Ararat è un montagna piuttosto ripida da scalare. Soprattutto nelle parti iniziali è difficile intravedere un quadro complessivo, o un senso, nel caso fosse necessario. Spesso Louise Glück, con il suo stile scarno ed essenziale, è lapidaria, senza possibilità di appello. La considerazione in Parlante inaffidabile è quasi un avviso ai naviganti: “Quanto a me, mi sento invisibile: perciò sono pericolosa. Gente come me, che sembra generosa, è menomata, è bugiarda; siamo quelli da rispedire al mittente per amore della verità”. Sono flash che lasciando interdetti, se non proprio confusi. Le scene domestiche e i legami famigliari sono tutti vagliati e limati con una lingua semplice, naturale. Louise Glück è diretta, uno dopo l’altro i versi vanno a comporre un’infinita didascalia che annoda la sottile, impercettibile trama di istantanee da cui filtra il reiterato tentativo di comprendere la natura delle cose. Protagonisti sono i rapporti con la madre, con la sorella, con nipoti e cugini, e con la dimensione sfuggente del padre. I parenti ruotano attorno in continuazione e senza sosta mentre la cornice casalinga è vista con la prospettiva di un microscopio, ma anche con la grazia necessaria per cogliere i dettagli importanti come accade puntualmente in Nuovo mondo: “Come il palloncino di un bimbo che vola via nell’attimo in cui non lo tiene stretto” e si resta “senza rapporto con la terra”. Con il suo peso specifico, l’infanzia, ricostruita dalle minuzie ricamate nel tempo, pur essendo una materia instabile, fugace ed elementare resta l’espressione di qualcosa simile a un rimpianto per non aver potuto “scegliere le persone da amare” come recita un significativo verso di Cerchio marrone. I ricordi si creano e si ricreano e Ararat è un territorio di dolore ma anche di ascesa e di salvezza. Il contrasto è indispensabile ed è compreso nella cadenza molto regolare del ritmo di Louise Glück perché, come scrive in Musica celestiale “l’amore per la forma è un amore per i finali”. Ecco che, con una progressione sensibile, ma inequivocabile, prende corpo una sorta di discorso con alcune linee precise che provano a definire i confini dell’anima. Non ci sono proclami, e pur mettendo in conto il titolo, neanche rivelazioni bibliche. Louise Glück riesce far intravedere quel tema infinito e ingombrante da una posizione privilegiata, illuminandosi con quattro righe di pura ispirazione. Scrive con Il bambino piange: “L’anima è silenziosa. Se mai parla, parla nei sogni”. Si tratta di un’essenza che muta, si trasforma ed è indipendente, proprio come la poesia. A parte la meraviglia, a noi resta solo “esistere nel presente”, suggerimento che arriva da una poesia il cui titolo, Lamento, ne è già l’espressione più completa possibile e immaginabile. Tra le raccolte di Louise Glück, Ararat è forse la più personale e intima, per tutte le sue connessioni con la famiglia vista come un nucleo instabile e vitale. Il livello di introspezione implica anche una certa asprezza perché Louise Glück non fa sconti a se stessa, figurarsi al lettore, e questo finché il silenzio viene assunto come “il segno che forse il debito è stato finalmente pagato” e la conservazione della specie può continuare ad aggrapparsi alle parole, come se non ci fosse molto altro lassù in cima.
