L’Anatomia
dell’influenza è il compendio generale dell’attività
critica di Harold Bloom (un cognome che già evoca un enigma
letterario), un concentrato in cui non è difficile trovare le
connessioni primarie e le intersezioni con Il canone americano
e Il canone occidentale, ma anche con tutte le altre
speculazioni. Spesso autoreferente o eccessivo nell’interpretazione
della letteratura, altre volte Harold Bloom sa essere chiaro e
preciso, grazie alla lunga esperienza parallela di insegnante e
Anatomia dell’influenza è una sorgente inesauribile di
suggestioni e suggerimenti a partire dall’epigrafe cucita su misura
di Lev Tolstoj: “Per la critica d’arte sono necessari
uomini che dimostrino come è assurdo cercare le idee in un’opera
d’arte, uomini che guidino continuamente i lettori nell’infinito
labirinto di concatenazioni nel quale consiste l’essenza dell’arte,
e verso quelle leggi che servono di base a queste concatenazioni”.
In realtà l’influenza si propaga come se fosse un flusso di onde
gravitazionali in una galassia che vede al centro Shakespeare, l’alfa
e l’omega di tutti i pensieri di Harold Bloom: “Leggere
Shakespeare equivale a subire una dilatazione più marcata della
coscienza verso quella che all’inizio sembra una stranezza fatta di
dolore o stupore. Mentre ci apprestiamo a incontrare una coscienza
più grande, ci prepariamo a una sottomissione provvisoria che mette
da parte il giudizio morale, mentre lo stupore si tramuta in una
comprensione più immaginativa”. A maggior ragione, Shakespeare (e
l’autore, in generale, per estensione) è “il creatore di una
nuova realtà in cui, in maniera non del tutto consapevole, ci
ritroviamo più autentici e più strani”. Un’opinione confermata
più in là da Samuel Johnson (“Colui che legge Shakespeare si
guarda intorno allarmato e scopre di essere solo”), uno dei punti
di riferimento inamovibili perché Anatomia dell’influenza
non è soltanto un libro di Harold Bloom: coagula attorno a sé
critici e scrittori vicini e lontani, con cui è in accordo e in
disaccordo. Più di tutti proprio Samuel Johnson, poi, tra gli altri,
Walter Pater, Thomas Hobbes, Thomas Carlyle, Jonathan Swift, Favola
nella botte, William Morris, Sigurd Il Volsungo, Percy Bysshe
Shelley, James Merrill e W. B. Yeats. Quando eccede nelle definizioni
o nelle analisi, Harold Bloom sa essere complicato, se non proprio
astruso, altrimenti emana passione, competenza, conoscenza e sa
convincerci che “l’amore letterario è una strategia sociale, più
affermazione che affetto, ma i critici e i lettori competenti sanno
che non siamo in grado di comprendere la letteratura, la grande
letteratura, se neghiamo un autentico amore letterario agli scrittori
o ai lettori. La letteratura sublime richiede un investimento
emotivo, non economico”. Le letture suggerite ed esplorate da
Harold Bloom, oltre all’Amleto di Shakespeare,
(fondamentale, perché “la vita umana è più semplice del
pensiero, ma l’esistenza è anche pensiero quando adottiamo la
visione di Shakespeare”) sono Freud, Whitman, (“maestro della
metafora” ed espressione “poetica del sublime americano”),
Stevens, Crane, Borges, Leopardi, Joyce, Kafka, Aldous Huxley. I
rimandi e i consigli sono sterminati: dalla sintesi delle tematiche
della letteratura americana che si concentrano verso “il mare, la
madre, la notte, la morte” alla sua estensione verso tutta la
narrativa anglosassone (“Se si interiorizzano i maggiori poeti
britannici e americani, dopo qualche anno le loro complesse relazioni
reciproche iniziano a formare schemi enigmatici”) fino ad
“affrontare solo gli scrittori in grado di infondervi la sensazione
che ci sia qualcos’altro sul punto di accadere”, Harold Bloom è
prodigo di istruzioni per l’uso, che poi si condensano nella catena
di infiniti “leggere, rileggere, descrivere, valutare, apprezzare”.
