di Percival
Everett, al caso di Matthew Shepard, un giovane gay ucciso brutalmente nel 1998
proprio nel Wyoming, Ferito è una coraggiosa cavalcata lungo i crinali più
scoscesi delle fondamenta americane. Il West, la vita nella wilderness e l’idea
stessa di frontiera sono stati troppo a lungo per giustificare l’ignoranza, la
diffidenza e la prevaricazione nei confronti dell’altro solo perché indiano,
nero, gay, straniero o comunque, in un modo o nell’altro, diverso. Lo si
percepisce, nella sostanza di Ferito: salvo una flebile comprensione di se stessi e
un’infinita stanchezza, Percival Everett non concede molto ai suoi personaggi e
interpreti. L’unico essere vivente che John Hunt riesce a salvare è Emily: un
piccolo cucciolo di coyote, accecato e mezzo carbonizzato a cui sono rimaste
tre zampe, ormai simbolo, chissà, di un’umanità che non riesce a stare in
piedi.
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