domenica 29 giugno 2025
mercoledì 25 giugno 2025
Elijah Wald
Da New York a Newport, contano i luoghi e i tempi a definire la rapida svolta impressa dall’arrivo di Dylan. A guardare bene sono soltanto quattro, cinque anni, dal 1961 al 1965, ma succede di tutto. Nei caffè del Village domina la scena folk che si intreccia con il movimento per i diritti civili e contro l’onnipresente minaccia della guerra nucleare. Prima di lui, ci sono Woody Guthrie, Ramblin’ Jack Elliott, Dave Van Ronk, Eric Von Schmidt, Joan Baez e Pete Seeger che ha il ruolo di anfitrione in una scena in movimento a cui Dylan ha attinto e restituito in termini di popolarità. Questo è il substrato in cui appare come se fosse venuto dal nulla, circondato da un’aura misteriosa che lui stesso ha contribuito a creare, che si alterna al fascino della musica folk che, come spiega Elijah Wald era “dovuto al fatto che fosse imbevuta di realtà, di storia, di esperienze profonde, di miti antichi e sogni incrollabili. Non si trattava di un suono o di un genere specifico, ma di un modo di comprendere il mondo e radicare il presente nel passato”. È importante ricordarselo: la ricerca dell’autenticità e della purezza si scontra con le rapide metamorfosi di Dylan, perché, come è successo spesso nella sua storia, è dentro e nello stesso tempo è già fuori. Tra Washington Square e Newport la distanza è relativa, ma Dylan ha già accelerato. Scrive Jon Pankake: “Lo trovai terribile, ma ne fui affascinato. In passato era stato inibito come tutti noi, ora ululava e saltellava a destra e a manca. Prima di lavorare sulla tecnica, aveva lavorato sulla libertà”. Il racconto è minuzioso, ricco di dettagli e di testimonianze ed è comunque molto scorrevole: Elijah Wald riesce a mantenersi in equilibrio tra la ricostruzione degli eventi e dei personaggi e le analisi critiche, per esempio, spiegando molto bene l’influenza dell’arrivo dei Beatles e della British Invasion, come precedenti di quello che succederà a Newport dove il contrasto tra pop, folk e rock’n’roll diventerà palese proprio con Bob Dylan. Siamo già nel 1965 e un’annotazione di Elijah Wald fa pensare: a Newport, Dylan non mostra il futuro (gli strumenti elettrici sono soltanto un pretesto, il più appariscente), ma si mostra come custode del passato. Questa idea pare contraddittoria, ma contiene alcuni elementi che meritano un supplemento di riflessione. In effetti la musica di Dylan risiede lì, pur con tutti i distinguo del caso, e c’è già tutta una serie di segnali nell’aria frizzante, dalla Paul Butterfield Band a Richard e Mimi Fariña, movimenti notturni e sollecitazioni imprevedibili, che anticipano la svolta. L’apparizione di Dylan è un happening, una macedonia di questioni tecniche, ambientali ed esistenziali irrisolte. Secondo Elijah Wald “senza dubbio, Dylan stava esagerando. Per lui, la presenza di una band era una forma di comunicazione, ma anche un guscio protettivo”. È un dettaglio all’interno di un movimento d’insieme, visto dall’alto e dall’interno, con tutte le contraddizioni e le idiosincrasie, dalla leggenda dell’ascia di Pete Seeger alle reazioni del pubblico, a partire da quella, feroce, di Alan Lomax. La composizione delle diverse prospettive è un’opzione valida, ma giocoforza resta incompiuta, anche se diventa chiaro che “il problema non erano soltanto gli strumenti elettrici, ma una convergenza di diversi livelli di conflitto: la musica pop contro la musica tradizionale, il confezionamento commerciale contro le creazioni della comunità, l’evasione dalla realtà contro l’impegno sociale”. È una linea di demarcazione tra epoche differenti e quel preciso momento è diventato “un simbolo comodo e irresistibile, riciclato in innumerevoli documentari fino a diventare un cliché. Il motivo per cui la sua eco continua a risuonare è che, anche se avvenne in un momento storico ben preciso, il conflitto che rappresenta è eterno”. Il vero contrasto andato in scena è una frattura tutta americana che vede da una parte “l’ideale democratico e collettivo di una società di pari che collaborano per il bene comune; dall’altra, quello della libertà del singolo individuo, che non deve sottostare ai vincoli di regole e usanze”. A quel punto Elijah Wald sottolinea che siamo ormai tra “l’ambito di competenza della storia e quello della leggenda” e da lì in poi le cose vanno veloci, troppo veloci: “i tempi stanno cambiando”, Newport resta un ricordo e Dylan se ne va verso orizzonti impossibili.
