Dieci anni dopo Pastorale americana, Philip Roth con Indignazione ricrea quella spaccatura, prima dentro la famiglia, poi nelle istituzioni e infine in tutta la nazione che è uno degli effetti collaterali della guerra che, proprio per la sua intrinseca natura, è una ferita che non guarisce mai e inghiotte tutto. La connessione tra la Corea e il Vietnam è immediata per quanto i connotati geopolitici siano e restino molto distanti. È però lo stesso il meccanismo che porta la divisione sul campo a riprodursi a casa, con l’arruolamento sospeso sulla testa come una spada di Damocle a un’intera generazione. C’è sempre una guerra ad aspettare i giovani riottosi, ma nel caso di Marcus Messner la catena dei conflitti comincia tra le mura domestiche. È solo una piccola scoria nel meccanismo degli ingranaggi che ruotano senza sosta nel nome della famiglia, della scuola, della religione, degli Stati Uniti d’America e infine dell’esercito. La sua natura, non di ribelle, ma solo non omologata, lo porta a pagarne le conseguenze. Philip Roth, al solito, è elegante, metodico e nello stesso tempo feroce nel far scattare i meccanismi a orologeria che compongono Indignazione. La reazione a catena comincia con l’attrito tra padre e figlio: Marcus ha lavorato fin da bambino nella macelleria dei genitori, è sempre stato uno studente scrupoloso e non ha mai dato un singolo pensiero ai genitori. Al momento di scegliere il college, però, decide di allontanarsi dall’apprensione del padre e si iscrive in un istituto a distanza di sicurezza dal New Jersey, a Winesburg, Ohio. L’omaggio a Sherwood Anderson è esplicito eppure sottile nell’introdurre lo sviluppo centrale di Indignazione, dove Marcus Messner deve scontrarsi con le tradizioni e le istituzioni e la monolitica simbiosi che rappresentano. Difficile immaginare che Philip Roth non abbia ricordato uno dei passaggi fondamentali che spiegano Il libro delle caricature, dove Sherwood Anderson ricorda che “c’erano la verità della verginità e la verità della passione, la verità della ricchezza e quella della povertà, della modestia e dello sperpero, dell’indifferenza e dell’entusiasmo. Centinaia e centinaia erano le verità, ed erano tutte meravigliose. Poi veniva la gente. Ognuno, appena compariva , si gettava su una delle verità e se ne impadroniva; alcuni, molto forti, arrivavano a possederne una dozzina contemporaneamente. Erano le verità che trasformavano la gente in caricature grottesche”. È proprio ciò che deve affrontare Marcus Messner: insofferente, si nega alle confraternite e si concentra solo sullo studio e sul lavoro. L’unico incontro di rilievo, in grado di modificare la stoica condotta è quello con Olivia Hutton che si presta a fargli un regalo inaspettato. È uno scatto su un terreno fin troppo conosciuto da Philip Roth e viene da un’urgenza dichiarata dallo stesso Marcus Messner: “Nonostante le pastoie delle rigide convenzioni che ancora dominavano il campus di un piccolo mediocre college del Midwest negli anni immediatamente posteriori alla seconda guerra mondiale, ero determinato ad avere un rapporto sessuale prima di morire”. La sorpresa di Oliva non si limiterà a quello, ma a quel punto il magnetismo tra causa ed effetto che determina Indignazione diventa prevedibile e un gradino dopo l’altro porta direttamente Marcus a uno scontro prolungato con il decano Caudwell. Marcus prima gli lascia una scia di vomito in ufficio, poi gli concede un addio non proprio conforme ai regolamenti accademici. Avendo citato Bertrand Russell nell’alterco con il decano, Marcus avrebbe dovuto sapere che “il mondo degli interessi istintivi è un piccolo mondo, e sorge in mezzo a un mondo grande e possente che presto o tardi lo ridurrà in rovine”. Il danno, ormai, è compiuto e dietro la porta sbattuta lo aspettano l’espulsione, lo zio Sam e la trincea del 38° parallelo da cui “sotto morfina” ci arriva la voce dolente di Indignazione.
