Charlotte Simmons è una “ragazza limpida” che vede la prestigiosa università Dupont come un traguardo per tutta la famiglia e persino per la sua modesta cittadina di Sparta, sulle Blue Ridge Mountains, da cui proviene mentre tutti gli altri la considerano “un grande parco giochi d’élite”. È una giovane provinciale convinta di poter eccellere nello studio, e di onorare le legittime ambizioni di mamma (soprattutto) e papà. All’arrivo nel campus è evidente fin da subito che la situazione si prospetta un po’ più complicata di come l’aveva immaginata: la lingua corrente è il “patois del cazzo fottuto” ai limiti del turpiloquio, l’ordinaria amministrazione è un mix feroce tra istinti predatori e sfrenata competitività, la tensione dominante è di classe, di censo, di razza e di genere. Il ritratto del college americano è spinto da Tom Wolfe ai confini della parodia ma colpisce nel segno: nell’architettura maestosa delle istituzioni scolastiche s’intravedono conflitti, intrighi, distorsioni. Charlotte Simmons è ipersensibile, ma la sua genuina autostima è messa a repentaglio da un milieu di muscoli, sesso e alcol. Finisce al centro al centro dell’attenzione, suo malgrado, e ben presto si accorge che “erano tutti presi dall’essere veri maschi, e la violenza era la manifestazione più maschile di tutte”. Tom Wolfe è eccessivo e lapidario, e non le risparmia nulla: Charlotte Simmons ha un ruolo difficile da interpretare e lo farà fino in fondo, scontando abusi e sofferenze che la porteranno alla depressione. Attorno a lei appaiono, di volta in volta, giovani rampanti, atleti ipertrofici, intellettuali allo sbaraglio: il flusso è ininterrotto e avvolgente e anche se non è del tutto allineato rende l’idea di cosa succede in un microcosmo circoscritto ed emblematico della civiltà americana. Tom Wolfe sa toccare con perfida abilità e grande conoscenza i luoghi comuni innestandoli a una parallela e provocatoria analisi dell’evoluzione della specie. Nel decantare le fragili emozioni di Charlotte Simmons, Tom Wolfe è spesso prolisso e a tratti anche ripetitivo, (come le ricorrenti descrizioni della stazza muscolare maschile o delle forme femminili), ma questo è tipico di una lente di ingrandimento che è sempre stata molto attenta all’antropologia in generale e ai casi umani in particolare. In Io sono Charlotte Simmons, gli episodi dove dispiega il suo savoir faire letterario, capace di vedere minuscoli dettagli in un banchetto natalizio o micidiali trucchi sul campo da basket, così come di illustrare una lezione di neuroscienze o una delicata riunione davanti al rettore, sono infiniti. Due scene sono un po’ i due fuochi attorno a cui ruota l’ellisse di Tom Wolfe. Il pranzo, all’inizio, con gli Amory, la famiglia di Beverly, l’insopportabile compagna di stanza di Charlotte Simmons, in cui si distinguono due Americhe: una fiduciosa e cordiale, l’altra altera e sprezzante, una limitata nelle possibilità, l’altra condizionata dal suo status, una affamata e una rigorosamente a dieta. Charlotte Simmons è proprio in mezzo e in quella terra di nessuno si ritroverà allo sbando nella cena esclusiva, a Washington (non a caso, si presume), con la confraternita dei Saint Ray. Il parossismo di Tom Wolfe raggiunge l’apogeo nell’illustrare un baccanale di vodka e aragosta in cui ogni grado di conoscenza e intelligenza viene regredito a livelli brutali, con tanti saluti a Socrate, a Flaubert e anche a Tupac Shakur. Lo scempio avrà una vittima e il quadro generale che ne esce non è dei più edificanti e nemmeno sorprende particolarmente, perché Tom Wolfe resta nello stesso tempo dentro e a distanza di sicurezza dalla torbida commedia imbastita attorno alle istituzioni universitarie, lasciando in sospeso ogni ambiguità. Io sono Charlotte Simmons è un bel tuffo senza rete, ma se volete fare prima, riguardatevi Animal House.
