Quando
si lascia alle spalle New Orleans, Big Country alias Roy Cady non ha più nulla
da perdere. E’ un fuorilegge, la sua specialità è sempre stata il recupero
crediti per conto terzi (i metodi si possono immaginare visto che stiamo
parlando di vita nelle strade) solo che in fondo al suo cuore nero si accende
sempre una scintilla di generosità. E’ un segnale di pericolo e lui lo sa
perché “sono proprio quelli
gli impulsi che ti fottono, che finiscono per farti pagare conti che non
sono i tuoi”. Tutto comincia quando riesce a fuggire alla trappola che i suoi
stessi colleghi gli hanno teso e i cui motivi rimangono misteriosi, ma avendo
vissuto nell’oscurità tutta una vita, poco cambia. Sa solo che se vuole restare
vivo deve andarsene, lontano, e non guardare indietro nemmeno per sbaglio. Big Country è tormentato dalla sua fuga e
dal suo passato e, per una serie di coincidenze, si ritrova in viaggio con due
bambine. Rocky e Tiffany. Rocky è una tentazione ambulante, ma è solo cresciuta
male e in fretta. Tiffany è l’innocenza spuntata nel posto sbagliato. Big
Country non ha molto da offrire a parte un posto sul suo pick-up e una strada
davanti. Dentro si sé sente che quel viaggio potrebbe diventare un tentativo di
redenzione, un modo per evitare un destino già scritto e Billy Joe Shaver,
Loretta Lynn, Roy Orbison, Waylon Jennings, Hank Williams, Patsy Cline sentiti
nelle cassette del suo pick-up o nei jukebox dei bar lungo la strada forniscono
la colonna sonora ideale. Così, la fuga si rivela un road movie,
un’odissea nella terra di nessuno tra Texas e Louisiana, ma la soluzione,
l’happy end, non è lecito aspettarsela anche se a metà strada, è alimentata da
una piccola speranza. Per un istante di qualche giorno vivono insieme in un
penoso motel che sembra un capolinea per disperati, eccentrici e fuggiaschi.
Big Country è tormentato dall’impulso di fare qualcosa e dalla certezza di non
essere in grado, perché sa che non è stato nemmeno capace di badare a se
stesso. La strada è impietosa, l’orizzonte brulica di sconfitte e fallimenti:
se non è un paese per vecchi, figurarsi se può esserlo per due bambine senza
una famiglia, e per un outsider senza radici come Big Country. Quando decide di chiudere con il passato,
è troppo tardi, perché c’è sempre un passato che non passa mai e anche quando
ormai tornato ha cambiato nome e indirizzo se lo sente ancora addosso: “Sei qui
tanto per stare da qualche parte. I cani ansimano per le strade. La birra non
rimane fredda. L’ultima canzone che ti è piaciuta è uscita un mucchio di tempo
fa, e la radio ormai non la trasmette più”. Con Galveston, Nic Pizzolatto si rivela una narratore
pratico e coinvolgente, capace di tratteggiare le forme umane che si dipanano
nella polvere e nelle ombre senza perdersi in complicate divagazioni. Lo stile
è essenziale e concreto quanto basta, il ritmo è sempre serrato e sincopato,
anche nei momenti più crepuscolari, senza aver bisogno di colpi di scena a
ripetizione e con una dose di sano realisimo che non guasta mai. Ad oggi, il
miglior allievo di James Lee Burke.
sabato 28 giugno 2014
giovedì 19 giugno 2014
Mark Strand
Anche nelle forme antologiche, ovvero quelle con cui è
stato composto L’inizio di una sedia, Mark Strand riece a trasmettere il senso
compiuto di un’identità forte, netta, mai compromessa, perché le sue poesie
“sono al di là delle distorsioni del caso, oltre le evasioni della musica”. La
singolare distinzione è utile a comprendere il linguaggio che anima L’inizio
di una sedia,
pur tenendo presente la sua composita natura. Mark Strand dissemina dettagli a
ritmo serrato ed è un fiorire continuo di richiami, di angoli nascosti e di
scoperte. E’ un gioco di specchi con la realtà, con i piccoli particolari
domestici o atmosferici che si rimbalzano con i riferimenti universali e
filosofici, un legame che si allunga e si restringe come una molla, attraverso
un uso fantastico delle parole. E’ Una suite di apparenze che comincia proprio da
una minuscola annotazione notturna. Eccentrica e rivelatoria, come spesso, se
non proprio sempre, sono le liriche di Mark Strand: “Nessuna meraviglia che il
giornale della sera non sia letto, nessuna meraviglia che ciò è accaduto, prima
di stasera, la storia di noi stessi, ci lasci freddi”. La selezione è
importante e contiene almeno due poesie di Mark Strand che lo rappresentano
senza margine di errore, un paio di biglietti da visita che illuminato tutto L’inizio
di una sedia.
