A Edward Abbey, Tom Russell ha dedicato una bellissima ballata in Indians Cowboys Horses Dogs, che potrebbe essere benissimo anche il sottotitolo di Fuoco sulle montagne. Gli argomenti sono gli stessi perché l’Edward Abbey di cui stiamo parlando è il narratore dei Sabotatori, uno scrittore che riconosce al territorio, alla wilderness americana, al deserto, alle pietre e al vento un ruolo superiore nella vita delle persone e degli animali. Come è giusto che sia, perché soltanto in tempi abulici e banalotti come i nostri si confondono le rive di un fiume con le lottizzazioni, si radono le montagne e poi si parla di fatalità davanti alle frane, ci si spaventa per un po’ di sabbia portata dal vento e non ci si accorge del veleno quotidiano che respiriamo. Fuoco sulle montagne va ancora più indietro nel tempo, nel New Mexico del 1960: nel pieno della guerra fredda, non per niente da lì a due anni scoppierà la crisi dei missili di Cuba, il governo degli Stati Uniti d’America requisisce terreni per ampliare le sue basi missilistiche. John Vogelin, proprietario di un ranch in una terra aspra, durissima e affascinante invece di partecipare al virtuale confronto nel mondo diviso in due, intraprende una sua personale battaglia. A difesa del ranch, ma anche del territorio, della sua bellezza e dei suoi modi, antichi e rudi, di vivere. Per dire, da quelle parti non esistono ipotesi di diete: “Un cowboy lo riconosci sempre da come mangia. Se non mangia come un lupo deve avere qualcosa che non va”. Lo aiuta soltanto il nipote Billy, da tempo trasferitosi in città, ma legatissimo al nonno e al suo ranch. Il confronto genera un romanzo che si legge d’un fiato, seguendo il percorso di almeno un paio di temi che si sovrappongono. C’è il nucleo centrale, quello particolarmente caro ad Edward Abbey, di un’ecologia attiva nella tutela del territorio e dei sentimenti, anche a costo di scontrarsi con le ipocrisie delle ideologie patriottiche (come già era successo in I sabotatori) e con l’inevitabilità delle incombenze storiche e c’è la crescita e la ribellione di Billy che vede negli ideali del nonno una sorta di ultima spiaggia per fuggire alla banalità e allo sfiancante tran tran della vita metropolitana. Con scenari degni di Cormac McCarthy e una dolcezza che, direbbe Jim Harrison, è soltanto una sincerità dell’anima, Fuoco sulla montagna è un bel romanzo sul crepuscolo del West e delle sue libertà, che il lettore apprezzerà tanto per le suggestioni, quanto per la scorrevolezza. Si legge in una sera (o poco più), e fa pensare per una settimana perché quello di cui parla Edward Abbey (come ha ben capito Tom Russell) non è soltanto il New Mexico e un vecchio cowboy che non vuole mollare la sua terra. Parte da un lungo momento di puro terrore che ormai si è impolverato negli archivi della storia per raccontare quello che ci appartiene, quello che è nostro, e che tale rimanere. Non è il ranch di John Vogelin, non è il deserto (salvo che non lo si voglia ridurre tutto così). E’ il mondo in cui viviamo.