A quel punto, e con la pratica letteraria ormai sovrapposta alla vita
quotidiana, diventerà comprensibile la frequente citazione di Pseudo
Longino: “Pieni di gioia e orgoglio crediamo di aver creato ciò
che abbiamo sentito”. Funziona proprio così.
sabato 30 settembre 2017
lunedì 25 settembre 2017
Lawrence Ferlinghetti
L’eco
di Coney Island Of The Mind
è sempre forte e qui si trasforma quasi in una chiamata del destino.
A distanza di trent’anni, Un luna
park del cuore torna a ricordarci
che “il presente è un accidente che si protrae e si protrae nel
futuro” e le poesie sono istantanee che rubano il tempo. E’ il
1997 e le allegorie di Lawrence Ferlinghetti lo conducono verso le
proprie radici “e avendo perso il senso del posto da cui
provenivo, con l’amnesia dell’immigrante percorsi in lungo e in
largo la faccia estroversa dell’America, ma non importa dove abbia
vagato, fuori da ogni mappa, ancora mi piacerebbe ritrovare quel
posto perso, dove potrei salire un’altra volta su un metrò
domenicale per chissà quale Far Rockaway del cuore”. Il ritorno è
reale, oltre che poetico, come annoterà negli Appunti di diario,
New York, 2 marzo 1997, poi raccolti in Scrivendo sulla
strada: “Sul mio certificato di nascita c’è scritto 106,
Saratoga Avenue Yonkers... Prendo il treno fino
alla 168ª strada, poi l’uno e continuo sulla sopraelevata fino a
Van Cortlandt Park, poi un autobus fino a South Yonkers. E’ solo un
miglio, o poco più, lungo il lato ovest del parco fino a Caryl
Avenue. Scendo lì, seguendo il vago consiglio dell’autista nero
che indica gesticolando la direzione in cui pensa possa essere
Saratoga Avenue... E allora un miglio a piedi in salita, oltre
isolati di condomini con i propri giorni migliori alle spalle. Ed
ecco la fine di Saratoga Avenue, con un negozietto a conduzione
familiare. Ne esce un vecchio bianco con una bottiglia in un
sacchetto di carta. Mi attraverso con lo sguardo come se fossi parte
della strada e fossi lì da sempre. (Forse è così)”. Nel clima
crepuscolare di fin de siècle, Lawrence Ferlinghetti affronta “la
febbre dell’efferata vita di città” ed è come se
“nell’alluvione degli anni” lo stupore fosse rimasto
intatto con “il sogno immenso” sopravvissuto all’esilio.
Il luna park del cuore
si accende ancora una volta, i versi sgorgano (“Tutte le
persone della tua vita in una casa di notte luci tutte accese come un
transatlantico in alto mare”) “e ogni poesia e ogni quadro una
sorpresa stimolante per occhio e cuore, qualcosa che ti sveglia di
colpo dal sonno immemore del vivere in un lampo di epifania pura in
cui tutto è immobile in luce adamantina, fissato, rivelato, per ciò
che davvero è in tutto il suo mistero”. Non ci sono solo luminarie
e fuochi d’artificio: è anche un momento di riflessione perché
Lawrence Ferlinghetti ha ormai un’età in cui “era troppo tardi
per farci nulla tranne crederci o dubitarne” e sa che “il poeta
scandagliando l’ignoto come un peschereccio d’alto mare va a
pesca di immagini primigenie con reti di parole per catturare
l’ultima lingua franca in libertà il pesce cieco del
destino dell’uomo”. Lo fa anche con la certezza, per niente
scoraggiante, che “intanto l’acqua fluisce e canta fra le chiuse
della vita quotidiana”: è una maturità che non toglie nulla allo
spirito (indomito) di Lawrence Ferlinghetti e Il luna park del
cuore è anche l’occasione per ricordare che “il mondo non
sta per finire per mancanza di luce” e “comunque la storia non è
in realtà storia fino a quando non è riscritta”. Lo sguardo a est
vede solo l’oceano, a ovest la strada, e in mezzo resta “un
attimo di silenzio, e un attimo di epifania, un attimo di estasi, un
attimo di follia, e un attimo di silenzio”, un luna park che non si
ferma mai.