La vita ininterrotta riparte proprio da quelle “incombenze domestiche” che Mark
Strand sa leggere, tradurre e trasformare come nessun altro: “Dite ai bambini
di rientrare, che continuate a cercare qualcosa che avete perso, un nome, un
album di famiglia caduto dalla propria irrilevanza in un’altra, un pezzo di
buio che sarebbe potuto esser vostro, che non conoscete davvero. Dite che
ciascuno di voi cerca di impegnarsi ad imparare ad abbassarsi a udire il respiro
spontaneo della terra a sentirne il disponibile languore sommergervi, onda su
onda, e inviare minuscoli fremiti d’amore attraverso i nostri brevi,
irrefutabili sé, dentro i nostri giorni, e oltre”. Il tema ricorrente del tempo
è l’altro snodo principale della poesia di Mark Strand e Il tempo a venire lo rivela così: “Il
tempo ci scivola accanto; i nostri dispiaceri non si fanno poesie, e
l’invisibile rimane tale. Il desiderio è svanito, ha lasciato solo una traccia
di profumo sulla scia, e così tante persone amate se ne sono andate, e non c’è
voce che giunga dallo spazio, dalle spire di polvere, dai tappeti di vento a
dirci che così è che doveva accadere, che se solo sapessimo quanto le rovine
vivranno non ci lamenteremmo mai”. Stupisce sempre la proprietà con cui Mark
Strand ammaestra le parole, l’abilità da giocoliere che riesce a mantenere in
equilibrio gli estremi del’infinito e dell’infitesimale e nello stesso tempo la
naturalezza con cui è arrivato alla poesia che, nella postfazione a L’inizio
di una sedia,
spiega così: “Non fu un processo voluto. A un certo punto mi sembrò che mi
fossi svegliato… E scrivevo poesia. Non credo che si giunga in modo razionale a
queste ossessioni che durano una vita". Dovesse servire a scoprire Mark Strand, è un bell'inizio.
venerdì 13 giugno 2014
Philipp Meyer
Quando Isaac English decide di lasciare la valle
della Pennsylvania in cerca di una speranza che non ha più, la sua fuga finisce
ben presto tra le mura di un’acciaieria abbandonata, una delle tante. Lui e
l’amico Billy Poe che lo sta accompagnando vengono aggrediti da un trio di
famelici homeless. L’acciaieria, quello che ne rimane, è una terra di nessuno e
Isaac English colpisce il più grosso degli homeless con una sfera d’acciaio pescata
tra i rottami e sparata come una palla da baseball. Da lì, dai resti macilenti
di un’industria crollata su se stessa, e proprio da quel preciso istante, si
dipana una fitta ragnatela di legami contorti e ambigui che Philipp Meyer, al
suo esordio, riesce a delineare con tratti vividi, quasi impressionistici,
eppure netti e decisi. Nessuno è innocente e la cornice ambientale lo
sottolinea senza pietà perché è la brutale decadenza del paesaggio, il suo
sfruttamento, così come quello degli uomini e delle donne, ovvero del loro
lavoro, l’origine ultima della malefica Ruggine americana. E’ il degrado delle
macerie e di quelle rovine polverose e ingombranti a ricordare che “nessuna
impresa dell’umanità, nemmeno la peggiore espressione della natura umana
sarebbe durata al punto da lasciare il segno, bastava guardare un fiume o una
montagna per capirlo: hai voglia a inquinare, ad abbattere foreste, loro
guarivano sempre, perfino gli alberi durano più di noi, le pietre sarebbero
sopravvissute alla fine del mondo. A volte te lo scordi, cominci a prendere sul
personale le brutture umane. Ma neanche quelle durano per sempre”. Proprio per
questo il paesaggio diventa l’espressione di un’identità perché come scriveva
Simon Shama in Paesaggio e memoria, “siamo abituati a pensare natura e percezione
umana a due regni distinti; in realtà sono inscindibili. Prima di essere riposo
dei sensi, il paesaggio è opera della mente. Un panorama è formato da
stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce”. Quando
la Ruggine
americana comincia
a intaccare il tessuto connettivo delle famiglie, delle comunità, rivelando la
disperazione di una lunga teoria di small town senza lavoro, le deviazioni
dell’economia, diventano evidenti così come le cadute verticali di valori (per
esempio, la mancanza di ossigeno nella produzione dell’acciaio, come nell’aria
che si respira tutti i giorni) rendono sempre più labili i contorni della
legalità. Tutti quelli che restano hanno un’arma (e sono pronti a usarla), non
solo lo sceriffo e l’alternativa della fuga è solo l’ultimo disperato tentativo
davanti alla delusione che traspare dalle forme distorte di immense strutture
metalliche ormai inutili e testimoni del fatto inevitabile che “ci evolviamo da
un milione di anni, per gustarci una giornata di sole”. La tragedia della Ruggine
americana
è la stessa di Io sono Red Baker di Robert Ward: un dramma blue collar, ancora e
sempre attualissimo, a cui Philipp Meyer riesce a dare il senso compiuto di un
(grande) romanzo cogliendo il vero dilemma di un infinito fallimento: “Era la
vita. Era paragonare le idee alla vita vera, il paragone non reggeva, erano
parole contro sangue”. Educazione civica.
