Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che Clete Purcel e Dave Robicheaux soffrono di disturbo da stress post-traumatico, maturato tanto in Vietnam quanto nelle strade di New Orleans. La città non aiuta e lo spiegava benissimo Tom Robbins quando dice che appena ci arrivi “qualcosa di bagnato e di scuro ti balza addosso e comincia a dimenarsi come un randagio in calore uscito dalle paludi”. L’unica possibilità di disfarsi di questo odore è adeguarsi, e mangiarlo e così si spiegano i numerosi pasti quotidiani di Clete e Dave, che sono poi i momenti principali in cui si ritrovano a confrontarsi con i rispettivi fantasmi. In questa osmosi di ruoli con Streak, Clete pare più riflessivo, anche se si dedica alla distruzione con il consueto tatto, compreso l’utilizzo, non proprio a norma, di una betoneria. È solo un episodio, il più delle volte va dispensando un’inedita saggezza: “Vi spiego. Disorienta il tuo nemico. Fai l’inaspettato. Se non funziona, non fare nulla. Lascia che il silenzio sia la tua arma. Il punto è confondere il nemico e fargli rivolgere le energie contro se stesso. Non è difficile. Il colpo migliore nella boxe è quello che eviti”. I tentennamenti di uno e i black-out dell’altro li conducono a incrociare uno sciame di forze maligne che coltivano ancora l’oppressione, lo sfruttamento, la violenza come strumento di un potere assoluto e feroce, nascosto dietro paraventi di affettata cortesia e antico galateo. I Bobbsey Twins si trovano a combattere tra Hollywood e il Ku Klux Klan (o qualcosa di peggio) e la vera lotta, mostri, allucinazioni e veleni a parte, è contro l’ipocrisia dato che “la Louisiana meridionale è il paradiso, a patto che si chiuda un occhio e non ci si soffermi sulla corruzione, che qui è uno stile di vita”. Il nemico è sfuggente e pericoloso. Non manca la femme fatale di turno, ma sono altre le figure femminili che si impongono per il coraggio, la forza, la determinazione, a partire da Giovanna D’Arco, le cui apparizioni punteggiano tutta la trama di Clete. L’elemento soprannaturale e/o fantastico, non insolito nei romanzi di James Lee Burke, distingue in modo particolare la visione di Clete Purcel che è nella stessa prospettiva di Streak, solo che cambia l’approccio. Però, dai e dai, i due prima si completano e poi si sovrappongono e così Clete è il riflesso naturale di New Iberia Blues o Una cattedrale privata, una celebrazione infinita della saga e la doverosa affermazione di Clete Purcel, un personaggio che deve essere sfuggito di mano a James Lee Burke e che si concede più di una confidenza (e figurarsi se non può permettersela). Clete Purcel si rivolge a tutti, anche ai lettori trascinandoli in un gorgo ipnotico e avvincente. Business al usual, d’accordo, ma come i piatti saporiti e succulenti della cucina sudista, c’è molto da gustare: la vista dello scenario resta uguale per entrambi e New Orleans e gli altri distretti della Louisiana sono parte di un ecosistema fragile e unico, sospeso tra la terra e l’oceano che hanno un loro punto di incontro nel bayou. Albe e tramonti nelle sfumature variopinte della luce contribuiscono in modo determinante alle suggestioni del romanzo e ipnotizzano Clete e Dave non meno di James Lee Burke. Poi, “è solo rock’n’roll. Tutti arrivano alla stessa destinazione. L’importante è come ci si arriva”. Si era capito nella dedica a Nils Lofgren, dalla citazione illuminante di Light My Fire dei Doors, a quella, non meno importante, di Promised Land di Chuck Berry, ma l’apoteosi è riservata a Bob Seger che, en passant, viene definito il più “grande filosofo americano”. Mai avuto dubbi, ma è bello vederlo scritto nero su bianco.
Nessun commento:
Posta un commento