giovedì 26 luglio 2018
mercoledì 25 luglio 2018
Chris Offutt
Di ritorno dalla Corea, Tucker si sta avvicinando con cautela alla via di casa: con undici medaglie “in fondo allo zaino”, controlla ogni passo, anche se il rude territorio del Kentucky gli è più che familiare. La diffidenza è istintiva e, pur di restare a distanza di sicurezza, si cucina un crotalo (con questo rinnovando la tradizione delle forze speciali di mangiarsi i serpenti) nel guscio di una tartaruga, dorme all’aperto, pronto a scattare e a difendersi. Il preambolo di Country Dark è eloquente e detta il tono che resterà inalterato nel corso di tutto il romanzo. Tucker è un combattente e nel suo addestramento hanno trovato posto “nozioni mediche di base, tecniche di sabotaggio, impiego degli esplosivi, combattimento corpo a corpo, tecniche di evasione e orientamento”, senza contare che, lì, “dove era cresciuto le armi erano comuni come i badili, ma per la sua carabina M1 aveva nutrito un affetto sincero”. La linea del fronte nel Kentucky è differente dalla Corea, ma le insidie non sono molto diverse: Tucker vorrebbe stare ben lontano dagli altri e quindi dai guai, ma quando sventa uno stupro, deve uscire allo scoperto. Nell’occasione conoscerà Rhonda, sua futura moglie e madre dei suoi figli, e l’esistenza di una fitta rete di contrabbandieri di whiskey, condotta da un bifolco senza scrupoli, Beanpole. Tucker comincia a lavorare con lui: è bravo a non farsi beccare dagli sceriffi e a non farsi fregare dagli altri. È abbastanza scaltro da diffidare di tutti, in primis del suo padrone, perché “l’intuito lo aveva tenuto in vita in Corea, e lui aveva imparato a obbedirgli, a lasciare che fosse una sorta di nascosta consapevolezza del mondo a guidare le sue azioni”. Deve restare vigile e accontentarsi: per quanto povera, traballante e fragile, la famiglia è tutto quello che gli rimane. Tengono duro con dignità, e non è da tutti in quei boschi, finché Beanpole non lo costringe a un accordo che comprende, nel prezzo, un breve periodo di reclusione nel penitenziario dello stato del Kentucky. In carcere ci resterà cinque anni e la vita diventerà una scommessa e un’incognita quotidiana, come era in trincea. Il background del veterano viene adattato sui nuovi campi di battaglia: Tucker è preparato a eliminare ogni ostacolo, a individuare il nemico e neutralizzarlo. Sono le stesse proprietà che l’hanno salvato in Corea dove “Due terzi degli uomini che conosceva erano morti. Tucker attribuiva la propria sopravvivenza a una combinazione di fortuna e astuzia. Era più svelto a sparare. Nel corpo a corpo era sempre il primo a colpire”. La forza di volontà basta e avanza a distinguere il personaggio: Chris Offutt usa volutamente un linguaggio scarno, parziale, grezzo, calandosi nell’ambiente e nelle voci dei protagonisti. Le frasi sono troncate e calzano alla perfezione al ritmo martellante di Country Dark. Una volta uscito dal carcere, Tucker ha superato tutte le forche caudine immaginabili ed è un uomo a cui non si può più chiedere niente. Non di meno, gli affari sulle pendici degli Appalachi, come ricordavano anche Matt Bondurant e Brian Panowich, sono soltanto un’estensione di una furia selvaggia che avvolgerà lo stesso Tucker, al momento di presentare il conto a Beanpole. Lo scontro per riprendersi la famiglia e la casa sarà infido, brutale, senza esclusione di colpi, e l’unico vantaggio di Tucker resterà proprio il suo passato in una guerra americana ben presto dimenticata. Country Dark è un romanzo teso, avvolgente e ipnotico, ben più lungimirante di quanto la sua scorticata natura lasci immaginare.
