Fredric
Jameson ci tiene a precisare, fin da subito, che per comprendere Il
desiderio chiamato utopia bisogna distinguere “l’esperienza
esistenziale” dal “tempo storico”, l’immagine soggettiva e la
destinazione collettiva, le identità e le differenze, i sogni
partoriti dalle ideologie e le variabili architettoniche. Un fatto, a
livello preliminare, è assodato e decisivo: “La forma utopica è
di per sé una significativa riflessione sulla differenza,
sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità
sociale. Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento
fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato
liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una
cometa”. Questo è il senso compiuto su cui prospera Il
desiderio chiamato utopia che poi, nella sua estrapolazione e nel
confronto con la realtà, si svela sempre un percorso tortuoso e
problematico, prima di tutto, perché “il politico è sempre un
errore categoriale che nasce nei momenti di crisi o di più profonda
contraddizione e prende la forma in cui appare in base alla natura
della crisi. Sarebbe allettante ma superficiale limitarsi a osservare
che lo stesso spazio del politico (e del potere) varia in maniera
talmente radicale a seconda del modo di produzione del quale è
funzione da non poter essere generalizzato e da resistere a qualsiasi
definizione concettuale”. Anche l’analisi di Fredric Jameson in
quei frangenti diventa (parecchio) contorta: si avvita in
speculazioni filosofiche, sociologiche e psicologiche fin troppo
erudite, specifiche e comunque ostiche, almeno a una prima lettura.
Del resto, una certa impalpabilità dell’utopia è ammessa dallo
stesso Jameson: “E’ paradossale che una forma che dipende in
maniera tanto assoluta dalle circostanze storiche (fiorisce soltanto
in condizioni specifiche e in rari frangenti) debba sembrare
essenzialmente astorica, che una forma che scatena inevitabilmente
passioni politiche sembri evitare o abrogare del tutto la politica, e
che un testo tanto dipendente dal capriccio e dall’opinione dei
singoli sognatori sociali si trovi disarmato di fronte alle istanze
del soggetto individuale e della sua azione fondatrice”. Funziona
molto meglio dove la dimensione dell’utopia è messa in discussione
nelle invenzioni letterarie, quelle fantascientifiche su tutte, non
solo per la loro capacità di mostrare mondi irraggiungibili e futuri
remoti, ma anche perché evidenziano “un elemento caratterizzato da
una parola decisamente sospetta, entusiasmo. E’ la vocazione
intellettuale nel suo stadio più febbrile e spassionato, al culmine
della propria eccitazione potenziale, impegnata in una missione che
più di qualsiasi altra sembra concentrare ciò che definisce
l’intellettuale, cioè il rapporto con la scrittura”. Fredric
Jameson attinge a una fornitissima bibliografia, con lo spirito di
Philip Dick a vegliare sui romanzi di Michael
Swanwick, Greg Bear, Samuel Delany, Isaac Asimov, Arkady
e Boris Strugatzki, Olaf Stapledon e Ursula Le Guin, la più
citata, a cui tocca il compito di semplificare lo sguardo verso le
architravi delle utopie e delle distopie: “Le cose non hanno uno
scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte
svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? La
cosa non ha importanza, è che siamo una parte. Come un filo di lana
in un tappeto o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e
noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che
soffia sull’erba”. Così, sì, il desiderio, e pure l'utopia, sono chiarissimi.