martedì 19 settembre 2017
Stephen King
Il
miglio verde è esemplare nel dispiegare i puntuali meccanismi di
Stephen King, che sono pratici, immediati e riconoscibili nel
contesto del rapporto con il lettore. Più di tutto è quella
conoscenza reciproca, continua, solida e rinnovata nel tempo, a
garantire comunque il funzionamento del romanzo, anche dove Stephen
King tende a divagare e ad allungare il brodo. Non è roba con cui si
possa pensare di vincere il premio Nobel, ma ha un indiscutibile
magnetismo in quell’assiduo cercare “il fragile senso di
meraviglia” che si nasconde in ogni storia. Il miglio verde
comincia con un lungo lavoro di preparazione e la costellazione di
personaggi secondari e dell’ambiente dove maturato l’efferato
delitto da cui si dipana tutta la trama, un’area in cui
“costruiscono da sé i propri mandolini e spesso sputano i denti
marci nei solchi dei campi che stanno arando; ventre della campagna
dove gli uomini erano proclivi a maneggiare serpenti il sabato
mattina e a giacere in abbracci carnali con le proprie figlie la
domenica sera”. Con l’America della Depressione sullo sfondo, il
braccio E, in cui Il miglio verde rappresenta l’ultima
frontiera prima della sedia elettrica, ospita John Coffey, un
prigioniero gigantesco condannato alla pena capitale che, si
scoprirà, ha un dono magico, e doloroso. Il suo arrivo e quello di
un piccolo topo, chiamato Jingles e/o Steamboat Willie, scardinano i
già precari equilibri tra le guardie e gli altri prigionieri.
Stephen King è nel suo elemento quando si tratta di rendere
l’atmosfera e, con Il miglio verde riesce nel difficile
compito di far comprendere le sottili, cupe e imprevedibili dinamiche
di un braccio della morte. “Avviare la conversazione” è il
fulcro della giornata per tutti gli inquilini che camminano lungo Il
miglio verde, e sui singoli caratteri, sui bisogni, su ogni
piccolo incidente pesa una data di scadenza scritta su un atto
giudiziario. Molti dettagli vanno valutati con parametri straordinari
e con una sensibilità più acuta del solito perché “quando parte
del lavoro è scambiare la vita con la morte”, è difficile trovare
una forma di redenzione. La tensione è mantenuta costante da Stephen
King e le parti ripetute più volte nel romanzo sono dovute sia al
fatto che Il miglio verde in origine era uscito a puntate, sia
all’intenzione di ricordare più volte l’essenza della storia.
La spada di Damocle sospesa sopra la testa di tutti (e non solo dei
condannati) è la pena di morte e la sua esecuzione attraverso uno
strumento brutale come la sedia elettrica e, peggio ancora, l’idea
che un’ipotesi di giustizia possa essere determinata e definita con
queste modalità. Un tema specifico, ed esplosivo, dato che nel
braccio E, e non solo, “il tempo si prende tutto, che tu lo voglia
o no. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine
c’è solo oscurità”. A Stephen King non basta, come è nella sua
natura, e al fiume principale aggiunge una miriade di rami secondari,
che a tratti riescono a reggere l’urto della storia e scorrono
paralleli, e a volte si disperdono, senza sortire particolari
effetti. Le parti non necessarie sono comprese nel prezzo, comunque,
e Il miglio verde resta un esempio dello storytelling di
Stephen King da centellinare con cura.