venerdì 20 giugno 2025
Matti Friedman
Nell’autunno del 1973, mentre è sono in corso gli attacchi dello Yom Kippur, Leonard Cohen lascia moglie e figlio sull’isola di Hydra per raggiungere il fronte. Spinto e attratto da una forza atavica si imbarca per andare laggiù dove c’è l’azione, dove si svolge la storia. Il suo primo commento è una cartolina dai cieli sopra il Mediterraneo: “Noi viaggiatori eravamo giunti in cerca della guerra, un intero aeroplano”. Le motivazioni di questo “incredibile tour”, al di là delle radici ebraiche, sono imperscrutabili: Leonard Cohen viveva un momento limitato e contraddittorio e le intenzioni del suo viaggio era tutt’altro che definite, viste che non si era portato nemmeno una chitarra. Scriverà Sylvie Simmons nella sua voluminosa biografia: “Nelle settimane successive Leonard (Cohen) viaggiò su camion, carri armati e jeep alla volta di avamposti, accampamenti, hangar, ospedali da campo, qualsiasi posto in cui ci fossero dei soldati, e si esibì per loro fino a otto volte al giorno”. Non si tratta di veri e propri show, ma di piccoli happening improvvisati. Si ritrova con un pubblico di ragazze e ragazzi in divisa sfiniti, prostrati e addolorati che ascoltano le sue canzoni seduti nella polvere, con i mezzi corazzati sullo sfondo, illuminandolo con le torce in dotazione. Situazioni imprevedibili, a tratti surreali che Matti Friedman riesce a ricostruire con tatto e misura: l’atmosfera di pericolo e fragilità che avvolge ogni singolo momento è palpabile. Poi, come qualsiasi cosa riguardi Leonard Cohen, è tutto indefinito, sfumato, sospeso tra la realtà e i lampi dell’immaginazione e del desiderio. Le parole fanno fatica a manifestarsi, i soldati lo guardano con rispetto e partecipazione, ma senza possibilità di condividere la speranza per un futuro che per molti di loro non arriverà proprio. È un alieno e Matti Friedman amplia un po’ la visuale e attorno alla presenza di Leonard Cohen individua le vicende di giovani che stanno combattendo e hanno davanti un destino drammatico. Scrive che “la musica di Cohen era l’eco di un mondo più vasto, non apparteneva alla realtà in cui vivevano loro”. Amos, allora un pilota di cacciabombardiere Skyhawk, sembra rispondergli come l’eco di un tempo lontanissimo: “L’esperienza, per come la ricordo, fu quella di dimenticare tutto ed entrare in un altro mondo, un mondo in cui non c’eravamo tutti noi sempre di corsa, non c’erano i morti, non c’era la paura”. Quando Leonard Cohen si ritrova, solo, nel Sinai, scopre un luogo dove il suo spirito irrequieto sembra accomodarsi. Gli spazi senza orizzonti sono una prova, una delle tante, ma per il tormentato poeta “il deserto è stupendo e per un attimo o due pensi che la vita abbia un senso”. Se secondo Suzanne Vega Il canto del fuoco è “una descrizione affascinante e intensa”, è anche perché Matti Friedman si prodiga per colmare gli spazi lasciati in sospeso e i lunghi intervalli di silenzio che distinguono ogni mossa di Leonard Cohen. Trovano così posto le testimonianze sul campo, le voci dei caduti e dei sopravvissuti, gli echi terribili delle notizie dalle battaglie e quelle piene di dolore, a casa. Leonard Cohen attraversa tutto come un pellegrino penitente, senza chiedere nulla, cantando le canzoni come se fossero preghiere, accontentandosi di dormire sulla sabbia e di mangiare le razioni dell’esercito. Scrive Lover Lover Lover, canta Bird On The Wire che assume un senso particolare pensando ai ragazzi che volano nei cieli notturni appesi a un filo, ma nella sostanza è solo un viandante che condivide la frugalità dei pasti, la vastità del deserto e la tragica realtà della guerra confidando, ancora una volta, nell’utilità delle parole e nella grazia della musica.