venerdì 6 giugno 2014
Jack London
Di tutti i viaggi di Jack London, quello nel
quartiere londinese dell’East End all’inizio del ventesimo secolo, riportato in
Il popolo dell’abisso è il più duro, il più crudo, il più estremo. Una scelta
univoca, sul campo e di campo, dove Jack London rimane colpito da quello che
incontra, tanto da ammettere: “Ne ho letto e visto un bel po’, di miseria; ma
questa supera ogni immaginazione”. L’East End è un buco nero lasciato dalle
rivoluzioni industriali: le descrizioni sono minuziose, precise, puntuali e l’empatia
di Jack London è totale, e non è soltanto una questione di povertà o di
insuperabili difficoltà quotidiane. L’atmosfera plumbea che grava sull’East End
di allora, come su tutte le periferie e i ghetti di oggi, è una variazione
antropologica che Jack London ha anticipato osservando e vivendo con Il
popolo dell’abisso:
“L’uomo non si abbandona più all’istinto con la medesima, naturale sicurezza di
un tempo. A poco a poco, s’è trasformato in una creatura raziocinante che, con
estrema freddezza, con gelido calcolo, può di volta in volta aggrapparsi alla
propria esistenza oppure decidere di liquidarla, a seconda che essa prometta
grandi piaceri o dolori profondi”. In realtà la scelta nell’East End è
piuttosto limitata e il meticoloso racconto di Jack London è a metà strada tra
il reportage e il manifesto politico, eppure mantiene sempre una viscerale
sincerità che è poi la sua nota caratteristica e per certi versi definitiva:
“Vedo un futuro radioso per il popolo inglese, per i suoi uomini e le sue donne,
per ciò che riguarda la loro salute, la loro felicità, le loro condizioni di
vita. Ma per gran parte della macchina politica che è responsabile davanti a
loro di una così cattiva direzione e amministrazione, vedo solo il mucchio
degli scarti e dei rottami”. Il bisogno di sottolineare le responsabilità e
l’indifferenza, quella che Thomas Carlyle chiama un “gelido, impersonale e
universale laissez-faire”, non impedisce a Jack London di inserire Il popolo
dell’abisso in un contesto letterario raffinato ed elegante che comprende Oscar
Wilde così come la poesia finale di Henry Wadsworth Longfellow che riassume con
tagli netti, precisi, essenziali il senso di una ferita che non si rimarginerà
più: “I vivi nelle loro case, e nelle loro tombe i morti, e le acque dei loro
fiumi, e il vino loro e l’olio e il pane. Ma ben più vasto di quello, un
esercito d’ogni dove ci assedia minaccioso, un esercito imponente e affamato,
che preme a ogni cancello della vita, i milioni oppressi dalla miseria, che una
sfida lanciano al nostro vino e pane, e tutti ci accusa di tradimento, i vivi
come i morti. Così, ogni volta che siedo alla tavola imbandita, da cui alti si
levano canti e risa, odo, tra la musica e l’allegria, quel grido inquietante e
terribile. Visi scavati e disfatti, sbirciano entro la sala illuminata, e
lunghe mani ossute si protendono ad afferrare le briciole che cadono. Dentro,
c’è luce e c’è abbondanza, e l’aria odora di profumi; ma fuori regnano il gelo
e l’oscurità, la fame e lo sconforto”. Necessario.
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