martedì 31 ottobre 2017
sabato 28 ottobre 2017
Henry James
La
panchina della desolazione è la risposta, compressa in un
brevissimo romanzo, al soggetto proposto da Henry James con questo
dettato: “Scoprite lo stato d’animo, indovinate la natura
dell’agitazione da cui è posseduta la persona così stranamente
rappresentata”. Il centro dell’attenzione è Herbert Dodd, una
personalità senza pretese, fin troppo concentrato su se stesso al
punto che Kate Cookham, dietro la minaccia di trascinarlo in
tribunale, pretende e ottiene da un sostanzioso risarcimento per la
loro mancata unione. Matrimonio è una parola che non appare tra i
due, e una delle tante che Henry James lascia in sospeso: Herbert
Dodd, modesto libraio, si ritrova a subire il peso di un debito che
non sarà mai in grado di ripagare. Anche dopo aver sposato Nan
Drury, la sua resa lo porterà a riflettere sul “senso ritrovato
della desolata e inutile consapevolezza che aveva accompagnato l’atto
del suo matrimonio”. Con la diafana e fragile Nan Drury sulla
panchina va in scena la debolezza, l’arrendevolezza di un uomo e le
sue contorsioni davanti alle intemperie dell'amore. Le qualità di
Herbert Dodd non sono moltissime, e con tutto il grave fardello che
lo accompagna, vedrà dissolversi la sua famiglia e rimanerrà, solo,
sulla panchina in contemplazione del “mondo del suo presente
squallore”. E’ lì che assiste alla danza di “spettri di
stagioni morte”, fino a quando non riappare Kate Cookham. La forma
ellittica della storia ruota attorno ai due, proprio come se fossero
i fuochi, e se nella prima parte è concentrata sull’inerzia di
Herbert Dodd, nella seconda vede lei protagonista di un colpo di
scena, ma che lui, ancora una volta, interpreta a senso unico visto
che “tutto era stato costruito su quella profanazione, ma, non
sapeva come, stranissimamente, la cosa gli sfuggiva; così che, nel
più bizzarro dei modi concepibili, quando sentì che non doveva
lasciarla andare, fu come alzare la mano per salvare il
passato, l’orrendo, concreto inalterabile passato, esattamente in
quanto lei era stata la causa che quel passato era esistito e che
egli aveva dovuto subirlo”. Herbert Dodd e Kate Cookham sono due
magneti che si attraggono e si respingono nello stesso tempo e l’idea
di un “rapporto sociale” che viene tradito, la frattura che
paradossalmente li lega ancora è uno stretto legame platonico che
si consuma proprio con La panchina della desolazione come
ritrovo, una boa attorno alla quale gira la storia, e il suo
capolinea finale. La tensione è palpabile, e se non si capisce cosa
possa volere lei, si vede dove è arrivato lui, quando, firmando una
sorta di malinconico armistizio con se stesso, dichiara: “Ho
pensato per lunghi anni, credo, tutto quello che ero capace di
pensare. Ho pensato che non so pensare più. Quindi è finita”. E’
quasi un sollievo: la pressione è continua, anche nell’arco di un
centinaio di pagine Henry James articola frasi lunghe, elaborate,
ipnotiche, uno stile che si definisce fin dall’incipit quando
introduce La panchina della desolazione ricordando che “le
parole erano state dette nude e crude; ma una volta dette, sul punto,
anzi, d’essere pronunciate, egli sentì di poter affermare a se
stesso che esse gettavano, quasi la donna avesse girato un
interruttore elettrico, la luce più viva proprio sulle sue ragioni”.
Perfetto.
martedì 24 ottobre 2017
Megan Mayhew Bergman
Forse
è soltanto un’involontaria coincidenza, ma i Paradisi minori
di Megan Mayhew Bergman cominciano dedicando tutta l’attenzione
agli uccelli per finire con i pesci. Quasi un’evoluzione al
contrario, con una specie, quella umana, che resta indefinita e
prigioniera di se stessa, a metà strada tra la sofferenza in
cattività e l’amaro sollievo dell’estinzione. La coabitazione
sullo stesso pianeta di esseri che non sanno ed esseri senzienti e
convinti della propria indifferenza, genera il substrato che pervade
i racconti di Paradisi minori. E’ un tema che si snoda in
sottofondo, per quanto gli animali siano in risalto in ogni storia,
ma che tende a sottolineare l’innata conflittualità degli esseri
umani, le loro complicate relazioni, i frutti dolci e acidi che
maturano nei pensieri, perché “la verità è che siamo pazzi,
malati d’amore, tutti quanti”, come si dice in L’arte della
casalinga. E’ un racconto commovente dove tutto è doppio: due
madri, due case, un pappagallo che ripete, ma soprattutto una donna
che si riflette nello specchio della vita senza ritrovarsi. Un
problema che gli altri animali evidentemente non hanno. E’ su
questo fragile equilibrio che si muove la narrativa di Paradisi
minori: la sensazione che fra noi e gli animali ci sia una
connessione più intensa di quello che sembri, se non altro perché
“siamo parassiti del mondo, tutti quanti”, come dice uno dei
personaggi di Le balene di ieri. E’ uno dei racconti più
interessanti per via dell’intransigenza ambientalista del
protagonista, che è ossessionato dall’incubo della
sovrappopolazione e della resistenza di Lauren, la sua compagna, che
è rimasta incinta. La diatriba genera tensione a sufficienza per
immaginarlo come un capitolo di un romanzo, forse l’inizio, e a
suo modo risolve anche uno dei nodi cruciali dei Paradisi minori
quando Lauren immagina come “tutti i dilemmi cerebrali del mondo
non possano niente contro i fatti fondamentali della biologia”.