martedì 24 luglio 2018
Tom Drury
Nel trasloco di Micah, il figlio di Joan e Tiny Darling in viaggio da Boris a Los Angeles, dove andrà a stare con la madre, ci sono già tutti gli elementi che distinguono Pacifico dagli altri due capisaldi della trilogia della Grouse County. Mentre emerge la generazione successiva a quella di Dan Norman e Tiny Darling (oltre a Micah e alla sua “california girl”, Charlotte, si fanno notare anche Albert Robeshaw e Lyris), comincia a svanire quella precedente, e diventa “ difficile immaginarsi il mondo senza di loro. Dopo un brutto temporale, il cielo a volte sembrava di un azzurro più pallido, troppo debole per sostenere il sole. Forse sarebbe stato qualcosa del genere”. È un passaggio delicato e spinge a concentrarsi sul singolo momento, identificato come “né passato né futuro, sono inspirare ed espirare”. È la dimensione univoca del tempo nella Grouse County e la curva verso la West Coast implica altri snodi, altre dimensioni per i suoi abitanti perché come diceva Robert B. Heilman, “per convalidare il qui noi abbiamo sempre bisogno di un altrove, di posti che fortunatamente non sono come i nostri. L’altrove è principalmente un supporto inerte, un testimone muto della qualità del qui”. La distinzione è essenziale. Los Angeles è il riflesso, opposto e contrario, della Grouse County: per le dimensioni, perché le singole località di cui è composta invece di distinguersi, si confondono, perché invece di concentrarsi in un quadrilatero nella prateria si espande informe e senza confini nel deserto. È una svolta importante, i rapporti sono più rarefatti, forse più effimeri, come se il clima (bello, ma sempre lo stesso) incidesse sugli umori, levigando e mitigando certe asperità che invece nella contea di Grouse County rimangono costanti. Non che a Los Angeles funzioni tutto a meraviglia (anzi), ma resta comunque l’altrove privilegiato in cui finzione e fiction tendono a sovrapporsi, e rende tutto molto più fluido. Come un gioco di rifrazioni, anche nella Grouse County precipitano elementi alieni e disturbanti, che poi sono le note caratteristiche di Pacifico rispetto all’intera trilogia. Jack Snow è un “gambler” che, a confronto, le sempreverdi abilità fuorilegge di Tiny Darling (di cui darà dimostrazione anche nel corso di Pacifico) sono piccolo artigianato. Sandra Zulma è invece il personaggio che introduce gli elementi esoterici, ma nemmeno tanto vista la storica predilezione degli immigrati scandinavi per il Midwest. Ossessionata dalla cultura celtica con tutti i suoi riferimenti ai clan e alla mitologia, si rivelerà una mina vagante, tanto è vero che lei e Jack Snow si elideranno a vicenda dalle storie di Pacifico. Nel fronteggiarli, Dan Norman, diventato un investigatore privato e Albert Robeshaw, che è diventato un cronista locale, tengono conto che “quelli che non daresti mai per vincitori possono rivelarsi gli avversari più pericolosi. Conviene sempre domandarsi cosa ci fanno lì, e quale segreto potrebbero avere”, e nel frattempo ripristinano antiche usanze e alleanze. Nel complesso della trilogia della Grouse County i personaggi di Tom Drury sono sempre sul punto di partire, liberi di andare e ricominciare, eppure sono imprigionati nelle proprie vite, Tiny Darling più di tutti, e ancora in Pacifico provano a uscirne senza uscirne e in fondo, si ritrovano ad accettare la condizione per cui non c’è “niente di male in un acquazzone, una volta accettata l’idea di starci sotto”. Rende l’idea. Le inarticolate traiettorie si infilano una sopra l’altra e i protagonisti rimangono collegati da un reticolo di vie: a tratti sono autostrade larghe e spaziose, spesso sono carreggiate di provincia, ma il più delle volte sono “gravel road”, strade di campagna che delimitano i percorsi, e su cui ci sono cose che succedono, e che potrebbero succedere se ci fosse un seguito. Norman tornerà a candidarsi a sceriffo, è evidente, magari Joan avrà il suo film e Tiny Darling aspetterà che qualcuno torni sul patio della casa di Boris nella “più sopportabile delle solitudini”, ma dalla Grouse County a Los Angeles, alla fine, resta la sensazione di avvicinarsi a qualcosa che sfugge. Una deviazione, uno scherzo, una piccola mutazione preludio a una trasformazione ancora più insondabile. Prima il morso, poi il bacio.
