Freddy Otash è una conoscenza di lunga data negli inferni hollywoodiani di James Ellroy che, romanzo dopo romanzo, si è guadagnato un posto in prima fila, fino ad assurgere al ruolo di protagonista come già succedeva in Ricatto e come si ripete e si moltiplica nel bis di Panico. Per cui, niente di nuovo sul fronte occidentale: Freddy Otash ordisce trame, intrighi e complotti senza soluzione di continuità. Ha legami e connessioni con l’intera Los Angeles e, come è tradizione nell’area, vive in macchina e la strada è la sua casa. Si nutre di alcol e anfetamine, sguazza nella merda con grandi soddisfazioni e notevoli fallimenti, ma se dice qualcosa, il romanzo di James Ellroy, è che rimane solo una parte irrilevante, un piccolo, infinitesimale ingranaggio di un meccanismo molto più grande, complesso e micidiale. Non invisibile: nell’indefinita rincorsa al potere, la commistione tra politica, fiction e disinformazione che nel corso degli anni ha prodotto veri e propri effetti monstre, e non solo in America, come ben sappiamo. Per dirla con Freddy Otash: “Hollywood ti incula sempre quando nessun altro è disposto a farlo”, e anche questo, bisogna dirlo, è un dato di fatto. Ma Panico va a fondo, all’inizio di tutto, nel ventre della bestia, e James Ellroy, dall’alto della sua posizione cinica, distorta e irrispettosa crea un furibondo frullatore che macina senza pietà e con divertita brutalità miti, leggende, realtà e invenzioni americane. Nel Panico ci finiscono un po’ tutti: James Dean e Rock Hudson, Charlie Parker e Art Pepper, nonché Marlon Brando, ma soprattutto Caryl Chessman in attesa di essere giustiziato, figura attorno alla quale ruotato le ossessioni di Freddy Otash e un po’ tutto il senso della storia. Neanche a dirlo, naturalmente non manca neanche John (o Jack) Kennedy, qui in versione astro nascente, promettente senatore e vulnerabile animale notturno. Dal 1949 al 1960, Panico è l’ennesima immersione senza via di scampo in una Los Angeles torbida e frenetica, descritta come “una corsia d’ospedale per malattie polmonari” e illuminata dai bagliori dei test nucleari nel deserto: uno sfondo perfetto per un teatro di ricatti e omicidi, di appetiti incontrollabili e decadenza senza fine. Non ci sono colpevoli o innocenti, solo capri espiatori. Indizi, non prove. Segreti, e una pioggia acida di pettegolezzi che allineano avidità, lussuria, e tutti i peccati capitali messi in fila in un’apocalisse di turpitudini, trascritta come se fossero gli appunti per un romanzo, piuttosto che un romanzo vero e proprio. Prendere o lasciare: con sommo piacere e celebrandolo sull’altare del caos, James Ellroy diventa Freddy Otash, “un poliziotto corrotto e un gorilla che usa le maniere forti con troppo passato e nessun futuro da perdere”. L’esecuzione risulta disturbante con quel martellare parossistico di allitterazioni e reiterazioni e con l’assenza (non una novità) di una prosa formalmente compiuta, ma qui è tutto scorretto, sgangherato, deviato e, in breve, davvero caustico. Per fortuna, anche perché con ogni probabilità non esiste un altro modo per raccontare queste storie. Del resto, sia James Ellroy che Freddy Otash convengono nel dire che “noi siamo fedeli alla nostra merda”, e Hollywood nel Panico è una fogna a cielo aperto, ma resta ancora il più grande sogno di tutti e di sempre.
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