venerdì 17 novembre 2023
lunedì 13 novembre 2023
Dalton Trumbo
Reduce dai campi di battaglia europei della prima guerra mondiale, mutilato degli arti e della faccia, privato dei sensi e immobilizzato in un letto di ospedale, Joe Bonham ricorre all’unica risorsa che gli rimane, il pensiero. Ben presto si rende conto che se è salvo (se così si può dire) è perché è il risultato di esperimento, teso a dimostrare l’efficienza della medicina e della chirurgia sul campo. Nel corso degli eventi bellici, l’umanità svanisce e dato che “questo non è tempo di preghiere”, al soldato, ormai prigioniero di un corpo straziato, non resta che proclamare, perentorio: “Quando gli eserciti si mettono in marcia le bandiere sventolano e gli slogan risuonano dovunque stai in guardia piccolo uomo perché le castagne al fuoco non sono le tue ma di qualcun altro. Tu combatti solo per delle parole e non stai facendo un contratto onesto, la tua vita in cambio di qualcosa di meglio. Fai il nobile ma quando ti avranno ammazzato quella cosa per cui hai tradito la tua vita non ti servirà a niente ed è molto probabile che non servirà nemmeno a qualcun altro”. L’avviso, come ogni singola parte del furioso monologo di Joe Bonham è un grido di dolore che si svolge nel silenzio e che viene reiterato, rivolgendolo con veemenza contro la retorica bellica: “Tenetevi pure i vostri ideali purché io non debba pagarli con la mia vita. E quelli dicono ma come i principi sono più importanti della vita. E tu ah no forse saranno più importanti della tua vita ma non della mia. Cosa diavolo è un principio? Quando l’hai nominato è finito lì”. Una parte vitale pulsa ancora in Joe Bonham: sente, non senza stupore, che gli appuntano una medaglia sul petto, cerca di collocarsi nello spazio, per conquistare sulle uniche parti di pelle rimaste intatte la carezza del sole, e prova in continuazione a orientarsi nel tempo perché “poco importa se sei lontano dagli altri purché tu abbia un’idea del tempo perché solo così sai di vivere nello stesso mondo in cui vivono loro fai parte di loro ma se perdi la nozione del tempo loro vanno avanti e tu resti indietro solo sospeso nell’aria perso per sempre”. La condizione estrema di sopravvivenza e dolore lo costringe a ricordare e dal passato riemerge un clima di pace con i piccoli dettagli della vita quotidiana, le conquiste e le sconfitte giornaliere, le ragazze e i ragazzi che si rincorrono sapendo che “abbiamo cose ben più importanti di una guerra”. L’isolamento resta atroce, la vita è ridotta a una forma indefinita confinata nell’immaginazione, finché Joe Bonham non prova a comunicare con il codice Morse, sbattendo la testa contro il cuscino. Rimane incompreso ancora a lungo e Dalton Trumbo riesce a delineare con la forza di una scrittura grezza e risoluta le sue intenzioni. Quando, con molta prudenza, attorno a lui comprendono il mezzo per comunicare, Joe Bonham crede di aver trovato un ruolo, di poter disporre “i germi di un nuovo ordine delle cose”. Convinto che “la gente è sempre disposta a pagare per vedere una curiosità è sempre enormemente interessata alle cose orribili e probabilmente su tutta la faccia della terra non c’era una sola creatura vivente che fosse così terribile a vedersi come lo era lui”, sa di di poter diventare “il nuovo messia dei campi di battaglia che diceva alla gente così come io sono sarete anche voi. Perché lui aveva visto il futuro l’aveva provato e adesso lo stava vivendo. Aveva visto gli aeroplani volare nel cielo aveva visto i cieli del futuro neri di aeroplani e ora vedeva tutto l’orrore che stava al di sotto”. L’accorata vocazione, il suo grido di dolore troverà un’adeguata risposta che rende E Johnny prese il fucile un classico moderno, purtroppo ancora attualissimo.