lunedì 23 luglio 2018
Denis Johnson
Come pietre che rotolano, senza alcuna direzione, sconosciuti persino a sé stessi, Jamie e Bill si incontrano a bordo di un Greyhound e si trovano nella notte americana a condividere “la ragione di ogni loro rimpianto e la giustificazione delle loro ferite”. Jamie Mays viaggia con due bambine, è “troppo stordita per chiedersi dove fosse finita la sua giovinezza” e ha solo un vago senso della meta che dovrebbe raggiungere. Bill Houston ha già provato la parte sbagliata della strada e, nonostante “le loro frettolose partenze, i freddi addii, e i deboli spostamenti”, sente crescere un legame con Jamie e la insegue “in the middle of nowhere”, forse come un’ultima, possibile chance di redenzione. Circondati da diseredati, disperati e maniaci che vivono di espedienti, incapaci di immaginare “una vita decente”, eppure coerenti alla loro dissoluzione, Jamie e Bill vivono “on the road” quello che Denis Johnson definisce “un crepuscolo perpetuo e uno sfinimento tutto privato” che comprende gli estremi tragici ed efferati di uno stupro (per Jamie) e di un omicidio (per Bill). Sono Angeli di una desolazione estrema, all’inseguimento di una fievole scintilla, che rimane inafferrabile. È nell’unico momento dai contorni familiari, quando la madre dei fratelli Houston li vede riuniti sotto il tetto di casa sua, per quella che sarà l’ultima volta insieme, che Angeli svolta verso il drammatico finale. Con il sottofondo di Light My Fire dei Doors, è proprio l’istinto materno che riesce a cogliere con efficacia quel fugace istante: “In quel momento fuori del tempo, non riusciva a preoccuparsi del fatto che alcune di quelle persone si erano lasciate andare al fato ed erano divenute pericolose. Non riusciva a preoccuparsi del fatto di aver già assistito a quel genere di conciliaboli tra uomini di quel tipo: nel bel mezzo di una riunione familiare incominciavano a parlare per frasi brevi e con aria distaccata in modo che nessuno potesse udirli. In seguito succedevano sempre cose terribili”. La combriccola degli Houston progetta una rapina che, almeno nelle intenzioni di Bill, dovrebbe servire a dare un futuro a lui e a Jamie. In effetti sarà proprio così, soltanto che per una malefica legge del contrappasso, i loro destini saranno separati nella forma, ma identici nella sostanza. Nel disastro seguito alla rapina, Bill Houston finirà in prigione, dove capirà che “non era la punizione a far male, era il fatto che la punizione non era mai sufficiente”. La condanna a morte, a quel punto, gli apparirà come una soluzione radicale, definitiva e liberatoria da una vita perduta. Denis Johnson sa tracciare “il vuoto dietro le porte e dentro le cose” senza descriverlo, ed è straordinario nel raccontare le lunghe e cupe giornate dentro le mura e dietro le sbarre di Bill, così come di Jamie che nel frattempo, dopo anni di abusi e di vaneggiamenti, viene ricoverata in un manicomio, con annessa prescrizione dell’elettroshock. La conclusione a cui giunge lei, in uno dei rari momenti di lucidità, vale per entrambi: “Bastava ascoltare le notizie per capire che il mondo si stava spaccando in mille pezzi. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe uscito da quell’esplosione quando fosse finalmente venuto il momento”. Angeli è tagliente, spietato e reso altrettanto concreto e molto credibile dallo stile inimitabile di Denis Johnson: un’aspra apologia dei loser la cui unica e sola fortuna è quella di essere ancora vivi.
