mercoledì 22 dicembre 2021
Robert Gordon
lunedì 20 dicembre 2021
Barry Gifford
Nella radio, Little Richard canta Lucille e il groove scandito asseconda e sottolinea la conversazione in corso tra madre e figlio, in viaggio attraverso l’America. Le voci si distinguono nitide e seguono un ritmo sincopato, ma non privo di una sua dolcezza. La vita si svolge tutta dentro l’abitacolo dell’auto, Roy, nove anni, è uno sguardo alimentato da una curiosità insaziabile e per la madre è una sorta di riflesso imprevedibile, che rimbalza in continuazione, tappa dopo tappa. Il viaggio non è organizzato, prevede deviazioni di percorso, reali e immaginarie, “una religione della geografia” che comprende frammenti del passato (“Ti ricordi come risuonavano le onde sulla spiaggia a Cuba? Il modo in cui schiaffeggiavano la sabbia, poi facevano una specie di sussurro mentre l’acqua si spargeva ovunque prima di ritirarsi. Una cosa completamente diversa dal suono del fiume a New Orleans”), valutazioni dedicata ai luoghi incontrati di volta in volta (“Secondo me dappertutto è successo qualcosa di importante per qualcuno, solo che certi ci hanno tirato su un polverone, a differenza di altri”) e di persone abbandonate al proprio destino (“Uomini e donne, che non si capiscono tra loro e non hanno neppure voglia di provarci, o non ne sono capaci”). Ogni frase è centellinata a costruire un microcosmo in movimento e l’ossessione di Barry Gifford per i dialoghi trova in Wyoming la sua apoteosi: sono il plasma che genera tutto, dai personaggi che vengono ricreati nel fluidificare del confronto tra madre e figlio alla visione del paesaggio che scorre parallelo alla strada. Le loro voci disegnano una fitta simbologia americana al 100%: una carrellata che scorre senza fine: motel, il serpente reale e quelli arboricoli, i seminole, la wilderness, la guerra di secessione, il Mississippi (“Scommetto che gli schiavi non pensavano che i campi di cotone fossero così belli”), il Texas alle spalle, New Orleans di passaggio, l’Alabama da qualche parte. Il percorso è tortuoso e contorto: un po’ elencano le località, un po’ gli stati che si susseguono, come a voler trovare una posizione, uno schema che nemmeno la mappa riesce a garantirgli. Si passa dentro l’America con una sequenza di città e smalltown, di incroci e mete oscure, evocando figure lontane o scomparse (a partire dal padre di Roy) o che tendono a dissolversi nei ricordi e nella limitata ricostruzione delle parole. Nel colloquio senza sosta tra madre e figlio, il passato scorre almeno quanto la strada, due componenti che si srotolano apparentemente senza fine. È lì che Barry Gifford lascia intravedere un senso senza rivelarlo: l’impressione è proprio che il loro sia anche un viaggio nel tempo perché “gli anni si perdono, volano via e non riesci a ricordarli”. La vita resta inafferrabile e il Wyoming, tra l’altro nemmeno sfiorato nel lungo tragitto, è un’aspirazione, più che una meta reale, è uno stato della mente, una necessità, forse anche una scusa, proprio come dice Roy: “Mi piace quando siamo a metà strada, tra i posti da cui veniamo e quelli a cui siamo diretti”. Da grande narratore quale è, Barry Gifford non lo dice, ma lo lascia capire: una volta arrivati, è troppo tardi. La felicità resta tutta, sempre e solo nell’incertezza.