lunedì 16 giugno 2025
Ishmael Reed
C’è il groove e c’è l’intenzione di fermarlo perché ha un potere assurdo, difficile da codificare: è incontenibile, gioioso e di giorno in giorno si moltiplica senza sosta. Le istituzioni, le società segrete, le chiese riconosciute, persino i marines, provano in tutti i modi a contrastare le ondate ritmiche, gli effetti incontrollabili delle danze, le mutazioni di usi e costumi, il riappropriarsi di un’identità e la sua proliferazione nei quartieri delle maggiori città e in tutta la nazione. La direttiva è esplicita e univoca: “La gente dovrà comportarsi meglio o non sopravviverà. Smetterla con questi balli, con questo casino, con la soddisfazione di bassi appetiti carnali. Abbiamo bisogno di fabbriche, scuole, fucili. Ci servono dollari”. Ovvio. Conotro il disturbo della quiete pubblica, lo schema è ricorrente e risaputo: il conflitto latente ha le sue radici storiche e politiche e bisogna partire, ancora una volta, dalla schiavitù, ma Ishmael Reed non si attiene mai alle linee di demarcazione sottintese dal romanzo in sé e inventa un mosaico di parole che rispettano soltanto la corrente sincopata del linguaggio. Se è vero che l’America “è il paese dove qualcosa ha successo in proporzione al modo in cui è presentata”, Ishmael Reed rilancia in senso divergente ed esponenziale. È tutto slang, anche a discapito della logica e comprese nel caos generale le forme tipografiche non convenzionali che concorrono a fare di Mumbo Jumbo un caso più unico che raro. La natura stilistica è senza dubbio originale ed esplosiva, con salti, iperboli, digressioni o semplici deviazioni. Le possibilità non sono molte: o ci si lascia andare nel flusso trascinante della mistura di Ishmael Reed senza sindacare su logiche e significati o si rimane incastrati alla ricerca di un senso che è difficile identificare. La trama di Mumbo Jumbo è uno scheletro che balla ascoltando il riverbero antico dei tamburi di Congo Square così come i volteggi spiritati dei sassofoni di John Coltrane. Tra templari, androidi parlanti, cannibali, sette e religioni, connessioni politiche ed equilibri occulti, New Orleans e Harlem, investigatori e giornalisti, trafficanti e artisti, Zora Neale Hurston e Langston Hughes, è spettacolo senza un coesione apparente, ma che mostra quello che siamo diventati perché è la rifrazione di una realtà complessa ed evanescente nello stesso tempo. L’insieme è inafferrabile, ma contiene tutti gli elementi della presunta modernità, in particolare uno sciame turbolento di informazioni, un virus linguistico pericoloso e sfuggente, la cui ambiguità si riflette nello svolgersi di Mumbo Jumbo. È facile stupirsi nell’inseguire Otis Redding piuttosto che Freud e Jung e, nel contesto caleidoscopico di Mumbo Jumbo, trovarlo normale perché in fondo “non c’è tempo per spiegazioni”. Succede perché prevale l’alternarsi di personaggi in continuo movimento che “inseguono se stessi. Lo chiamano destino. Progresso. Noi lo chiamiamo spettri. Gli spettri delle loro vittime che salgono sulla terra dell’Africa, del Sudamerica, dell’Asia”. Quello che cresce non chiede permesso e Ishmael Reed conferma che in origine “non apparteneva a nessuno. Le parole non si potevano pubblicare ma la melodia era irresistibile”. È il jazz con tutta la sua forza a trascinare Mumbo Jumbo con le presenze di Scott Joplin, Charlie Parker, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Fats Waller, Bix Beiderbecke, Paul Whiteman, Cab Calloway, Bessie Smith, Clarence Williams e, non a caso, il Cotton Club che diventa l’epicentro di tutto.