martedì 17 luglio 2018
Charles Wright
È ancora l’attenzione di Charles Wright al paesaggio italiano a determinare il senso compiuto delle poesie raccolte in L’altra riva del fiume. L’Italia vista da un poeta “tutto americano” sulle colline di cipressi del lago di Garda, nelle terre di Virgilio, fino all’esplicito omaggio a Mantova, diventa una visione notevole che va oltre la cornice della cartolina o del diario di viaggio e dello sguardo fugace del turista. Avendo studiato e tradotto la letteratura italiana, un lavoro che, come scrive in Omaggio a Cesare Pavese, l’ha portato a riflettere su come si fa “ad animare un verso. A creare ponti immaginari tra immagini e strofe, e ad attraversarli”, Charles Wright si trova immerso tra le pieghe dell’immaginazione e nella realtà dei panorami. Una condizione affascinante in sé, come scrive proprio in L’altra riva del fiume: “È della connessione che parlo, di armonie e strutture, e di tutte le varie cose che c’incatenano i polsi al passato. Dietro ogni cosa qualcosa d’infinito appare, e disappare poi, tutto dipende da come restringi le superfici. Tutto dipende da che posto hai nel cielo”. Con una grazia leggera e raffinata, che si risolve in una sonora fragranza, Charles Wright resta in equilibrio, tra i resoconti letterari, compreso l’appassionato tributo A Giacomo Leopardi su nel cielo (“Non è il corpo, è la mente che ci sostiene e punta una luce nei nostri occhi: se lo spirito è il nulla, la luce meglio che ritorni piuttosto che s’accenda”) e l’incanto davanti alla generosa bellezza degli scorci italiani, che lo spingono a considerare un proposito molto semplice: “Voglio sedermi sulla riva del fiume, all’ombra del sempreverde, e guardare in faccia ciò che, sia quel che sia, c’è in serbo per me”. La scelta delle parole è modellata con cura: nei versi di Charles Wright c’è una dolcezza e insieme questa fermezza, quasi una spontanea solidità, una spontaneità che si somma a una prospettiva coltissima, e nello stesso tempo genuina. Un’attitudine che ricorda quello che scriveva Giuseppe Ungaretti proprio in una nota ai Canti: “La natura è grande e ci rende grandi purché tra essa e noi non si frapponga l’incivilimento con sofistiche analisi e la nostra ignavia non s’abbassi a non possedere più agli occhi nostri altro mistero fuorché della sua condizione mortale, spenta in noi ogni illusione”. Charles Wright ne è consapevole, tanto è vero che alla fine in Anime perdute scioglie tutti i nodi e ammette che “a lungo andare niente assomiglia a niente, niente di quel che scrivi è mai vero come credi che fosse”. Mentre le sue Giornate italiane volgono al termine e, con Dante e William Blake che si sovrappongono, Charles Wright a Roma scrive una sacrosanta verità, ovvero che “la poesia è sempre un autoritratto, qualche che sia la maschera, che ti togli o rimetti”. Il confronto, a quel punto, è con l’inizio perché “ciò che dura è ciò da cui cominci” e L’altra riva del fiume si era svelata con Lonesome Pine Special: “È vero, credo, come dice Kenkō nei Momenti d’ozio, che la bellezza sempre dipende da una sottrazione, i margini smangiati dalle cose, il graduale vanire, in tessuto e memoria, l’incertezza, e la vertiginosa impermanenza dei giorni cui imploriamo senso, e la loro grazia sfilacciata”. Il maestro Kenkō diceva anche che “se gli specchi avessero un colore e una forma, non rifletterebbero nulla. È il vuoto che contiene sempre le cose. Parimenti, quando mille pensieri affiorano liberamente nel nostro cuore, non sarà forse perché in realtà il nostro cuore è vuoto? Se il cuore avesse un padrone, di certo tante cose non potrebbero entrarvi”. È importante per capire il “paesaggio interiore” determinato dall’Italia, dalla sua “eccellenza intellettuale”, che ha affascinato Charles Wright che, a saldo di tutte le divagazioni, resta convinto, come scrive in Due storie, che “c’è un punto debole in ogni cosa, le nostre dita tocchino, quel punto dove ogni cosa si spezza, se premiamo come si deve. Così è il passato coi suoi bordi affilati e lati ciechi, i girali delle nostre impronte digitali, impressi sulle sue pareti, come fossili lasciati dal mare” e che, pur con tutti gli sforzi e i tentativi, “il problema di come dovremmo vivere la vita in questo mondo, non avrà risposta da noi, stamattina”. Questo però lo dice in California Dreaming, una volta tornato a casa, sull’altra riva dell’oceano, e di fronte alla normalità di tutti i giorni, ma anche quella, tutto sommato, è una scoperta.