venerdì 10 dicembre 2021
Harlan Ellison
martedì 23 novembre 2021
Joy Williams
venerdì 19 novembre 2021
John Irving
giovedì 4 novembre 2021
Rachel Carson
Lo studio di Rachel Carson risale al 1962 e, anche se alcuni aspetti da allora sono radicalmente cambiati, proprio grazie alla sua pubblicazione, le conclusioni rimangono solidissime e sempre attuali. L’uso delle sostanze chimiche, non soltanto nel campo dell’agricoltura ma in tutto lo spettro della vita umana, è “un problema di ecologia, di correlazione e di interdipendenza”. È l’assunto principale di Primavera silenziosa a cui segue, puntuale e necessaria, la precisazione sulle decisioni che impongono il loro utilizzo e contiene inevitabilmente una critica al potere costituito perché, come spiega Rachel Carson, “tale arbitrio denuncia la temporanea intrusione di un principio autoritario nell’esercizio del potere. Essa tradisce la buona fede di milioni di cittadini, per i quali la bellezza e l’ordine del mondo naturale hanno ancora un significato profondo e inalienabile”. L’analisi è condotta su rigorose basi scientifiche e spesso e volentieri per affrontare Primavera silenziosa bisogna districarsi in un trattato di chimica industriale, tenendo a portata di mano la tavola periodica degli elementi: Rachel Carson è meticolosa nel provare l’incidenza delle sostanze chimiche sulla “natura reale della vita” attraverso l’inquinamento del suolo e delle acque. La terra è il primo fattore a subire le conseguenze dell’uso sistematico di composti chimici, a partire dall’irrorazione degli insetticidi. I danni ambientali, documentati da Primavera silenziosa con atti ed esami provenienti da tutti gli Stati Uniti, rimangono impressionanti, ma è ancora più grave l’incidenza sulla percezione stessa del territorio. Dice infatti Rachel Carson: “Se è vero che la nostra esistenza basata sull’agricoltura dipende dal suolo, non è meno vero che il suolo dipende a sua volta dalle forme viventi, dato che la sua origine e la conservazione della sua reale natura hanno un’intima connessione con la vita delle piante e degli animali. Il suolo, infatti, è stato parzialmente creato dalla vita, e la sua nascita può considerarsi il frutto di una sorprendente interazioni, in epoche remotissime, tra viventi e cose inanimate”. Lo stesso discorso vale per l’acqua: sia nel suo scorrere superficiale che in quello sotterraneo, quando viene avvelenata dai residui chimici si trasforma da fluido vitale nella catena alimentare degli esseri viventi, dal plancton ai mammiferi, a veicolo di morte e distruzione. Qui, la riflessione di Rachel Carson si estende a una considerazione più ampia e approfondita, che merita di essere affrontata per esteso: “Per le sorti del genere umano, ciò che più importa non è la vita dei singoli individui, ma il retaggio genetico, questo vincolo che ci lega al passato e al futuro. Plasmati attraverso millenni di evoluzione, i nostri geni non soltanto fanno di noi quello che siamo, ma racchiudono nella loro minuscola natura ogni prospettiva dell’avvenire, ricca di promesse o gravida di minacce”. La destinazione a cui giunge Primavera silenziosa, partendo dall’abuso delle sostanze chimiche, comprende una paio di considerazioni insindacabili nella complessità della presenza umana sulla terra: 1) “Il controllo della natura è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’età di Neanderthal, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo”; 2) “La vita è un miracolo che va oltre i limiti della comprensione umana ed esige rispetto anche quando ci troviamo costretti a combattere contro di essa”. Diretta conseguenza di questi due postulati, la conclusione di Rachel Carson è in effetti il richiamo a un’assunzione di responsabilità, che non è più rimandabile: “Spetta dunque a noi decidere. Se, dopo aver tanto sopportato, abbiamo finalmente rivendicato il nostro diritto di sapere, e ci siamo accorti allora che ci viene richiesto di affrontare rischi insensati e spaventevoli, perché mai dovremmo dare ancora ascolto a chi ci esorta a cospargere il nostro mondo di veleni chimici? Guardiamoci piuttosto attorno e cerchiamo di vedere se esiste un’altra soluzione”. Per cui più degli slogan e dei proclami servono “migliaia di piccole battaglie destinate a far trionfare il buon senso e la ragionevolezza nel nostro adattamento al mondo che ci circonda”. Impegnativo, ma necessario.