Anche gli altri racconti sono immediati e fruibili: cesellati con il
gusto dell’artigianato, semplici e raffinati nello stesso tempo,
offrono molti interrogativi sui cui soffermarsi scrutando le parole
che, alla fine, convergono sempre nel ripercorrere tutti gli
spostamenti dei personaggi che, uno dopo l’altro, si allontanano da
casa. L’ecologia dei sentimenti ha una sua specifica e principale
funzione nell’inseguirsi e perdersi, trovarsi e lasciarsi, un’altra
abitudine che gli animali, più fortunati di noi, non hanno. C’è,
in tutto questo movimento, molta America nei Paradisi minori di
Megan Mayhew Bergman con tutta la cultura e le atmosfere della
wilderness e insieme con la radicata convinzione di poter accedere
alla “terra trasformata”, come la chiamava William Cronon. Lo
spazio che siamo chiamati ad abitare non è infinito e quando la
protagonista di Un’altra storia a cui lei non crederà dice
“mi viene in mente che ogni tanto finiamo per abitare in luoghi che
non ci appartengono”, non fa altro che riflettere, oltre alle
proprie condizioni personali, sull’invadenza e la pericolosa
insipienza del genere umano. Megan Mayhew Bergman ha una sua
delicatezza nel confrontarsi con gli animali, domestici o selvatici
che siano, per come penetrano nella nostra esistenza e per come noi
decidiamo e pesiamo sulla loro. L’emblema è il coyote che si
aggira disorientato e affamato nell’habitat stravolto di Caccia
notturna: ci ricorda che gli animali subiscono le tensioni e le
paure che creiamo e sopportiamo noi, solo che non hanno la
letteratura per esorcizzarle.
lunedì 23 ottobre 2017
Stephen Crane
“Sei
un uomo?” chiede un bambino affamato e solitario all’essere
stremato e impolverato che sta risalendo la collina. Non c’è posto
per gli eroi nelle cronache belliche di Stephen Crane, non c’è
alcuna celebrazione degli atti di valore, anche quando sono
sconsiderati e o disinteressati. Il più delle volte scoprono
situazioni surreali, paradossali o semplicemente folli. Cambiano i
fronti, da Cuba alla Grecia alla guerra civile americana, ma
l’impressione è come se “l’umanità intera stesse scappando in
un’unica direzione, troncati tutti i legami che ci uniscono alla
terra”. Stephen Crane vede il delirio degli uomini in guerra e lo
racconta a distanza ravvicinata, e non solo: sembra percepire con
spiccata sensibilità le emozioni più intime e profonde, o almeno
quello che ne resta perché “il gran carnevale del dolore” lascia
attoniti, ammutoliti, privi di ogni forza. Quando si ha la certezza
che “la sconfitta è morte, a meno che non si verifichi un
miracolo” non resta molto, e Stephen Crane narra la partecipazione
e lo stupore, che rimane inalterato anche dopo pagine e pagine sangue
e fango, per la trasformazione degli esseri viventi in un’altra
materia, molto simile alla terra, come se fossero già morti e
inumati, senza rendersene conto. Questa visione è esplicita
nell’incipit di Un mistero di eroismo: dettaglio di una
battaglia americana: “Le uniformi scure degli uomini erano così
impolverate per i combattimenti incessanti tra i due eserciti che il
reggimento sembrava quasi parte dell’argine di argilla che lo
proteggeva dalle granate. In cima alla collina una batteria litigava
con altri cannoni lanciando tremendi ruggiti, e la fanteria poteva
scorgere nitidamente delineati contro il cielo blu gli artiglieri, i
cassoni e i cavalli. Quando veniva sparato un pezzo d’artiglieria,
una striscia rossa rotonda come un tronco guizzava bassa nel cielo,
simile a un lampo mostruoso”. L’acuto senso per “la meraviglia
della tragedia umana” di Stephen Crane si rivela proprio in quei
minuscoli dettagli che si stagliano prepotenti nei racconti. Un
bottone insanguinato in La faccia in su mette a rischio la
sepoltura di un ufficiale, la postura irregolare di una sentinella
scatena il terrore in Il manicomio privato del sergente,
l’acqua che entra troppo lentamente nella borraccia ancora in Un
mistero di eroismo: dettaglio di una battaglia americana, i
puledri intrappolati nelle fiamme in Il veterano, un canto che
risuona all’improvviso nell’oscurità del campo di battaglia, una
preghiera ricordata a fatica sotto il fuoco incrociato del nemico,
l’insensatezza degli ordini superiori, l’amputazione del braccio
di un tenente come se fosse la normalità nella logica estensione
della ferocia dei combattimenti: nelle storie di La morte e il
bambino non c’è nessuna gloria, nessun riconoscimento,
imperversano soltanto paura, disperazione, distruzione finché la
pazzia non appare come l’unica via di fuga praticabile. A quel
punto la risposta alla domanda del bambino che vede arrancare
qualcosa sul pendio, sgorga spontanea dai reportage di Stephen Crane:
è “solo un soldato, senza più nulla di umano”.