venerdì 15 settembre 2017
Paul Bowles
Sia
Anita che Tom sono nella valle del Niger in cerca di una via
d’uscita. Tom, un pittore, vuole trarre ispirazione dalla vita e
dai paesaggi subsahariani. Anita si è lasciata alle spalle New York
e un divorzio e l’ha raggiunto per ritrovare uno scampolo di
equilibrio. Fratello e sorella sono molto simili negli atteggiamenti,
entrambi misurati e guardinghi, ma distanti nella condizione
psicologica. Tom si destreggia con il suo momento artistico e si è
ambientato quel tanto che basta da evitare attacchi di nostalgia. E’
Anita che è Troppo lontano da casa:
soffre la sua personale situazione non meno delle condizioni
ambientali, igieniche, atmosferiche e (più di tutto) culturali. Tom
e Anita sono completati nell’economia della storia dal personale al
loro servizio, Sekou e la cuoca Johara, quasi un loro riflesso,
indigeno e speculare. Un giorno, per scuotere Anita dalla malinconia,
Tom le chiede di farsi accompagnare da Sekou a comprare delle
pellicole, dall’altra parte del villaggio in cui vivono, non
lontano da Timbuctu. Anita e Sekou hanno un incidente: vengono
investiti da una moto con due turisti americani, sprezzanti e
spericolati. In apparenza, salvo una ferita per Sekou, non ci sono
particolari conseguenze, ma da lì la trama di Troppo
lontano da casa comincia ad
avvitarsi e a caricarsi di tensione. Anita è costretta a
confrontarsi con i propri incubi, e nonostante le rassicurazioni del
fratello (“Semplicemente non c’è alcun collegamento fra il
contenuto del sogno e il perché tu credi di farlo”), non riesce a
pensare che ad andarsene, finché il complesso quadrilatero emotivo,
che vede Tom, Sekou e Johara agli altri angoli, non viene scardinato
dalla presenza di madame Massot. In effetti, nel gioco a incastri
studiato da Paul Bowles, madame Massot, (di origine francese, come si
può intuire), proprietaria del negozio di fotografia, è la via di
mezzo tra le consuetudini locali e i modelli di vita occidentale.
Forse più un racconto lungo che un romanzo breve, Troppo
lontano da casa, è un piccolo
marchingegno narrativo che funziona alla perfezione nell’angusto
spazio che si è definito. Paul Bowles l’ha studiato come un
cronometro di precisione, in cui ogni minuscola leva, ogni
microscopico ingranaggio scatta e si muove al momento giusto. Il
metodo l’ha spiegato in Senza mai
fermarsi, la sua colorita
autobiografia: “Diciamo che partivo con quattro frammenti di genere
disparato, aneddoti, citazioni o semplici frasi prive di alcun
contesto, racimolati da fonti distinte e che riguardavano gruppi di
personaggi completamente diversi. Il mio compito consisteva
nell’inventare un tessuto narrativo che fondesse tutti e quattro
gli elementi originali attribuendo a ognuno lo stesso ruolo di
sostegno rispetto alla struttura risultante dalla loro somma”.
Nelle pagine iniziali, usando persino una forma epistolare, poi
delineando i personaggi con semplici accorgimenti, e molto mestiere,
e definendo il paesaggio con rapidi e significativi tratti, riesce a
far emergere i contrasti, a volte molto aspri, mettendoli in rilievo
con un’arguzia speciale, frutto dello spirito di osservazione e
della spontanea curiosità di Paul Bowles, più che dell’invenzione
narrativa. Un bell’esercizio di stile, efficace ed elegante.
lunedì 11 settembre 2017
Wallace Stevens
L’azzurro
è la sfumatura dominante nel Mattino domenicale di Wallace
Stevens. E’ ovunque, e non soltanto in L’uomo con la chitarra
azzurra, dove è richiamato in modo esplicito quello che Picasso
chiamava “il colore di tutti i colori”. La presenza del pittore
spagnolo in Mattino domenicale è poco più che simbolica
eppure rivela e rende luminosa la proclamata singolarità di Wallace
Stevens. Come scriveva René Char, “la grande rivoluzione delle
arti che ha compiuto praticamente da solo, è che il mondo è la sua
nuova rappresentazione”. Un indizio insolito e sorprendente che
annoda con un sottile e contorto filo (blue) l’immaginazione della
poesia e la realtà. In Anatomia dell’influenza,
Harold Bloom sosteneva: “Wallace Stevens sa di essere
diverso perché è consapevole che l’io e la poesia sono finzioni”.