lunedì 9 giugno 2025
Anne Rice
A New Orleans è “come se la notte fosse durata mille anni” ed è dove i vampiri hanno avuto terreno fertile, attingendo all’immane martirio della schiavitù, un’ombra pesante che aleggia sulla città e su tutta l’America. Se questo è l’ambiente che li ha ospitati, le origini sono molto più complesse, tanto è vero che il lugubre interpellato, Louis de Pointe du Lac precisa subito: “Ci sarebbe una risposta molto semplice. Ma non credo di aver voglia di dare risposte semplici”. Ben presto, l’intervista si trasforma in un lunghissimo monologo dove vengono espresse tutte le particolari condizioni esistenziali dei vampiri. Si rivelano esseri tribolati, malinconici, feroci e prigionieri di una decadenza infinita. Le architetture che di volta in volta abitano e affrontano riflettono la loro identità, l’afflizione che coltivano lungo una falsa eternità e va detto che i vampiri sono una realtà molto complicata. Intanto non sono reali, appartengono a una dimensione parallela, non priva di contraddizioni e di paradossi e Intervista col vampiro in questo è una specie di vademecum dettagliatissimo che va oltre gli aspetti più spaventosi perché, “uccidere non è un atto qualsiasi” e “non si tratta solo di rimpinzarsi di sangue”, ovvero l’atto che li distingue “è l’esperienza di un’altra vita, della perdita di quella vita, attraverso il sangue, lentamente; è rinnovare il ricordo della perdita della mia propria vita”. In cerca della genesi dell’enigma, Louis, accompagnato da Claudia, una bambina che lui e Lestat hanno trasfomato in vampiro, lascia New Orleans per addentrarsi nell’Europa centrale. È un viaggio atlantico ed è anche una sorta ritorno a casa, ma in Transilvania, i miti e le leggende che popolano i villaggi non risolvono il mistero, anzi, lo rendono ancora più acuto. L’angoscia di Louis e la sete di conoscenza di Claudia si scontrano con “la stessa solitudine, la stessa condizione senza speranza. Tutto sarebbe andato avanti come prima, sempre, sempre”. Nelle lunghe e cupe giornate dei Carpazi, capiscono che “non c’era tempo, non c’era ragione”, ma non si arrendono. La meta successiva è Parigi dove si scontrano con una comune vampiresca, piuttosto ambigua vista l’indole solitaria, e ritrovano Lestat che muore e risorge più volte, e ritornerà ancora nella sanguinosa saga di Anne Rice. Mentre il racconto si dipana con atmosfere che ricordano i dipinti di Bruegel, Dürer e Bosch che nell’Intervista col vampiro rappresentano “le ultime vestigia dell’umanità”, nel legame tra Claudia e Louis diventa difficile stabilire cosa sia l’amore per i vampiri (per cui è tutto un assoluto), al punto che lui confessa: “Rimpiango solo di non essere stato più attento alla trasformazione”. Si scopre così che i anche vampiri hanno una sensibilità, e sanno notare “un fiammifero acceso nell’altra stanza, un’ombra che balza all’improvviso alla vita, quando luce e buio si animano dove non c’erano che tenebre”. Intervista col vampiro ne indaga a fondo l’essenza elencando tutta una simbologia legata a generazioni di vampiri che si susseguono e si alternano nel protrarre nei secoli una desolazione infinita. Sì, si comprende l’intensa sofferenza ma alla fine la natura dei vampiri è quella che è, e lo scoprirà anche l’improvvido intervistatore. Condannati “a un tempo vuoto ed eterno” a cui non c’è consolazione, “nessun segreto, nessuna verità, solo disperazione”, sono una tragica deviazione, o forse “solo un’illusione, causata da quel luogo assolutamente selvaggio che era la Louisiana”, dove, infine, ritornano tutti. Sono molto umani, ma “gli uomini erano capaci di una malvagità di molto superiore a quella dei vampiri”, e su questo non c’era dubbio fin dall’inizio.