venerdì 20 ottobre 2017
John Barth
I
personaggi, l’ambiente, lo stesso tema sembrerebbero fare di La
fine della strada una coda ingombrante dell’umanità già vista
con L’opera galleggiante: insegnanti logorroici, linde e un
po’ asettiche periferie urbane, nevrosi in carriera, legami in
rapida trasformazione. In realtà, se L’opera galleggiante
tratteggiava la rete mutevole dei rapporti umani, La fine
della strada punta una linea d’ingrandimento sui nodi, sulle
intersezioni, sugli agganci. Il protagonista, Jacob Horner (“Ero un
uomo di notevole onestà entro limiti di un dato stato d'animo, ma
avevo poca resistenza”) insegnante di inglese, si trasferisce in
una cittadina della provincia americana dove diventa ospite fisso dei
coniugi Rennie e Joe Morgan con cui sviluppa un’ambigua e
controversa relazione. Lui resta al vertice di un triangolo, una
figura geometrica particolarmente cara a John Barth, che vede i due
coniugi Joe e Rennie Morgan alle altre due estremità. Ognuno di
loro, con una maschera diversa, con i repentini cambiamenti di umore,
le improvvisazioni sull’anima e le mille piccole deviazioni della
vita quotidiana e del suo linguaggio vengono indirizzati da John
Barth in un abbraccio contrastato, carico di presagi perché la loro
comunicazione viaggia da un estremo all'altro: dai silenzi
imbarazzati alle risate isteriche, dalle lunghe speculazioni
filosofiche a battute ingolfate di sarcasmo. Una voluminosa partitura
di parole che John Barth asseconda con uno spirito tutto suo: “Ma
in fondo al cuore sono ancora un arrangiatore: il mio massimo
piacere, nel campo della scrittura, è prendere una melodia
preesistente e improvvisando come un jazzista all’interno dei
limiti di quella melodia, riorchestrarla a seconda della mie
esigenze”. E’ grazie a questo vortice che La fine della strada
trascina il lettore nel vortice di Jacob Horner e dei suoi
ospiti, un dramma che si percepisce riga dopo riga, una mutazione che
non concede nulla ai protagonisti, che vengono travolti dalla loro
stessa storia. L’abilità di John Barth sta nel trasformarci in una
sorta di voyeur, suggerendoci poche indicazioni, ma mettendoci sempre
in condizioni di vedere l’intera scena, di percepire la tensione di
un dialogo, di condividere le vite alla deriva. A quel punto la
formazione teatrale e cinematografica di John Barth diventa
predominante nell’interpretare La fine della strada: “Per
ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre,
siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto
che il suo dispensare ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria
deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio
chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente
inevitabile, e sembra ad ogni modo necessario se uno vuol raggiungere
il fine che desidera”. Tutto lì, perché poi La fine della
strada è la dimostrazione pratica di quello che John Barth disse
in un’intervista di qualche anno fa: “Nella storia della
letteratura, i grandi romanzi sono sempre riusciti a mettere in scena
dei grandi problemi, senza richiedere una guida alla lettura o un
testo che spiegasse al lettore, dal di fuori, a cosa stava andando
incontro”. Dovrebbe essere sempre così.