L’apoteosi di questa definizione è proprio L’uomo con la
chitarra azzurra, in cui Wallace Stevens esordiva con questi
versi: “E’ la vita, e le cose come sono, questo ronzio della
chitarra azzurra”. Nessun dubbio: l’insieme delle apparenti
contraddizioni è una reazione a catena che permette lo sfoggio di
una lingua ricercata, modellata, concentrata sull’ipotetica
vibrazione delle parole, a sua volta una finzione nella finzione
perché “la poesia è il tema del poema, da ciò il poema ha
origine ed a ciò fa ritorno. Fra questi due estremi, fra origine e
ritorno, c’è un’assenza in realtà, le cose come sono. O così
pare”. La poesia di Wallace Stevens è un’idea di ritmo, sapendo
che la “musica è dunque palpito, non suono”, che trova poi la
sua espressione paradossale negli alberi intelligenti, nelle
“frontiere del reale”, con “l’aria buona” e infine in
“un’orgiastica ronda di creature”. A margine di Mattino
domenicale, Wallace Stevens spiegava che “la vita è una
questione di gente e non di luoghi. Ma per me la vita è una
questione di luoghi, e questo è il problema”. Il genius loci va
cercato individuato, di nuovo accanto a L’uomo con la chitarra
azzurra: “E’ la terra, per noi nudo deserto. Non esistono
ombre. La poesia, la musica trascende e tiene luogo del cielo vuoto e
dei suoi inni. Il loro posto prendiamo noi nella poesia, e nelle
ciarle della tua chitarra”. Poco più in là, noncurante di
possibili ridondanze, Wallace Steves raddoppia la dose: “Un’aria
ci trascende quali siamo, ma nulla cambia la chitarra azzurra: nel
suono stiamo come nello spazio, senza che nulla cambi, eccetto il
luogo di cose come sono, solo il luogo come le suoni sulla tua
chitarra, luogo oltre il cerchio delle mutazioni, in finale atmosfera
percepito; per un istante ultimo, nel modo che il pensiero dell’arte
sembra ultimo quand’è l’idea di dio folta rugiada, il suono è
spazio. La chitarra azzurra si fa luogo di cose come sono, e
simmetria dei sensi delle corde”. Il mantra del Mattino
domenicale, “le cose come sono, come sono, come saranno ancora
a lungo andare”, è un refrain che induce a riflettere a fondo
sulla sovrapposizione di realtà e poesia che Harold Bloom provava a
illustrare con una specie di equazione letteraria: “La fede
definitiva di Stevens è la finzione con la piacevole certezza che
ciò in cui si crede non è vero. Questo non inficia però la verità
di ciò di cui si è certi”. La fonte di questa autorevole e
criptica definizione è anche l’unica possibile risposta, e va
trovata nel poema di Wallace Stevens, dove dichiara, senza
possibilità di fraintendimenti: “Io e la chitarra azzurra siamo
una cosa unica” ed è da lì che si accordano i voli pindarici:
“Getta via le formule e le lampade, e di ciò che tu scorgi nelle
tenebre, di’ che è questo o che è quello, senza usare i vocaboli
corrotti. Come potrai avanzare in quello spazio, se dello spazio
ignori la follia, se ne ignori le allegre procreazioni? Getta via le
tue lampade. E che nulla stia tra te e le parvenze che tu assumi
quando alle cose si rompe la crosta”. Se nelle Credenze
d’estate (“La direzione qui si ferma e tutte le cose alla sua
volta: quel che esiste, quel che è estremo accettiamo come giusto,
nostro bene e alveare alto fra gli alberi, miscuglio di colori ad una
festa”) s’insinua l’influenza di Shakespeare, Wallace Stevens
prova e riprova a spiegare le sue intenzioni: “Voglio confrontare
la natura come si confrontano due leoni, il leone nel liuto che si
misura con il leone imprigionato nella pietra. Voglio, come uomo di
immaginazione, scrivere poesia che abbia tutto il potere di un mostro
uguale in forza al mostro che scrivo. Voglio che l’immaginazione
dell’uomo sia completamente adeguata di fronte alla realtà”. Tra
le Liriche sparse, quel suo protagonista, lo raffigura
“in un tal mondo, dove non c’è altro senso, il vero stesso è
calma, il vero stesso è estate e notte, è l’uomo che s’attarda
lassù chino leggendo”. Ancora nelle pieghe di L’uomo dalla
chitarra azzurra aveva avvisato che “è una forma descritta ma
difficile”, forse più facile, interpretazione dopo
interpretazione, da vedere come in un sogno.
