Quella di Ry Cooder è una Los Angeles dove i
musicisti prendono il tram e le femme fatale arrivano in Cadillac ed è
punteggiata da una miriade di piccoli locali dove succede tutto perché sono
proprio i poli magnetici che attirano un’umanità variopinta e disorientata. La
vida es sueño
diceva Pedro Calderón de La Barca, la cui filosofia Ry Cooder nasconde dietro
una canzone tradizionale ed è proprio con il suono, la musica, i silenzi a
raccontare quell’incanto che “è racchiuso nella magia dello straordinario”,
quella specie di sogno a occhi aperti con cui ricostruisce racconto dopo
racconto l’idea di una città popolata da milioni di luci e altrettanti
fantasmi. E’ l’effetto che fanno
le Los Angeles Stories di Ry Cooder: arriva John Lee Hooker, si ascolta Glenn
Miller, si corre su strade incise nel deserto e tutto contribuisce a formare il
mood di una città e della sua ragnatela di vite e di morti. La sfumatura noir
che amalgama le Los Angeles Stories dipende dal fatto che “una pistola cambia le
cose” ed è soltanto uno degli strati che sovrappone con gusto artigianale,
minuzioso e misurato Ry Cooder: nella scrittura ha trasmesso le medesime
modalità della sua musica, puntando sull’atmosfera, sul dettaglio
impressionistico, persino sulla nostalgia dove è il caso. Non è difficile
immaginare che le radici di queste Los Angeles Stories vadano cercata in Chávez
Ravine,
disco particolarissimo e geniale che Ry Cooder ha dedicato a un singolo
quartiere della città, quasi una particolare porzione con cui confrontarsi. Nella
filigrana delle Los Angeles Stories si intravedono, come sottili strati che si sono
sedimentati con il tempo, e che Ry Cooder ha ricomposto sotto una malinconica
luce, i resti di quelle storie e di quelle tradizioni. Una parte della città
che è scomparsa per far posto alle speculazioni del cemento e all’asfalto, come
nel resto del’area di Los Angeles. “Nel mio quartiere, o vai forte o te ne vai
a casa” dice uno dei personaggi delle Los Angeles Stories e Ry Cooder, anche qui
assecondando un gusto minimale e appassionato, sembra temere certe
accellerazioni verso un futuro che è sempre più un’incognita. Non bisogna
essere urbanisti o sociologi per rendersi conto che con le macerie se va tutta
un’identità, viene uccisa tutta una storia, una cultura, una vita. Se serve
l’opinione di un illustre cittadino, quella di Ray Bradbury dovrebbe bastare:
“La verità è che Los Angeles non esiste. Con un po’ di fortuna, non esisterà
mai. Dovremmo pregare che queste ottanta città in cerca di un unico centro non
lo trovino mai. Il tessuto connettivo che un tempo fondeva la composita Los
Angeles, i grandi treni rossi della Pacific Electric, è sprofondato nella
polvere delle autostrade. E le autostrade? Sono affollate di gente che si
avventura nella pericolosa vita metropolitana, sedotta dalle sue lusinghe. Sono
piene di immigranti a bordo di carrette a benzina che ogni giorno devono
trovarsi un qualsiasi posto dove andare, e il più delle volte non vanno da
nessuna parte”.
Bene, sarà certo un grande libro. Il grande musicista sa creare climi come pochi al mondo, e le sue slide, i suoi "a solo" e le sue Dobro distorte hanno stampato nel mio immaginario, che pure quel paese nn ho mai visto, quelle sensazioni californiane come solo chi c'è stato può conoscere. Pregusto già il sapore del romanzo del genio, certamente tenendo di sottofondo una delle composizioni per Wenders
RispondiEliminaHo quasi finito di leggerlo. Mi è piaciuto molto il suo stile asciutto, senza fronzoli. E' stata una piacevole sorpresa scoprire Cooder un ottimo narratore. Una valida alternativa ai suoi dischi. Come non leggere un libro in cui il primo personaggio, del primo racconto, vive a Bunker Hill? Ho ritrovato lo stile del noir che unito alle storie di musicisti di secondo piano alle prese con avventure un po' strampalate crea un'atmosfera del tutto particolare. Malinconico nel descrivere una città che non esiste più che ormai vive solo nei libri. Una bella scoperta!
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