mercoledì 3 novembre 2021
Johnny Cash
giovedì 21 ottobre 2021
Larry McMurtry
mercoledì 20 ottobre 2021
Jack Kerouac
mercoledì 13 ottobre 2021
Steven Blush
Premesso che Please Kill Me di Legs McNeil e Gilliam McCain, resta il caposaldo e un giro di boa per chiunque voglia raccontare una rivoluzione musicale, New York Rock di Steven Blush seguendo proprio quell’impronta è una storia orale che ripercorre il suono della città, che è in realtà molti sound diversi, anche se il ritmo del rock’n’roll è la linfa sanguigna che è rimasta più a lungo, nel tempo, e più diffusa nei quartieri. New York è vista contemporaneamente dall’alto e dal basso, come qualcosa di vivo e pulsante, di animalesco, persino, con un fermento che parte dall’evoluzione urbanistica della metropoli, dalle attività immobiliari, ovvero dalla speculazione edilizia e dalla gentrificazione di intere aree e dall’alternarsi dei flussi di abbandono e occupazioni di edifici fatiscenti, decadenza e affitti ridotti, e poi gli interventi perentori delle istituzioni e del mercato a spazzare via tutto. Ma finché è durata, e Steven Blush prende come capolinea la definitiva chiusura del CBGB’s, lo storico locale sulla Bowery dove è successo tutto, ormai nel 2006, nei bassifondi si sono susseguite ondate musicali che via via hanno portato a galla le singole storie di un’umanità fluttuante, che viveva soprattutto nelle strade, a caccia di un’emozione, una sensazione, un’invenzione. Come un netturbino all’alba del mattino dopo, Steven Blush raccoglie tutto, facendo soltanto un minimo sindacale di cernita: legami e scontri, disturbi e ossessioni, abusi e disastri, canzoni e rumori ed elenca le vite brevi e brucianti di dozzine di rock’n’roll e quelle, altrettanto fulminee, delle tappe del nightclubbing. Ne emerge la cartografia di come una repubblica underground indipendente e autonoma, che assorbe il carattere cosmopolita della città con tutte le tensioni e ha il “vaffanculo facile” come parola d’ordine e strumento di combattimento nelle strade. Come dice lo stesso Steven Blush, New York Rock “è una confluenza di dure realtà urbane, predisposizioni artistiche volubili, auto-promozione e rituali di intossicazione”. Il corollario di morte (per violenza, per droga, per AIDS) che cala un sudario sulla città è riportato fedelmente, e senza censure, ma nulla toglie all’inarrestabile proliferare di musica che ha visto protagoniste declinazioni e deformazioni estreme e radicali, destinate a diventare dei classici moderni. Il ruolo dei Velvet Underground su tutti, per aprire una saga di generazioni nel rapporto biunivoco tra rock’n’roll e arte che ha generato il magnetismo di New York, è irrinunciabile. Forse in New York Rock manca all’appello un approfondimento dei legami in parallelo con le realtà artistiche, peraltro annunciati spesso con i nomi di Andy Warhol, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat. Ma si capisce che il flusso corrisponde più all’istinto che a una ragione storiografica, ed è così che Steven Blush interpreta quel magma che ha cominciato ribollire negli scantinati e nei vicoli: “Il punk si è rapidamente evoluto in un movimento onnicomprensivo per anticonformisti dall’attitudine provocatoria. Un aspetto fondamentale del punk era la sua forte reazione alla fuga dalla realtà diffusa dagli hippie degli anni Settanta. I punk abbracciavano la realtà, catturando l’insolenza della scena glitter nel tentativo di rivitalizzare il rock. Ecco perché i capelli corti, la musica veloce, e il vaffanculo facile si sono rivelati così accattivanti per qualcuno, e una vera minaccia per lo status quo”. Sono i New York Dolls (forse più dei Ramones) a scatenare l’inferno e a sovvertire le regole, costumi compresi, sia secondo Johnny Thunders (“I Dolls hanno dimostrato che non bisogna essere geni della tecnica per suonare rock’n’roll. Tutto dipende da stile, energia e attitudine”) che David Johansen (“Avevamo una visione molto informale del mondo”). Poi non si fanno sconti e la lista dei caduti, il dissolvimento di intere comunità e l’arrivo di una nuova epoca, “da quanto hanno sbiancato Manhattan” (Iggy Pop dixit) rende il lavoro di Steven Blush un documento grezzo, non filtrato, molto prezioso. Come diceva Lydia Lunch: “New York era sporca, violenta, fallita, invasa dalle droghe e ossessionata dal sesso, in una parola, incantevole. Malgrado ciò, ridevamo tutti, perché o ridi o sei morto”. Ecco, questa è New York Rock.