martedì 22 luglio 2025

Daniel Mark Epstein

Un po’ di tempo fa Dylan ha detto: “Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che è importante. Non devo sapere cosa significa una canzone. Ho scritto di tutto nelle mie canzoni. E non ho intenzione di preoccuparmi di cosa significhi”. La presa di posizione è più che legittima, così come vale comunque la pena dare una sbirciatina dietro l’angolo e provare a cogliere gli intensi riflessi di quello che Daniel Mark Epstein definisce in modo appropriato “un poeta e una sorta di profeta, uno del quale potevi essere sicuro che esprimesse sinceramente le proprie percezioni. Vedeva in profondità nella storia e nel cuore umano. Il poeta era un’affidabile entità morale, incorruttibile in questo senso”. Per provare a raccontare una volta di più la figura di Dylan, con partecipazione ma senza ossequi di sorta,  Daniel Mark Epstein opta per una biografia non convenzionale (che, tra l’altro, non procede in senso cronologico) e alterna ricordi e sensazioni individuali a cronache e letture storiche collettive e diffuse. Messa da parte l’urgenza nozionistica o rivalutata da altri autori (Shelton, Scaduto, Sounes) con uno spirito più libero e informale, la “ballata” di Bob Dylan trova un andamento caratteristico con ampie sequenze dedicate all’analisi delle canzoni (tra cui vengono messe in risalto Tangled Up in Blue, Jokerman, Mississippi), alla realizzazione degli album (con un notevole spazio dedicato, per esempio, a Time Out of Mind e a Love and Theft), ai rapporti e al ruolo dei musicisti coinvolti e ai lati esistenziali e caratteriali, compresi quelli più sgraditi e oscuri. Un certo grado di disordine è da mettere in conto perché Daniel Mark Epstein, pur riportando con accuratezza fatti & storie, ritorna comunque a concentrarsi sulle origini e sul destino delle canzoni. Questo è propiziato dalla vocazione di Dylan che, fin dalla sua apparizione nelle strade di New York “chiedeva insistentemente, otteneva in prestito, o rubava registrazioni, memorizzando canzoni. Creò nella sua testa una collezione più fantastica di qualsiasi altra esistente su un acetato o vinile perché le canzoni erano tutte vive e collegate tra di loro, immediatamente disponibili per intero o in frammenti, trasformandosi, dividendosi e combinandosi incessantemente nell’immaginazione del poeta”. Mentre sfilano in ordine sparso Pete Seeger, Phil Ochs, Joan Baez e la Band, Allen Ginsberg o i Grateful Dead, attraversando stati d’animo e umori a volte difficili, spesso incomprensibili, Dylan pare estraneo, se non proprio alieno alle faccende terrestri e il motivo lo spiega con un interessante paradosso: “Se uno scrittore ha qualcosa da dire deve dirlo a tutti i costi. Il mondo è reale. La fantasia è diventata il mondo reale, che ce ne rendiamo conto o no”. Suo coetaneo (o quasi), Daniel Mark Epstein pare assecondarlo, mantenendosi in bilico, tra una visione intima ed emotiva, comprensiva di un concerto del Never Ending Tour visto in compagnia del figlio, la descrizione dei complessi meccanismi che regolano la vita in una rock’n’roll, con l’ampio e meritatissimo spazio dedicato al batterista David Kemper e al chitarrista Larry Campbell e la necessità di tornare a ribadire che “il linguaggio della canzone è una forza di cui tenere conto”. Le divagazioni, frequenti e ricche di suggestioni, sono parte integrante di una prospettiva anomala e aggiornabile, che segue un itinerario tutto suo, senza la volontà di esaurire a tutti i costi ogni singolo aspetto personale e artistico (che resta un’impresa improbabile) e di ritornare spesso e volentieri all’origine perché come dice Jim Dickinson: “Sono convinto che per lui le canzoni siano tutto”. Deve essere proprio così, e nel nome di Woody Guthrie, Hank Williams, Johnny Cash ed Elvis, la “ballata” di Bob Dylan resta anche qui la più luminosa.

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