mercoledì 18 ottobre 2017
Emily Dickinson
Il
coraggio della poesia di Emily Dickinson nasce dalla consapevolezza
di un metodo che coincide con lo scopo ultimo, come lei stessa
declamava nella lirica numero 680: “Ognuno, il proprio
ideale assoluto deve raggiungere, da solo, la solitudine con il
coraggio di una vita di silenzi. Lo sforzo è la sola solitudine, la
sopportazione di se stesso, la sopportazione di forze contrarie, e un
credo intatto”. Questa vocazione, nitida, immacolata, convinta e
ribadita più volte (scriveva ancora nel scrive nel 1863: “Ogni
vita converge verso un centro, espresso o silenzioso, nella natura
umana di ognuno esiste un fine”), si concentra e si scontra con il
“processo continuo” di vivere, e di conseguenza, con la pratica
quotidiana della scrittura che per Emily Dickinson è sempre
un’interpretazione, il frutto di un’elaborata percezione e di una
sostanziale distanza da se stessa che descriveva così: “Quando
parlo di me come soggetto della poesia, non ho in mente me, ma una
persona immaginaria”. Nelle sue poesie, c’è sempre un
interlocutore, una voce che ascolta in silenzio, dall’altra parte e
segue l’andamento fluente delle poesie di Emily Dickinson. Le
parole sono levigate, una per una, le rime sono le battute di un
ritmo solido, sinuoso, continuo, scandito con la precisione di un
metronomo e con il voluttuoso ondeggiare e inarrestabile del mare,
una visione ricorrente, simbolo dell’infinito e di “come s’è
cantato per tenere fuori il buio”. Ecco, la poesia di Emily
Dickinson è una trincea contro l’oscurità e l’idea di un Eden
sulla terra, un Eden nella realtà (“Sono viva, suppongo”) eppure
costruito nelle pieghe dell’immaginazione forse spiega quella che
Emily Dickinson chiamava “evanescenza”. I versi sono pregiati, e
precisi, intagliati con maniacale attenzione: “eterei”, eppure
così concreti nell’ordine dei vocaboli, e della punteggiatura (il
risultato è quella che Harold Bloom ha definito “ortografia
nitida”) e rispetto dell’idea che come diceva nella lirica numero
669: “Nessun romanzo in vendita assorbe un uomo quanto
abbeverarsi al suo personale, la finzione fa questo, diluisce fino a
farlo plausibile, il nostro romanzo, se è ristretto
abbastanza da far credere che non è vero”. E’ quello lo schema
invisibile, la trama, la rete di nodi che lega le poesie. E’ lì
dentro che Emily Dickinson riesce a contenere la cristallina
essenzialità delle sue liriche, concentrate nella misura necessaria
e sufficiente, sulla pagina, e nella produzione generale, limitata,
in qualche modo persino disinteressata, come riportava Barbara Lanati
da L’alfabeto dell’estasi: “Pare il successo dolcissimo
a chi non l’ha conosciuto. Solo chi ne ha doloroso il bisogno
conosce il sapore di un nettare. Non uno della folla purpurea che
oggi ha conquistato la bandiera saprà con tanta chiarezza dire ciò
che vittoria è come chi, nell’agonia dell’esclusione, battuto,
sente risuonare dilacerato e preciso lo stridore lontano del
trionfo”. Emily Dickinson resta “un’eccezione” americana,
estrema, nel dubbio e così nella certezza che “la coscienza è
l’unica casa di cui adesso si sappia”. Dopo, è tutto
relativo, anche la poesia.
lunedì 16 ottobre 2017
John Williams
Con
Augustus,
John Williams riparte dove finiva il Giulio
Cesare di Shakespeare. Ottaviano,
che in quel dramma aveva il compito di celebrarne la conclusione, è
il cardine attorno al quale ruota tutto “un mondo concreto, fatto
di cause e conseguenze, parole e fatti, vantaggi e privazioni”,
come scrive Strabone di Amasia. Il terreno fertile e infido, nello
stesso tempo, dove è potuta fiorire la congiura che ha portato
all’assassinio di Giulio Cesare. Fin dalle prime avvisaglie,
quell’ombra, e quello spettro, determinano il tenore generale di
Augustus:
anche la verità è ambigua nel gran teatro romano, perché come
sentenzia il Giulio Cesare
di Shakespeare “l’abuso della grandezza si ha quando scinde il
rimorso dal potere”. Per Ottaviano accade ben presto, una volta
tornato nel “mondo di Roma, dove nessuno può distinguere gli amici
dai nemici, la dissolutezza è venerata più della virtù e i
principi sono ormai asserviti all’egoismo”. La definizione è
della saggia madre, Azia, che è convinta che sia “ancora possibile
condurre una vita onesta nell’intimità dei nostri animi e dei
nostri cuori”. Un’asserzione che suona più come un accorato
desiderio, che una flebile speranza: il groviglio di cospirazioni,
manipolazioni, scontri e guerre civili che ha generato il passaggio
dalla repubblica al principato mostra un giovane e fragile Ottaviano
diventare un Augusto malato e cinico, a dispetto delle conquiste e
delle riforme. Solo che John Williams delinea la sua figura
attraverso le numerose prospettive e i punti di vista di
quell’eterogeneo epistolario che è, nei fatti, Augustus.