giovedì 9 novembre 2023
Leonard Cohen
Ray Charles citato nell’epigrafe è già qualcosa in più di un indizio. Genio, ritmo, coraggio: l’inseguimento di un senso e di una magia è foriero di elaborate acrobazie e Leonard Cohen sprizza energia da tutti i pori. Lo scrittore è in contrasto con la presenza ieratica del songwriter che verrà in seguito: Beautiful Losers si avvicenda con un turbinio di emozioni, è davvero un romanzo sensazionale e ci vuole tatto per affrontarlo, ancora oggi, a distanza di sessant’anni. La stessa gestazione è stata fonte di turbamento che, nel Libro del desiderio, Leonard Cohen descriveva così: “Beautiful Losers è stato scritto all’aperto, su un tavolo che stava in mezzo a rocce, erbacce e margherite, dietro la mia casa a Hydra, un’isola del Mare Egeo. Vivevo là, molti anni fa. Era un’estate rovente. Non mi coprivo mai la testa. Quello che hai in mano è un colpo di sole, più che un libro”. Un ribollire linguistico dentro (e fuori) una trama inesistente, costruita con digiuno e fuochi d’artificio, droghe e sesso in continuazione (il rock’n’roll deve ancora arrivare) visto che “tutti coltivavamo una certa ambiguità come stile”. È spesso un flusso di coscienza, tra cronaca e storia, le dimensioni esaltate di simbologie e metafore con le maiuscole che calano come un castigo divino e prolusioni e dichiarazioni d’intenti emanate da un pulpito invisibile (il più delle volte una frequentatissima alcova). Beautiful Losers è un collage esuberante e macroscopico che Leslie Fiedler definirà “un romanzo pop-art assolutamente onesto” dove Catherine Tekakwitha, Edith, F., e lo stesso Leonard Cohen, sono le comparse di “una danza di maschere” e sono tutti “parte di una collana di incomparabile bellezza e priva di significato”. Questo continuo ondeggiare sulle “diverse ali del paradosso” induce Leonard Cohen a scoprirsi sempre di più e a proclamare: “Sono stanco dei fatti, sono stanco delle speculazioni, voglio essere consumato dall’irrazionalità. Voglio lasciarmi trasportare”. Questo proposito è l’anima istintiva di Beautiful Losers che si pone in modo distinto rispetto alla realtà, anche in modo plateale quando in un passaggio dice: “La maggior parte delle persone non sono disposte a portare la loro vita in prima linea, la maggior parte delle persone non dovrebbe farlo e la maggior parte delle persone non ha niente in nome di cui portare la propria vita in prima linea, ed è probabilmente meglio così”. Lui, il poeta, il pellegrino, l’amante, l’outsider sa di essere sprofondato in un abisso (“Quello che vi è di più originale nella personalità di un uomo è spesso quanto vi è di più disperato”), ma anche di aver intuito una possibile deviazione, tra le tante (“Non voglio essere una stella, che muore soltanto”). Per questo Leonard Cohen spiegava così Beautiful Losers: “Non è un libro d’immaginazione nel senso che in ogni pagina l’autore vi appare senza schermi protettivi più di quanto usualmente accada in un’opera di immaginazione. E questo perché il libro è davvero una lunga preghiera che cerca di dire la sua sulla vita di una santa, una meditazione compiuta stando in equilibrio su una fune da cui si scivola fra le urla di tutto il circo e per non precipitare si ricade sulla fune con il cavallo dei pantaloni, e tutti i maschi fra il pubblico chiudono gli occhi, sanno l’effetto che fa”. È proprio un’avventura infinita, al punto che Leonard Cohen diceva, ancora: “Più e più volte ho dovuto rassicurare me stesso e il lettore che si trattava solo di finzione, e quando ce ne convincevamo e riuscivamo a rilassarci potevo finalmente tuffarmi nella preghiera che a sua volta, io credo è costituita nel profondo da eventi reali, bottoni, dubbi, spazzatura, torte in faccia e bisogna muoversi in mezzo a questa merda prima di poter usare il puro vocativo”. L’esprit de finesse finito in un erudito fiorire di citazioni, rimandi e calembour di un’unica “sardina materiale in una scatoletta di fantasmi” richiama lo spirito animalesco e segreto (fino a un certo punto) di Beautiful Losers che Leonard Cohen infine svela così: “Se ascolto i Rolling Stones? Senza tregua”. Anche noi.