mercoledì 29 febbraio 2012
Edward Abbey
martedì 28 febbraio 2012
Mark Strand
domenica 19 febbraio 2012
Eric Foner
“Se andate in rete e provate ad inserire in un motore di ricerca la parola freedom” ha detto in un'intervista Eric Foner “Troverete siti delle milizie, di estremisti antigovernativi, gente che non vuole pagare le tasse, che crede unicamente in un mercato senza regole. La parola libertà oggi è spesso usata solo come una negazione: nessuno governo, nessun limite, nessuna inibizione. E quello che io ho provato a suggerire è che ci sono state altre idee di libertà nella storia degli Stati Uniti d'America. La libertà come sicurezzza economica durante il New Deal, la libertà come giustizia nelle battaglie abolizioniste, la libertà dei movimenti per i diritti civili: e non si tratta di idee che abbiamo importato da qualche altra parte. Sono nate qui, in America”. Non potrebbe esserci introduzione migliore: professore alla Columbia University e tra i maggiori storici americani, Eric Foner ha incastrato nella Storia della libertà americana tutte le caselle di quel mosaico che ha portato a riassumere nella parola libertà l'essenza di tutte le contraddizioni su cui sono fondati e prosperati gli Stati Uniti d'America. Se all'inizio il valore della libertà corrispondeva per intero a quello dell'indipendenza, ben presto le interpretazioni cominciarono a trasformarne il senso, e in parecchi casi a deformarlo. L'auspicata rivoluzione intellettuale che avrebbe dovuto seguire la formazione degli Stati Uniti (scriveva Thomas Paine: “Vediamo con occhi nuovi; ascoltiamo con orecchie nuove; e pensiamo con pensieri nuovi, rispetto a quelli che abbiamo usato prima”) venne ben presto superata dalle enorme possibilità economiche che si spalancarono con l'emancipazione delle colonie. Fin dalle fondamenta infatti gli Stati Uniti si prefigurarono come “un mondo in cui la libertà personale coincideva sempre più con l'opportunità di mettersi in competizione per un guadagno economico e per la propria realizzazione". Il nuovo accesso alla proprietà privata, il repentino sviluppo del mercato del lavoro e la retorica nazionalista non avrebbero però risolto le questioni degli afroamericani, dei nativi, della condizione femminile e come giustamente annotava un cronista dell'epoca "mentre nel nostro paese si invoca con tanta passione la libertà la si nega poi ai propri vicini”. Su queste incongruenze si è generata, nel corso degli anni, la Storia della libertà americana ed Eric Foner non trascura alcun dettaglio nel cercare di proporre il più ampio ventaglio possibili di “interpretazioni della libertà”, senza tralasciare la definizione che diede Ralph Waldo Emerson degli americani: “fanatici della libertà”. L'avversione ad ogni forma e logica statale che ha generato l'icona degli outsider perennemente fuori e/o contro la nazione è più radicata di quanti si pensi: anche le milizie, evidentemente, non sono state importate. La libertà, in America, è una contraddizione scritta per costituzione e sono tantissimi gli argomenti che Eric Foner affronta raccontando la Storia della libertà americana, lungo due secoli e mezzo, dalla libertà dagli inglesi alla libertà di consumo.
giovedì 16 febbraio 2012
Bruce Sterling
Charles Bukowski
Il protagonista di Pulp, Nick Belane, è un detective alle prese con un caso particolare. Non si capisce cosa stia cercando, anche se lo fa con una certa determinazione, quando prende la porta ed esce nelle strade di Los Angeles: “Fuori, avanzai con decisione tra la nebbia. Avevo gli occhi tristi e le scarpe vecchie e nessuno mi voleva bene. Ma avevo da fare”. Non c’è dubbio che lo sappia dove sta andando: la sua missione è complicata e oscura e gli occupa tutte le giornate, ma non deve scoprire né colpevoli né innocenti e il più delle volte si lascia trasportare dalle onde di una malinconica impotenza che gli fa dire: “Niente da fare. Tutti restavano fregati. Non c’era nessun vincitore. Solo vincitori apparenti. Stavamo tutti dando la caccia a un grandissimo nulla”. A dire il vero le sue ricerche sono abbastanza sgangherate e intervallate da distrazioni ingombranti. Un po’ si tratta di voli pindarici a cui Nick Belane non riesce a rinunciare e che lo portano sempre a riflettere su improbabili svolte esistenziali: “Cominciai a pensare di passare a un altro genere di lavoro. Ero lì in attesa di commettere un’effrazione e registrare una scopata, e non ci provavo nessun gusto. Era solo lavoro, l’affitto, la sbobba, aspettare l’ultimo giorno o l’ultima notte. Sempre ad aspettare. Che stronzata. Avrei dovuto diventare un grande filosofo, avrei detto a tutti quanto eravamo sciocchi, a stare in giro a fare andare l’aria dentro e fuori dai polmoni”. Il più delle volte si fa cogliere fuori posto, attratto da dettagli tanto appariscenti quanto irrilevanti per i suoi scopi. Solo che non sa resistere, e lo confessa senza pudore: “In qualche modo mi persi, cominciai a guardarle su per le gambe. Mi sono sempre piaciute, le gambe. E’ stata la prima cosa che ho visto quando sono nato. Ma allora stavo cercando di uscire. Da quel momento in poi ho sempre tentato di andare nell’altra direzione, ma con fortuna piuttosto scarsa”. Per adeguarsi a quella terra di nessuno, dove le ambizioni sono limitate e le possibilità ancora più rarefatte, Nick Belane ha un suo personalissimo metodo, tutt’altro che infallibile: “Avevo la tendenza a preoccuparmi quando non ce n’era nessun motivo. E quando c’era qualcosa di cui preoccuparsi mi ubriacavo”. Il vero problema è il bersaglio di cui si deve occupare: più ci pensa e più è vago, più lo cerca e più lo perde e, come se non bastasse, “c’è sempre qualcuno in procinto di rovinarti la giornata, se non l’esistenza”. Il suo nome è una sciarada nel cruciverba dei boulevard di Los Angeles e tra un drink e l’altro diventa chiaro che Nick Belane non raggiungerà mai l’incredibile scopo di trovare (o ritrovare, volendo essere generosi) se stesso perché “l’inferno era come lo facevi tu” e nel suo, se proprio non ci sta a meraviglia, almeno sa come tirare tardi. Un caso a parte nella storia di Charles Bukowski, Pulp è un romanzo affascinante e non privo di una sua surreale ironia nell’immergere Raymond Chandler in un bagno di whiskey, se basta a rendere l’idea.