L’effetto ottenuto è sorprendente perché le parole viaggiano
veloci, la forma immaginata e costruita da John Williams scorre come
una lezione di storia orale, e si fa trascinante perché il
linguaggio, limato e levigato, viene reso adeguato all’epoca, ma
asseconda anche un ritmo moderno, e senza voli pindarici o
concessioni alle leggende. Augustus
è un romanzo monumentale, eppure fluttuante: non ha un centro di
gravità preciso, un protagonista assoluto (sì, è Augusto, ma
celebrato da un’orchestra di voci) e il senso della storia è
soverchiato dalle trame romane, continue, assidue, spietate. Quando
il matrimonio, il divorzio, l’adulterio, il pettegolezzo diventano
forme di dialettica per e contro le tante fazioni che si contendono i
resti della repubblica, vale quello che dice Giulia, la figlia di
Augusto spedita in esilio: “Tutto è divenuto oggetto di una
curiosità indifferente, e nulla ha più valore”. John Williams si
prende ogni libertà necessaria per sostenere la singolare struttura
di Augustus,
poi si porta a ridosso degli eventi storici con circospezione, e
sempre attentissimo allo spirito del romanzo, lascia che siano i
personaggi a dominarlo. “Il potere sarà ciò che vorremmo che sia”
dice Quinto Salvidieno Rufo, ma non è mai così, anche se ogni gesto
è celebrato alla spasmodica ricerca del consenso, “in nome della
prosperità e del benessere dei cittadini e della gloria della
città”. Come scriveva Don DeLillo in Rumore
bianco, “tutti gli intrighi
tendono alla morte. E’ la loro natura”, e quando gli onori
diventano soltanto la cornice di un’infinita malinconia restano le
sibilline parole di Atenodoro, filosofo e maestro di Ottaviano: “C’è
il rischio che certi barbari diventino perfino più romani di noi,
che occupiamo ancora il cuore della patria”. Non è soltanto
quello: nel Giulio Cesare,
Cassio si chiede “in quante età future questa nostra scena sublime
verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora
sconosciuti”, e, alla luce di Augustus,
forse non si riferiva soltanto al rappresentazione in sé, ma
soprattutto al dramma intrinseco all’ascesa e alla caduta di ogni
impero, di ogni potere.
martedì 10 ottobre 2017
Val Brelinski
Succede
tutto in una famiglia di donne, quattro (tre figlie e la madre) a
uno, il padre, Oren, insegnante di astronomia, che corre di notte
attorno alla casa (con rifugio antiatomico annesso). La bizzarra
consuetudine è l’unico, innocente strappo a un insieme di regole
dettato dalla religione, una specie di costituzione locale e un
recinto insormontabile, ad Arco, Idaho. La vita è dettata più che
altro dai concetti di “insieme” e “solito” e la stessa
famiglia Quanbeck è costretta all’interno di queste definizioni,
solo che i due cardini vengono presto divelti dagli eventi e le crepe
che si generano saranno insanabili. Tra le figlie, Jory è
insofferente, “sta imparando cos’è la vita come facciamo tutti,
nel modo più duro”, e Grace, la primogenita, è una ragazza
determinata, ossessionata dalla fede e dall’idea della fede come
“testimonianza”. Segue alla lettera le indicazioni bibliche e,
sentendo un’estrema vocazione, parte per una missione in Messico.
Il suo distacco è la prima frattura, nemmeno la più grave. Quando
torna è incinta, certo non per bontà divina, e anche se Grace
considera la maternità un dono, la tragedia a quel punto incombe
già. Un figlio in arrivo da un padre sconosciuto è visto come un
pericolo per la famiglia Quanbeck e in particolare per la famiglia
all’interno di una comunità ristretta (anche di vedute) di un
minuscolo paese negli sterminati territori americani. Il padre non
mette in discussione nulla, né la fede, né la natura provinciale di
Arco, né il fragile equilibrio di una famiglia complicata e decide
di far sparire l’inconveniente. Trasferisce Grace e Jory non troppo
lontano, ma abbastanza da essere nascoste, ospiti della saggia Hilda
Kleinfert, dove “era come se certe cose importanti fossero state
cancellate, o non fossero mai esistite”, L’isolamento delle
ragazze comporta un’intricata
svolta nella storia. Nella nuova scuola, non confessionale, Jory,
“era una strana, e il suo destino consisteva nel restare
relegata ai margini di tutto per sempre”. A lei, rimane l’amicizia
con l’enigmatico Grip, l’estemporanea scoperta dell’alcol e
degli acidi e di modelli molto distanti dai dogmi della dottrina. Con
la scomparsa di Grace, nella stessa notte in cui Jory celebra la sua
emancipazione, partecipando alla festa di Halloween con un “vestito
da paura”, il delicatissimo status
quo, già compromesso dalla gravidanza, si sfalda del tutto, ma da
quel punto in poi rivelare di più non avrebbe senso. La
manovra a tenaglia di Val Brelinski comincia a stringersi attorno a
tutti i protagonisti, a partire dalle due sorelle: la
costruzione è molto accurata, la delicatezza con cui descrive il
recinto concentrico della fede, della small town e della famiglia
merita senza dubbio un applauso perché riesce a trasmettere un senso
di claustrofobia anche negli immensi spazi aperti dell’Idaho. Un
piccolo indizio (non casuale, come si scoprirà) è il rifugio
antiatomico tenuto funzionante nel giardino di casa che, come un
presentimento, resta lì fino alla fine, simbolo plastico e
incombente dell’inguaribile malinconia del padre. In effetti, le
figure maschili non sono molto fortunate: se Oren è tanto presente
quanto distante nel comunicare le sue ossessioni, all’opposto,
Grip, segue l’istinto (l’ha sempre fatto) certo che “la
gente fa quello che vuole e poi le cose succedono di conseguenza”.