mercoledì 11 luglio 2018
Claire Cameron
Nel corso di una recente intervista, Claire Cameron mi raccontava del suo incontro ravvicinato con l’orso, durante un’escursione negli sterminati territori canadesi: “L’ho visto più avanti lungo il sentiero, lui si è accorto di me e si è fermato ad annusare l’aria. Allora ho tolto lo zaino con il cibo, l’ho lasciato per terra, poi con molta cautela mi sono allontanata e mi sono arrampicata su un albero. Sapevo che non sarebbe servito a niente, ma l’ho fatto così, come forma di rispetto nei suoi confronti”. Spazzolati i viveri, l’orso se ne è andato per la sua strada e Claire Cameron ha potuto ritrovare la via di casa: l’aneddoto è curioso, ma anche sintomatico di quello che può succedere quando si sconfina in un’ecosistema dominato dai predatori. Nel 1991 Raymond Jakubaukas e Carola Frehe non sono stati abbastanza accorti o altrettanto fortunati nell’Algonquin Provincial Park, quasi ottomila chilometri quadrati di paesaggio di una bellezza indicibile, dove hanno trovato la morte, massacrati da un orso. Partendo da quell’evento, Claire Cameron sdoppia la famiglia e alla madre e al padre uccisi dall’orso aggiunge un figlio e una figlia che fuggono in lotta per la sopravvivenza. Le loro peripezie in una wilderness magnifica e brutale sono un costante tentativo di adattarsi a un ambiente impervio e l’espediente narrativo, rispetto alla realtà dei fatti, funziona. In effetti, L’orso ha un ruolo concentrato e specifico nel generare la separazione violenta dai genitori e la conseguente evoluzione della storia. Se le statistiche dicono che gli incidenti sono rari, va detto che un comportamento degli animali considerato anomalo è forse normale sul loro terreno, dove gli esseri umani non dovrebbero mettere piede, o almeno dovrebbero farlo con assoluta circospezione. Quello che fa di Anna (Nana, secondo il fratello) e Felix (che lei chiama Stick) i protagonisti, essendo gli unici sopravvissuti, è anche un’occasione di vedere il rapporto con gli animali e più in generale con la natura da una prospettiva singolare, che fonde incanto e terrore. Una storia claustrofobica negli spazi aperti della wilderness e il paradosso è tale perché Anna e Alex sono in cerca di un rifugio: prima in un frigorifero da campeggio dove li nasconde il padre per difenderli dall’orso, poi in una traballante canoa e infine nel cavo delle radici di un albero. Il linguaggio infantile e limitato con cui Anna racconta la loro disavventura è conseguenza di una visione complessa, dove è l’istinto a prevalere. L’orso sente la loro presenza, annusa l’aria, ma è soddisfatto delle sue prede e i due bambini devono affrontare altre prove, non meno impegnative: la sete, la fame, il freddo, il disorientamento. In definitiva L’orso è un romanzo teso e incalzante sulla capacità di adattarsi a un habitat che è sì quello dell’orso, ma è anche quello degli esseri umani che, se hanno uno strumento in più, è da trovare nella logica, nel pensiero, nella speculazione visto che, come dice la stessa Claire Cameron nella nota introduttiva, “identificare un errore ci rassicura perché ci permette di distinguere le circostanze di un incidente da quelle in cui ci troviamo, dandoci la sicurezza che quanto è successo agli altri non succederà a noi”. È l’unica differenza, andrebbe colta più spesso. Una piccola curiosità: il tragico assalto (quello vero) alla fonte del romanzo di Claire Cameron ha ispirato anche la canzone dei Tragically Hip che, guarda caso, ha lo stesso titolo, The Bear.
