Fedele al titolo e rispecchiando la forma delle canzoni e in fondo l’essenza dei Ramones queste cento pagine riescono nell’impresa di raccontarli con la stessa immediatezza. Forse non c’è modo migliore: il loro è un immaginario compresso in ritmo e velocità, con componenti stilistiche ridotte al midollo, nessuna concessione fuori dai propri limiti e una concentrazione univoca e feroce. Concentrandosi in particolare sull’epocale album d’esordio e con il felice (e ormai raro) dono della sintesi, Nicholas Rombes trova il modo di coniugare tutti gli elementi distintivi della storia dei Ramones partendo da un’attitudine singolare e in gran parte ancora incompresa. La descrizione iniziale è esplicita e diretta: “Erano forse il più puro e il più geniale dei gruppi punk spersonalizzati: si presentavano con una divisa immutabile, condividevano lo stesso cognome, e facevano musica che riarticolava più e più volte una sola idea”. Subito dopo, la sua analisi aiuta a collocarli con un grado di precisione che merita tutta l’attenzione possibile: “In America c’è forte scetticismo e diffidenza nei confronti di qualsiasi forma artistica e culturale che non si evolve, che non cresce. Non esiste critica più grave dell’accusa di ripetere se stessi. Eppure lo scopo del punk era proprio la ripetizione: la sua arte stava nel rifiuto dell’elaborazione. E questo non è mai così evidente quanto nel primo album dei Ramones, la cui simmetria tremenda e inflessibile annunciava l’arrivo di un suono talmente puro da non avere bisogno di cambiamento”. Per quanto superficiale, ristretta e monocorde, almeno in apparenza, l’espressione dei Ramones condensa un mucchio di sollecitazioni, prima tra tutte, per quanto a livello subliminale, la dottrina usa e getta di Andy Warhol e, per naturale estensione, di un’intera città. Lo notava soprattutto Dick Hebdige: “I gruppi punk di New York avevano assemblato un’estetica consapevolmente profana ed estrema a partire da una varietà di fonti artistiche affermate (dall’avanguardia letteraria al cinema underground)”. Da quella posizione privilegiata, Nicholas Rombes concentra sui Ramones una rivisitazione del significato primo e ultimo del punk che “ha reso famoso il gesto di mettere mano a una chitarra o a una penna per affrontare la cultura, non per distruggerla, ma per trasformarla” e, accelerando senza timori reverenziali, “aveva riportato nel sistema una sensazione di divertimento e pericolo”, e questo è tutto. Sì, una soluzione pronta, da consumare subito, senza controindicazioni, compreso il suo destino effimero perché, come scrive Nicholas Rombes, “in realtà, il punk funzionava meglio quando era qualcosa di sfuggente, intravisto con la coda dell’occhio. Era destinato al fallimento, e qui stava la sua bellezza. Non poteva durare”. Se è vero da un punto di vista estetico, bisogna aggiungere che la scintilla dei Ramones e del punk viene però inserita in una prospettiva più ampia, sia in direzione del futuro, sia andando a ritroso nel tempo visto che, secondo Rombes, “la filosofia del fai-da-te fa parte della tradizione americana, dall’epoca della Guerra d’Indipendenza all’appello alla fiducia in se stessi di Ralph Waldo Emerson”. E comunque i Ramones (indispensabili oggi più che mai) non hanno fatto tutto da soli e Nicholas Rombes ricorda nella giusta misura il ruolo di cronisti musicali che per un brevissimo momento parvero coltivare ambizioni linguistiche e letterarie un po’ più elevate rispetto alle paludi dell’underground. Uno di loro, Danny Fields, un testimone sul campo molto affidabile, scrisse: “Le canzoni erano brevi. Si capiva nel giro di cinque secondi che cosa stava succedendo. Non c’era bisogno di analizzare e/o stabilire cosa si vedeva o si sentiva. Era tutto lì”. Breve, intenso ed efficace, proprio come i Ramones.
Nessun commento:
Posta un commento