martedì 7 novembre 2023
Louise Glück
La forma è essenziale, diretta, spoglia e a tratti persino elementare. Le cronache quotidiane di Louise Glück tengono conto dei limiti, della semplicità dello sguardo che si accontenta dei ritratti famigliari, delle manifestazioni del clima, “un bel sole simpatico” e la neve (onnipresente) che brilla in Festa del Presidente, e delle stagioni, a partire dall’Autunno che, a discapito del titolo, è uno dei periodi più fertili per Louise Glück. Sono annotazioni spontanee, forse nella consapevolezza che “le parole non sono la risposta”, come scrive in Poesia. I versi, sciolti, liberi, sono una scrupolosa misura della lingua che si mantiene immediata, senza intrusioni specifiche. Gli alberi sono alberi, gli uccelli sono uccelli, le denominazioni scientifiche restano accantonate a favore di uno stile semplice, comodo, intuitivo e sintomo dello stupore per cui nelle Ricette per l’inverno del collettivo “il mondo ci passa accanto, tutti i mondi, ciascuno più bello del precedente”. La componente più efficace nei versi di Louise Glück è nell’istantaneità delle immagini, ricomposte secondo uno schema imprevedibile che sembra inseguire solo quelli che Robert Graves definiva i quattro oggetti naturali della poesia: “La luna, l’acqua, le colline e gli alberi”. Solo gli elementi ricorrenti nelle Ricette per l’inverno del collettivo, però la visione di Louise Glück riconsidera l’osservatore, ed è un continuo richiamare l’essenza della realtà. Avviene in particolare con Il sole al tramonto: “Fuori il sole tramontava, il tipo di simmetria precisa che ho sempre notato”, dove “l’effetto delle parole” riporta al punto di partenza, alla spontaneità dello sguardo e del suo riflesso. L’immedesimarsi con gli oggetti del desiderio è una parte sostanziale della scrittura coltivata espressamente in Un ricordo: “E mi sembrava di ricordare quel luogo della mia fanciullezza, anche se allora non c’era un fiume, solo case e prati. Così forse stavo tornando a un tempo prima della fanciullezza, all’oblio, e forse era questo il fiume che ricordavo”. Le Ricette per l’inverno del collettivo sono sviluppate da appunti che si annodano uno dopo l’altro e diventano invocazioni come succede con La storia del passaporto (“Cammino, aspettando che la verità si riveli”) o dichiarazioni di intenti, decisamente espliciti in Una storia non finita (“Ora che la storia è mia, preferisco che sia una meditazione sull’esistenza”). Nelle stesse stanze Louise Glück ammette che “forse non sapremo mai se la storia doveva essere un avvertimento o magari una storia d’amore in quanto è stata interrotta. Così non possiamo sapere se abbiamo già avuto esperienza della fine”. È la chiave di volta dietro le postille climatiche e naturalistiche, che costituiscono una cornice fluttuante finché Louise Glück non chiarisce gli ingredienti principali delle Ricette per l’inverno del collettivo: “Tutti disprezziamo le storie che sembrano aride e interminabili, la mia però sarà una storia d’amore vera se per amore intendiamo come amavamo da giovani, come se il tempo proprio non esistesse”. Nell’estrapolazione successiva, quasi una conclusione filosofica conferma che “la maggior parte dei miei fatti sono spariti, ma certi principi sottostanti si sono perciò manifestati con chiarezza sorprendente”. Questo è il frutto del “vivere nell’immaginazione”, guardando fuori, per pescare dentro.
giovedì 2 novembre 2023
Neal Barrett Jr.