La famiglia non funziona, la fede resta un mistero e se
la scrittura di Val Brelinski è precisa e accomodante e la
progressione del racconto lineare ed esponenziale, lo sviluppo degli
argomenti che lascia scivolare ha tutta una sua particolarissima
dinamica, a partire dallo scorrere del tempo e dalla sua percezione,
dalla dimensione dell’infinito nel cielo, nella fede e in
piccoli momenti di magia perché “forse era il tempo a essere così:
un lungo momento che si espandeva oltre l’orizzonte, come il cielo
di vetro verde che si estendeva davanti, sopra, tutto intorno. O
invece era tutto molto piccolo, il tempo, piccolo nel senso di molto
concentrato, come un minuscolo, denso buco nero e anche le cose
diventavano troppo, troppo pesanti dentro il buco nero”. Un libro
avvolgente come una preghiera, che nella sua atmosfera lascia molto
da indagare: tante domande, poche certezze, una lunga scia di dubbi.
giovedì 5 ottobre 2017
Lewis Mumford
A
ben guardare, la forma delle utopie è ricorrente nel richiamare
l’attenzione alle necessità collettive. Istruzione, lavoro,
bisogni primari di sussistenza e di convivenza civile, sono le
urgenze che ne delimitano la prospettiva ed è proprio quella
l’identificazione preliminare di Lewis Mumford: “Quasi tutte le
utopie criticano implicitamente la civiltà in cui nascono, e sono
allo stesso tempo un tentativo di scoprire le possibilità che le
istituzioni esistenti o ignorano o seppelliscono sotto la crosta
delle vecchie usanze e abitudini”. Nel ricostruire la Storia
dell’utopia, Lewis Mumford
premette di tenere conto “in ogni schema, delle ribellioni, delle
opposizioni, dei conflitti, del male e della corruzione, poiché sono
presenti nella storia di tutte le società”. E’ nell’etimologia
stessa della parola, che va cercata tra i vocaboli greci “eutopia
“(il buon posto) e “outopia” (nessun posto), dove l’utopia si
colloca in una terra di nessuno di trasformazioni e di cambiamenti.
Nell’introdurre uno studio altrettanto approfondito, Il
desiderio chiamato utopia, Fredric
Jameson scriveva: “La forma utopica è di per sé una significativa
riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla
natura sistemica della totalità sociale. Nonè possibile immaginare
un qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società che non
sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante
scintille dalla coda di una cometa”. La percezione resta infinita e
indefinita e il paragone astronomico non è una coincidenza, visto
che ricorre anche con Lewis Mumford quando dice: “Noi dormiamo
sotto la luce di stelle che da molto tempo hanno smesso di esistere,
e prendiamo come modelli di comportamento delle idee che non sono più
reali nel momento stesso in cui smettiamo di credervi”. All’elenco
dei bagliori collezionati dalla Storia
dell’utopia non sfuggono le tesi
di Tommaso Moro, La città di Dio di
Sant’Agostino e La
città del sole di Tommaso
Campanella, Campi, fabbriche e
officine di Pëtr Kropotkin, e la
Nuova Atlantide di Francesco
Bacone, e tutte le ipotesi, dal villaggio alla nazione,
dall’economira rurale nelle vallate alla rivoluzione industriale
nelle città, da “erewhon” a “nowhere”, da Freeland a
Coketown, “il mondo delle idee”, diventa “un organico insieme
di parti suscettibile di migliore organizzazione, di cui è
importante mantenere l’equilibrio, come in ogni organismo vivente,
al fine di favorire la crescita e il progresso”. L’utopia non è
un paradiso minore, neanche quando riguarda la “fuga”o la
“ricostruzione” e l’inventario (e la cernita) di Lewis Mumford
non è un elenco di luoghi impossibili e fantastici, ma la
constatazione che “quando vi è una frattura tra il mondo reale e
il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte
che la tendenza all’utopia
ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una
realtà diversa”. La panoramica compresa nella Storia
dell’utopia si conclude con un
proposito molto intonato perché se “appare chiaro che in un mondo
così pieno di frustrazioni come quello reale, siamo costretti a
svolgere una gran parte della nostra vita intellettuale nella sfera
dell’utopia”, il cui destino ultimo è comunque rendere più
“tollerabile” quel mondo, è altrettanto evidente che “il
compito più importante che ci aspetta in questo momento è di
costruire castelli in aria”. Sposta il baricentro dall’utopia
come necessità, come “mito sociale”, a momento ineluttabile del
pensiero, a riprova e a conferma che l’unica utopia possibile è
l’utopia delle idee.