martedì 7 febbraio 2012
Gary Snyder
venerdì 3 febbraio 2012
Ernest J. Gaines
In un’angusta cella di un carcere della Louisiana, un ragazzo condannato a morte per una rapina sfociata in omicidio attende l’ora del’esecuzione. Il suo destino è stato segnato dalla vita nel ghetto, dal colore della sua pelle, persino dall’incapacità di affrontare un giudizio senza cadere in grossolane e brutali storpiature. Il suo avvocato, in un ultimo, disperato tentativo di difenderlo e provando a giustificare una limitata capacità di intendere e volere, arriva a chiamarlo “maiale”, epiteto che pesa quanto la sentenza alla pena capitale. Siamo intorno alla prima metà del ventesimo secolo, i neri rispondono ai bianchi “sì, signore” o “no, signore” e Grant Wiggins, giovane insegnante, viene incaricato di istruire il condannato a morte perché almeno non muoia come un “maiale”, ma con la dignità di un uomo. All’inizio la sua resistenza a una missione difficile, se non impossibile è naturale e spontanea: “Che potrei dirgli? Io so che cos’è un uomo? So in che modo un uomo dovrebbe morire? Dovrei dire a qualcuno come morire quando io stesso non ho mai vissuto?”, si chiede mentre tutte le donne della contea (a partire da Vivian, la fidanzata con cui vive un rapporto intenso e tormentato) sono convinte che sia proprio lui l’unico che può impartire Una lezione prima di morire. Un romanzo che si snoda come un lungo blues, alternando le visite al carcere agli squarci di vita quotidiana, come se fossero strofe e ritornelli delle canzoni di Tampa Red o Hank Williams che arrivano dalle stazioni radiofoniche di Baton Rouge. Una storia dura, per niente accomodante, fin troppo concreta nel suo plastico realismo eppure non priva di una nota di speranza, forse implicita nell’idea della letteratura di Ernest J. Gaines: “Credo che ogni libro sia parte di un grande libro. E’ come una specie di capitolo. Mentre scrivi, scopri nuove cose, e ciascun libro che affronti non serve altro che aggiungere nuove domande. E tu provi a rispondere a queste domande col libro successivo. Ma una volta che hai affrontato anche quel libro, la stessa cosa ti capita di nuovo. Rispondi ad alcune domande, ma ne nascono altre. Penso che tutta la scrittura, in fondo, non sia che questo: cercare continuamente una cosa, ma non torvare mai la risposta. Perché saltano fuori due domande per ogni risposta che trovi. E’ un processo intinterrotto, e probabilmente non troverai mai le risposte tutte insieme. Dopo un po’ ci sarà qualcun altro che prenderà la tua fiammella e continuerà la staffetta per te. O, almeno, questo è quello che si spera”. Di questioni importanti e dal peso specifico rilevante, Una lezione prima di morire ne sviluppa parecchie, anche se poi il pensiero va sempre lassù, come ricorda Grant Wiggins nel suo commiato: “Un’altra cosa, prima di salutarci. Voglio che tutti voi pensiate a una persona durante questo periodo natalizio. Sono sicuro che non devo ricordarvi di chi sto parlando. Se non ci sono altre domande, potete prendere le vostre cose e andarvene. E non voglio sentire baccano per il quartiere. La lezione è finita”. Toccante.