Secondo Joe R. Lansdale “la letteratura americana nella sua espressione migliore, ha uno stile molto naturale, un particolare senso dell’umorismo e l’infinita speranza che domani le cose possano andare meglio”. Tutto sommato è proprio lo spirito che spinge Douglas Hoover a lasciare tutto. È refrattario al lavoro (“Il sistema aveva delle falle, ma forse dietro c’era una logica”) e al matrimonio che è arrivato al capolinea. Pensa in continuazione agli aerei della prima guerra mondiale e a un barlume di emozione legato all’infanzia, forse il motivo principale del suo viaggio. Una meta dopo l’altra, prende forma uno strampalato road movie: tra stanze di motel, strade senza nome, incontri fugaci e inseguimenti spericolati. Un bel po’ di movimento che presta il fianco a un frenetico sovrapporsi di allucinazioni, ricordi, divagazioni e voli pindarici in cui Neal Barrett Jr. sfodera tutta una gamma di tonalità, con un gusto per l’iperbole davvero trascinante. Il nonsense punteggia tutte le frasi e, lungo un elenco senza fine di cittadine del Texas, non succede molto altro se non l’ossessione per Sue Jean, una ragazza trovata da Doug sulla strada, e un’aleatoria ricerca di se stesso. Sue Jean, poco più che adolescente, è capace di viaggiare nuda, dando spettacolo e solleticando ripetizione Doug, sa fare benissimo le uova strapazzate ed è per lui una specie di impertinente voce della coscienza: “Le lezioni sono incentrate su un unico argomento: te stesso. Chi sei e cosa vuoi fare di te”. È proprio così visto che Doug è rimugina spesso e volentieri sulle sue condizioni: “Riconoscere i propri limiti ha pro e contro, riflette. Qualsiasi cosa non vada in lui, ora si sistemerà. Oppure no. Sapere chi sei non significa che la tua testa sia lucida al punto da fornirti già tutte le risposte”. Il suo pensiero è una composizione di “rivelazioni e caos, introspezione e disordine in uno stupido miscuglio che pareva comunque funzionare”, definizione che, per estensione, vale anche per tutta La banda dell’altro mondo. La congrega di fissati che ha come amici sono “personaggi che sognano in piccolo, convinti di sognare in grande”. Una teoria di nomi e cognomi avvolge ogni mossa di Doug, affolla la sua vita e comprende il fatto che “cowboy mistici e cameriere di bar nelle stazioni di servizio per camionisti sanno che il cambiamento è solo un’illusione. Sanno che starsene immobili è il modo migliore per allontanarsi il più possibile da dove ci si trova, faresti meglio a trovarti una buona birra e una canzone preferita e accontentarti”. La colonna sonora annovera Hank Williams, Johnny Cash, Tex Ritter, Beatles, Janis Joplin e Willie Nelson e la corsa nel vuoto è un caos di suggestioni ed esagerazioni. L’incertezza regna sovrana: “Non sapeva se queste cose fossero davvero successe o se le avesse lette in qualche libro. Gli sembrava di sì, ma forse no”. Poi, una volta tornato a casa, per Doug diventa tutto piuttosto riduttivo: “Sembrava tutto un po’ troppo facile. Voleva delle rassicurazioni. Voleva delle certezze. Voleva andare a letto e fare un po’ di sano casino e dimenticarsi tutto. Sentì il desiderio di andare in cucina a prepararsi uno spuntino”. Doug ha un rapporto plastico con i sogni e le visioni che si dipanano senza sosta, ma alla fine le aspirazioni sono ridotte: “Voglio prendere più pesci. Voglio montare modellini di caccia tedeschi in scala 1 a 32. Voglio far crescere rampicanti sui muri di casa”. È vero, come dice Joe R. Lansdale, che La banda dell’altro mondo “trasuda America da ogni poro”, e il flusso verbale è ininterrotto, psichedelico e pirotecnico, ma è anche abbastanza inconcludente e allora bisogna ricordare quello che scriveva Carl Sandburg, citato più volte da Neal Barrett Jr.: “Quando una nazione crolla o una società perisce, una condizione sarà sempre identificabile: avevano dimenticato da dove erano venuti”. Come dire, si possono sfoderare tutti i numeri possibili e impossibili, ma per quanto immenso, lo spazio non è infinito e da qualche parte bisogna pur arrivare.
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