Quando Isaac English decide di lasciare la valle
della Pennsylvania in cerca di una speranza che non ha più, la sua fuga finisce
ben presto tra le mura di un’acciaieria abbandonata, una delle tante. Lui e
l’amico Billy Poe che lo sta accompagnando vengono aggrediti da un trio di
famelici homeless. L’acciaieria, quello che ne rimane, è una terra di nessuno e
Isaac English colpisce il più grosso degli homeless con una sfera d’acciaio pescata
tra i rottami e sparata come una palla da baseball. Da lì, dai resti macilenti
di un’industria crollata su se stessa, e proprio da quel preciso istante, si
dipana una fitta ragnatela di legami contorti e ambigui che Philipp Meyer, al
suo esordio, riesce a delineare con tratti vividi, quasi impressionistici,
eppure netti e decisi. Nessuno è innocente e la cornice ambientale lo
sottolinea senza pietà perché è la brutale decadenza del paesaggio, il suo
sfruttamento, così come quello degli uomini e delle donne, ovvero del loro
lavoro, l’origine ultima della malefica Ruggine americana. E’ il degrado delle
macerie e di quelle rovine polverose e ingombranti a ricordare che “nessuna
impresa dell’umanità, nemmeno la peggiore espressione della natura umana
sarebbe durata al punto da lasciare il segno, bastava guardare un fiume o una
montagna per capirlo: hai voglia a inquinare, ad abbattere foreste, loro
guarivano sempre, perfino gli alberi durano più di noi, le pietre sarebbero
sopravvissute alla fine del mondo. A volte te lo scordi, cominci a prendere sul
personale le brutture umane. Ma neanche quelle durano per sempre”. Proprio per
questo il paesaggio diventa l’espressione di un’identità perché come scriveva
Simon Shama in Paesaggio e memoria, “siamo abituati a pensare natura e percezione
umana a due regni distinti; in realtà sono inscindibili. Prima di essere riposo
dei sensi, il paesaggio è opera della mente. Un panorama è formato da
stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce”. Quando
la Ruggine
americana comincia
a intaccare il tessuto connettivo delle famiglie, delle comunità, rivelando la
disperazione di una lunga teoria di small town senza lavoro, le deviazioni
dell’economia, diventano evidenti così come le cadute verticali di valori (per
esempio, la mancanza di ossigeno nella produzione dell’acciaio, come nell’aria
che si respira tutti i giorni) rendono sempre più labili i contorni della
legalità. Tutti quelli che restano hanno un’arma (e sono pronti a usarla), non
solo lo sceriffo e l’alternativa della fuga è solo l’ultimo disperato tentativo
davanti alla delusione che traspare dalle forme distorte di immense strutture
metalliche ormai inutili e testimoni del fatto inevitabile che “ci evolviamo da
un milione di anni, per gustarci una giornata di sole”. La tragedia della Ruggine
americana
è la stessa di Io sono Red Baker di Robert Ward: un dramma blue collar, ancora e
sempre attualissimo, a cui Philipp Meyer riesce a dare il senso compiuto di un
(grande) romanzo cogliendo il vero dilemma di un infinito fallimento: “Era la
vita. Era paragonare le idee alla vita vera, il paragone non reggeva, erano
parole contro sangue”. Educazione civica.
Nessun commento:
Posta un commento