venerdì 6 giugno 2025
James Sallis
L’odissea umana di Lew Griffin, protagonista della serie che comprende anche Il calabrone nero e La mosca delle gambe lunghe, segue, in questa tappa, le tormentate vicende di una bambina, nata prematura e già tossicodipendente. Baby Girl McTell, questo il nome della piccola sfortunata, è figlia di Alouette la cui madre è LaVerne, intima e profonda amica di Lew Griffin. È proprio la scomparsa di Alouette che lo porta a scoprire l’esistenza di Baby Girl McTell attraverso i paesaggi torbidi e umidi del Delta che sono un ostacolo non indifferente, come riconosce lo stesso Griffin: “Da queste parti non si sopravvive se non si è disposti ad adattarsi. E a tenere duro”. La sua esperienza, parte da lontano, quando cercava di interpretare al meglio il ruolo di detective, ma ormai si è sovrapposto a James Sallis, visto che nel frattempo è è diventato insegnante e scrittore. Non un percorso semplice, anche perché torna a sfiorare quel passato che non passa mai: “Me n’ero andato in città, a New Orleans e mi ero fatto una vita; non una vita di cui vantarsi, ma pur sempre una vita tutta mia, e mi ero tenuto alla larga da quei posti. Da un sacco di altre cose, in verità. E adesso erano tutte lì ad aspettarmi”. Così, mentre Lew Griffin è incastrato tra un crossroad e un juke joint, con le canzoni di Sonny Boy Williamson e Robert Johnson che risuonano nell’aria, tutto un mondo gli si sgretola attorno perché, come dice in uno dei passaggi più significativi de La falena, “la vita che viviamo, i manufatti che realizziamo non sono che un trasparente, uno strato posto sopra chissà quanti altri strati: alcuni destinati a rivelare, altri a nascondere”. Lew Griffin, in questo romanzo intenso e drammatico, attraversa tutti, i livelli della disperazione e della redenzione, andando a cercarsi i guai quando i guai non trovano lui perché poi in fondo il vero problema è “il tempo, che ti ruba la vita e ogni buona intenzione”. Capita persino al suo fraterno amico, Don Walsh, uno che ha combattuto a testa alta nelle strade di New Orleans ma che non ha retto tra le quattro mura della sua famiglia. La sua storia scorre parallela a quella di Baby Girl McTell, di Alouette e di LaVerne come una variazione dello stesso animo blues di Lew Griffin. Se Alouette guarda con qualche titubanza verso il futuro (“Non sono in grado di fare previsioni a lunga scadenza. Lo vorrei, certo, ma è proprio che non posso, che c’è qualcosa che ancora non quadra”) e James Sallis pare parlare per tutti i suoi personaggi quando dice che “forse, dopo tutto, per quanto possiamo parlare di cambiamenti, di redenzione o di crescita personale, per quanto possiamo essere dipendenti da terapeuti, fedi religiose o droghe (legali o no) che alterano la percezione, siamo costretti a ripetere gli stessi, identici gesti per tutta la nostra vita, rivestendoli di panni diversi, come bambini che giocano, così che possiamo fingere di riconoscere quegli stessi gesti guardando negli specchi”. Per Lew Griffin diventa evidente che “il fardello che ci carichiamo sulle spalle finisce per spingerci a fondo. Nella migliore delle ipotesi, ci tiene fermi dove siamo”. A James Sallis non resta notare che il viaggio è uno solo: “Dentro il passato, senza tregua, Kierkegaard aveva ragione: la nostra esistenza, siamo in grado di comprenderla (se mai lo facciamo) solo guardando all’indietro”. Non è l’unica citazione di alta qualità: richiama anche le letture di Conan Doyle, George Perec, Gore Vidal, Thomas Bernhard, Jonathan Swift, James Baldwin, Raymond Queneau, Robert Pirsig, Tennessee Williams e Chester Himes a cui ha dedicato La falena. Notevole.
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