venerdì 6 luglio 2018
James Lee Burke
Tutto comincia con Dave Robicheaux impegnato nel banale fermo di un attore, Elrod Sykes, e della sua fidanzata, Kelly Drummond che guidano un po’ troppo alticci sulle strade di New Iberia. Per Robicheaux non è stata una giornata facile, avendola passata in cerca di una ragazza, poi trovata massacrata nei boschi. Qualcosa gli dice che i due eventi sono in qualche modo collegati tra loro, ma i suoi pensieri sono avvolti in una nebbia densa. Il serial killer che imperversa là fuori sovrappone le orme ai ricordi dei linciaggi, e nei suoi movimenti collega un produttore cinematografico senza scrupoli, mafiosi, prostitute e sceriffi locali premiati da una particolare ottusità. Dave Robicheaux si deve districare in questa fetida palude umana e fin tanto che prova a organizzare una versione raziocinante di sé non riesce a trovare una via d’uscita e anzi L’occhio del ciclone lo vede diventare ben presto un bersaglio. Quando si ricorda che i sogni l’hanno “portato in molti luoghi”, Robicheaux incontra un aiuto inaspettato e misterioso nel generale John Bell Hood che condivide con lui l’ossessione per quello che sta facendo, per la guerra che “non è mai finita” e l’insofferenza verso la politica. Il generale è saggio, accorto e convincente e sarebbe una guida efficace, se non fosse che è morto a New Orleans il 30 agosto 1879. Con il suo fantasma, James Lee Burke costruisce una storia parallela dove il razzismo e la schiavitù (due virus malefici che viaggiano sempre insieme) riemergono dall’humus della Louisiana, in contemporanea alle ferite sempre fresche della guerra di secessione. Il consiglio principale che lo spettro di John Bell Hood offre a Streak è questo: “Cerchi di rammentarti di una cosa. È come quando iniziano a tempestarti di ferri di cavallo e anelli di catene. Credi che il fuoco di fila non finirà mai, ma all’improvviso cala un silenzio che è quasi più chiassoso dei loro cannoni. Spero che la gravità del mio paragone non la spaventi”. Essendo costretto ad affrontare un po’ tutti, Dave Robicheaux userà le visioni per farsi guidare in uno dei suoi casi più torbidi e complessi, che affonda le sue radici proprio nei meandri dei bayou e del passato. Gli altri aiuti arriveranno da un bluesman, Sam “Hogman” Patin, che nel momento giusto canta Stagolee, ovvero la murder ballad per antonomasia, e da Rosie Gomez, un’agente dell’FBI che diventerà la sua partner fino alla fine della missione. In uno scenario nebuloso e ambiguo, dove chiunque interpreta una parte e il doppio gioco è un’abitudine corrente, lei è l’unica di cui si può fidare ma “nessuno è in grado di scegliere il proprio ruolo nella storia” e il concetto di giustizia e di vendetta tendono a sfumarsi come un tramonto sullo stagno. Quando i nemici rapiscono la figlia Alafair, Dave Robicheaux passa alle maniere forti e più che i suggerimenti del generale Hood si lascia guidare dall’istinto e dalla sua radicata conoscenza del territorio: il bayou “gonfio e giallastro”, le tempeste che lasciano una “luce ambrata”, le radure e le strade sterrate non sono soltanto i fondali, ma formano una cappa che sembra trattenere i segreti, almeno finché qualcuno non decide di sfidare anche gli incubi. Onirico, elettrico, ruvido, L’occhio del ciclone resta un bel Robicheaux d’annata.