mercoledì 6 settembre 2017
George Saunders
Comincia
con una danza di spettri, poi i primi capitoli introducono in una
twilight zone in cui il potere della narrativa è nello stesso tempo
esaltato e sbeffeggiato. In una sorta di limbo, sospeso tra l’aldilà
e un ultimo appiglio alla vita terrena, una bizzarra compagine di
personaggi assiste all’arrivo del figlio di Lincoln e al primo anno
della guerra civile americana. L’aneddoto storico (straziante) è
la scintilla che fa deflagrare un convivio surreale, ma non così
assurdo: è come il frammento di una Divina Commedia anarchica
e burlesque, dove rimangono tutti invischiati nella stessa terra di
nessuno. La dimensione è vacua perché, come dice e ripete Hans
Vollman, “esiste da sempre molta confusione in merito a questo
problema”. A sua volta, il reverendo Everly Thomas chiama la loro
condizione (non senza ragione) la “forma malata”. La conclusione
spetta a Roger Bevins III che, lapidario, spiega: “Prima eri lì in
quel vecchio posto e adesso stai qui in questo nuovo posto”. Sono
loro tre i più fervidi commentatori e le pagine appaiono come il
proscenio di un medicine show con la regia occulta di Shakespeare, in
cui gli attori vanno e vengono guidati dalla profana e loquace
trinità. Tra gli altri, bisogna ricordare almeno Lippert, Kane,
Fuller, gli “scapoli” che nei momenti salienti fanno piovere
cappelli come un quadro di Magritte. La condizione indefinita degli
ospiti, l’aspetto laico (convinto) con cui Lincoln nel Bardo
ritrae la delicata dimensione del passaggio, le “realtà
transitorie”, un ossimoro perché non sono realtà, e sono
piuttosto definitive, riportano tutto a evocare “quella gran cosa”
come la chiamava Henry James (che qui ci asteniamo dal nominare un
po’ per pudore, visto che non è citata apertamente fino a metà
romanzo, e un po’ per scaramanzia). In questo senso Lincoln nel
Bardo si può interpretare anche come un’Antologia di Spoon
River distorta e allucinata: George Saunders gestisce una
cacofonia di voci con ineguagliabile destrezza, senza perdere di
vista nemmeno per una singola frase per l’intera dimensione del
romanzo. Il tono di sfida ai limiti della scrittura è implicito ed
esplicito. L’incertezza si fa disorientamento, il disorientamento è
propedeutico ad alzare la soglia dell’attenzione e l’irriverenza
è inclusa nel prezzo perché nelle profondità di Lincoln nel
Bardo non viene risparmiato niente e nessuno e difficilmente si
trova una frase consolatoria: scuote con una pioggia di domande e di
affermazioni apodittiche, sempre con un robusto ghigno sulle labbra.
