venerdì 20 giugno 2025

Matti Friedman

Nell’autunno del 1973, mentre è sono in corso gli attacchi dello Yom Kippur, Leonard Cohen lascia moglie e figlio sull’isola di Hydra per raggiungere il fronte. Spinto e attratto da una forza atavica si imbarca per andare laggiù dove c’è l’azione, dove si svolge la storia. Il suo primo commento è una cartolina dai cieli sopra il Mediterraneo: “Noi viaggiatori eravamo giunti in cerca della guerra, un intero aeroplano”. Le motivazioni di questo “incredibile tour”, al di là delle radici ebraiche, sono imperscrutabili: Leonard Cohen viveva un momento limitato e contraddittorio e le intenzioni del suo viaggio era tutt’altro che definite, viste che non si era portato nemmeno una chitarra. Scriverà Sylvie Simmons nella sua voluminosa biografia: “Nelle settimane successive Leonard (Cohen) viaggiò su camion, carri armati e jeep alla volta di avamposti, accampamenti, hangar, ospedali da campo, qualsiasi posto in cui ci fossero dei soldati, e si esibì per loro fino a otto volte al giorno”. Non si tratta di veri e propri show, ma di piccoli happening improvvisati. Si ritrova con un pubblico di ragazze e ragazzi in divisa sfiniti, prostrati e addolorati che ascoltano le sue canzoni seduti nella polvere, con i mezzi corazzati sullo sfondo, illuminandolo con le torce in dotazione. Situazioni imprevedibili, a tratti surreali che Matti Friedman riesce a ricostruire con tatto e misura: l’atmosfera di pericolo e fragilità che avvolge ogni singolo momento è palpabile. Poi, come qualsiasi cosa riguardi Leonard Cohen, è tutto indefinito, sfumato, sospeso tra la realtà e i lampi dell’immaginazione e del desiderio. Le parole fanno fatica a manifestarsi, i soldati lo guardano con rispetto e partecipazione, ma senza possibilità di condividere la speranza per un futuro che per molti di loro non arriverà proprio. È  un alieno e Matti Friedman amplia un po’ la visuale e attorno alla presenza di Leonard Cohen individua le vicende di giovani che stanno combattendo e hanno davanti un destino drammatico. Scrive che “la musica di Cohen era l’eco di un mondo più vasto, non apparteneva alla realtà in cui vivevano loro”. Amos, allora un pilota di cacciabombardiere Skyhawk, sembra rispondergli come l’eco di un tempo lontanissimo: “L’esperienza, per come la ricordo, fu quella di dimenticare tutto ed entrare in un altro mondo, un mondo in cui non c’eravamo tutti noi sempre di corsa, non c’erano i morti, non c’era la paura”. Quando Leonard Cohen si ritrova, solo, nel Sinai, scopre un luogo dove il suo spirito irrequieto sembra accomodarsi. Gli spazi senza orizzonti sono una prova, una delle tante, ma per il tormentato poeta “il deserto è stupendo e per un attimo o due pensi che la vita abbia un senso”. Se secondo Suzanne Vega Il canto del fuoco è “una descrizione affascinante e intensa”, è anche perché Matti Friedman si prodiga per colmare gli spazi lasciati in sospeso e i lunghi intervalli di silenzio che distinguono ogni mossa di Leonard Cohen. Trovano così posto le testimonianze sul campo, le voci dei caduti e dei sopravvissuti, gli echi terribili delle notizie dalle battaglie e quelle piene di dolore, a casa. Leonard Cohen attraversa tutto come un pellegrino penitente, senza chiedere nulla, cantando le canzoni come se fossero preghiere, accontentandosi di dormire sulla sabbia e di mangiare le razioni dell’esercito. Scrive Lover Lover Lover, canta Bird On The Wire che assume un senso particolare pensando ai ragazzi che volano nei cieli notturni appesi a un filo, ma nella sostanza è solo un viandante che condivide la frugalità dei pasti, la vastità del deserto e la tragica realtà della guerra confidando, ancora una volta, nell’utilità delle parole e nella grazia della musica.

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