lunedì 2 ottobre 2017
Sarah Manguso
Andanza
è un formidabile peccato di omissione. E’ la fine di un diario,
ma il diario non c’è, almeno non qui dentro. E’ il diario di
un’idea del diario, come se fosse il futuro del diario stesso. E’
uno specchio che rimanda un’immagine al contrario, come la pipa nel
famoso dipinto di René Magritte, (questo non è un diario) o
un rebus come la rosa nel poema di Gertrude Stein (un diario,
è un diario, è un diario). Solo in apparenza, però, la forma è
autosufficiente perché nel momento stesso in cui Sarah Manguso
sostiene di scrivere “per poter dire che stavo prestando davvero
attenzione”, concede al lato pubblico una precisione assurda. Un
diario, che ci sia, o no, vuol dire un giorno dopo l’altro, un
calendario e le sue stagioni, ma “il tempo non è fatto di istanti,
li contiene. E nel tempo c’è molto altro”. Un minuscolo
aneddoto, quasi un segnale ancora intrappolato dentro la vita reale,
funziona da esca: “Intrappolata a una festa a chiacchierare con due
ragazzi, avrei tanto voluto aspettare in quello stesso corridoio
fumoso per quindici anni, per capire cosa avrebbero detto a
quarant’anni”. La distanza non è legata soltanto alla dimensione
temporale, l’introspezione dell’Andanza prevede scansioni
più complesse e profonde, come dice Sarah Manguso: “Vivere
sognando il futuro è un difetto del carattere. Ma anche vivere nel
passato, immersi nella nostalgia, è un difetto del carattere. Vivere
nel presente è considerato ammirevole dal punto di vista spirituale,
ma ignorare le lezioni della storia o non riuscire a pianificare il
domani sono visti come difetti del carattere. Avevo bisogno di
annotare il momento presente prima di poter entrare in quello
successivo, ma volevo anche capire come abitare il tempo senza
inciampare in un difetto del carattere. Ricorda le lezioni del
passato. Immagina le possibilità del futuro. E resta nel presente,
l’unica porzione di tempo che non richiede l’uso della memoria”.
Sarah Manguso deve aver letto Sant’Agostino quando diceva che “il
presente del passato è la memoria”, ed è dove “il ricordo
germoglia. Lasciato solo nel tempo, cresce”, mentre “il futuro
succede. Continua a succedere”. L’argomento, che ha tutti i suoi
risvolti fisici, filosofici e religiosi rimane sospeso, e Sarah
Manguso lo affronta con mille scrupoli: crea uno spazio in cui il
tempo resta fugace, immobile durante il racconto del parto, altrove
solo un passaggio, un riflesso che non viene mostrato, perché, come
diceva Shakespeare nell’Enrico IV, “la parte migliore del
coraggio è la discrezione”. Il suo piccolo libro è tutto nel
“privilegio di mettere la spunta alle cose” perché in effetti
“il tempo ci punisce togliendoci tutto, ma ci salva prendendosi
tutto”. Il paradosso lascia soltanto un’opzione tanto che
“l’obiettivo è la creazione di un sistema di espressione puro,
senza la distrazione di uno stile. Una forma che nessuno noti, la
creazione di qualcosa che ricordi la sensazione pura e non il veicolo
di una sensazione. La lingua come pura esperienza, pura memoria”.
Il problema è che, come scriveva Alice Munro, “quando si scrive si
fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può
parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare
cose diverse nella vita normale”. E’ stato proprio così per
Sarah Manguso (“Ho nascosto tutte le cose che ritenevo importanti
lì dove credevo che nessuno avrebbe mai cercato”) con l’idea di
raccontare il diario e nello insieme di occultarlo con ogni
precauzione, ha dimostrato con Andanza che scrivere prevede un
tempo perduto, l’oblio, il fallimento ed è un “andare”
(parecchio) impervio, quindi indispensabile.
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