martedì 3 luglio 2018
Vance Packard
Agli albori della moderna pubblicità, allora “un aspetto nuovissimo, ancora misterioso e si potrebbe dire esotico della vita americana”, Vance Packard prova a dimostrare come “la nostra esistenza quotidiana è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto”. L’applicazione della psicanalisi, per comprendere ed eventualmente prevenire e incanalare “i capricci del consumatore”, trova nella ricerca motivazionale lo strumento adatto a limitare il rischio del collocamento dei prodotti sul mercato. Attraverso numerose testimonianze e l’analisi di svariate tipologie di campagne promozionali, Vance Packard arriva a definire in modo esplicito due punti di non ritorno fondamentali. All’alba del 1956, la pubblicità non è più “l’anima del commercio”, ma lo strumento principale per mantenere e controllare i livelli di consumo e di conseguenza quelli di produzione. L’inventiva dei copywriter e poi dei cosiddetti “maghi del profondo”, come li definisce Vance Packard, non è più destinata a trovare le strategie migliori per comunicare quale bene può soddisfare un’esigenza, ma viene indirizzata a creare un bisogno. Per farlo, i “persuasori occulti” hanno dovuto far leva sulla “sicurezza emotiva”, ammantando prodotti d’uso comune, dall’automobile al frigorifero, dal whisky al caffè, dalle sigarette alla margarina, di un valore aggiunto (e posticcio) generato dalla pubblicità. La ricerca motivazionale ha fatto sì che questo meccanismo si evolvesse da qualcosa di molto simile a un gioco d’azzardo a un processo scientifico atto a scongiurare i comportamenti non logici del pubblico, dove per logico s’intende, pare ovvio, la pura e semplice accondiscendenza alle proposte di stagione. Solo che, come fa notare a più riprese Vance Packard, “mano a mano che imparavano l’arte di vendere al nostro subcosciente, i persuasori estendevano l’area delle loro ricerche, finché giunsero a quella zona che comprende i nostri dubbi su di noi stessi e le nostre segrete miserie”. Le variabili sono numerose e intricate, ma sono documentatissime nell’evidenziare come I persuasori occulti ci abbiamo identificato come “adoratori di immagini, dediti ad atti impulsivi e compulsivi” e si siano accaniti a sfruttare “il nostro senso di colpa e di solitudine, le nostre paure, ansietà, ostilità, la nostra segreta tensione”. Certo, a distanza di più di mezzo secolo la ricerca motivazionale, a confronto della profilazione continua e dell’imperversare degli algoritmi sembra una pratica pionieristica, rudimentale ed empirica. Se i sistemi di suggestione e di marketing sono progrediti in modo esponenziale, alla radice rimangono comunque sono proprio le variazioni sul tema raccontate da Vance Packard, riassunte nel paradosso dello slogan: “Noi non vendiamo prodotti, compriamo clienti”. A maggior ragione quando la comunicazione riguarda i cittadini, ancora prima che i consumatori, e non a caso I persuasori occulti dedica la parte conclusiva alla “regia del consenso”, ovvero alla determinazione delle inclinazioni politiche. Pur mettendo in conto tutte le questioni morali (che rimangono valide), Vance Packard resta molto obiettivo e nelle sue conclusioni ricorda che “l’impiego in campo politico della manipolazione in profondità sembrava giustificato dal fatto, sempre più evidente, che gli elettori non davano garanzia di comportarsi in modo razionale. Nella loro scelta si riscontrava sempre un elemento illogico o non-logico, sia individualmente sia nelle masse”. Senza scomodare Orwell, che comunque aveva presagito tutto, Vance Packard accosta un paio di validi allarmi, per ricordare gli effetti collaterali della persuasione occulta. Il più volte candidato alla presidenza degli Stati Uniti e poi ambasciatore, Adlai Stevenson sosteneva che “Il fatto che si pretenda di vendere i candidati alle massime cariche dello stato come se si trattasse di dentifrici… Costituisce l’estrema indegnità del processo democratico”. Un’opinione interessante, visto il curriculum, e non è da meno quella di Kenneth Bouldin che, pur restando un modesto professore universitario faceva notare come, attraverso I persuasori occulti, “si può perfettamente concepire un mondo dominato da una dittatura invisibile nel quale tuttavia siano state mantenute le forme esteriori del governo democratico”. Nessuna teoria del complotto: è solo il mercato, in tutto il suo splendore.
Iscriviti a:
Post (Atom)