La sfida alle biografie e alle agiografie è coerente ed evidente. La
figura di Lincoln emerge tormentata e contraddittoria: un uomo
travolto dal dolore che convince un'intera nazione a sopportare anni
orribili di guerra, di massacri, di distruzione, di alterazione dei
diritti, la sospensione di fatto dell'habeas corpus, e nonostante
tutto non cede fino alla fine (la sua). “Ero amato o no?”, si
chiede Lincoln, ma è soltanto uno degli interrogativi di un lavoro
di scomposizione del romanzo e insieme degli avvenimenti storici che
sorprende per dove può portare. La risposta rimane nell'ambiguità,
visto che di sicuro non può offrirla quella che un altro astante,
Albert Sloane, definisce “l’indisciplinata comunità umana che,
infiammata dal suo ottuso spirito collettivo, spingeva la nazione
armata verso un’imprecisa specie di catastrofe epica e bellicosa:
un enorme organismo ingovernabile, dotato della rettitudine e la
lungimiranza di un cagnetto non addestrato”. Qui la prospettiva
visionaria di George Saunders svela il suo disegno e la sua trama,
sottolineata prima disseminando innumerevoli segnali, perché la
guerra civile con la sua sterminata produzione di anime in pena
scardina l’equilibrio tra terra e inferno (di paradiso, neanche a
parlarne), giorno e notte, felicità e destino. Il finale
caleidoscopico e voluttuoso è un’esplosione di immagini, e insieme
un’implosione che si porta via tutti i protagonisti, ormai
“contagiati dal dubbio”, ma che si accorgono che può esistere,
come dice Roger Bevins III, “un luogo in cui il tempo rallenta e
poi si ferma, dove potremo vivere per sempre in un singolo istante”.
Spiazzante, trascinante, superbo, Lincoln nel Bardo è un
romanzo tutto da decifrare, ma tra sarcasmo e tragedia, in un
crescendo apocalittico e psichedelico, matura un capolavoro unico che
richiede pazienza, applicazione e scrupolo, tutto quello che serve
quando la letteratura si fa esperienza.
domenica 3 settembre 2017
Tom Drury
Nella
Grouse County non succede nulla, è tutto scandito da “un
ingranaggio nella macchina delle stagioni”, perché l’agricoltura,
vita e lavoro nel Midwest, asseconda i tempi della natura e del
clima. La prima, elementare definizione del paesaggio spiega come La
fine dei vandalismi sia cadenzata da eventi fuori dalla
portata umana, e come nell’esistenza dei suoi abitanti non ci sia
“nessuna magia, ma solo duro lavoro tutti i giorni della
settimana”. Scrutando con attenzione tra le pagine, si capisce
l’importanza di un morso di un cane, dell’elezione di uno
sceriffo, di una festa alla fine dell’anno scolastico, di una
canzone alla radio. Piccoli particolari si rivelano prima importanti
e poi fondamentali ed è proprio qui che Tom Drury concede
moltissimo. Dispone i personaggi in verticale sulla vasta
orizzontalità del Midwest, li illumina uno alla volta e tutti
insieme, dando a ciascuno un nome e un nome proprio a ogni luogo. La
Grouse County, che raduna Grafton, Reinbeck, Stone City, Morrisville,
Wylie, Pringmar, Chesley, Lunenberg, Martin Woods, Pinville, Margo,
Romyla e Boris, è una rete di “small town” come effemeridi di un
pianeta che non c’è, dato che “tutti questi nomi non avrebbero
importanza, se non per illustrare la delicatezza della situazione”.
E’ l’apologia del Midwest e la coscienza di una comunità matura
da un mondo fatto di dettagli (in apparenza) insignificanti, eppure
che si fondono uno con l’altro, che si compattano come se fossero
parte della terra rivoltata e coltivata a fatica. Lo spirito con
cui La fine dei vandalismi racconta l’appartenenza
al territorio è quello illustrato a suo tempo e con grande
precisione da Richard Ford: “Il senso del luogo in cui si vive è
in genere poco cosciente e una delle funzioni della letteratura è
proprio quella di creare un rapporto con l’ambiente creando un paesaggio dettagliato e popolandolo di
linguaggio in modo da dare al lettore il senso di un rapporto che
prima non c’era e che viene alla luce soltanto quando lo
immaginiamo, quando lo incarniamo nel linguaggio che inventiamo”.
Su una differente longitudine, ma con identica attitudine, La
fine dei vandalismi assorbe il lettore perché Tom Drury lo
mette a suo agio dentro un tessuto di “rural route” per dirla con
John Cougar Mellencamp, il vero anfitrione del Midwest, citato (non a
caso) al centro di una fittissima colonna sonora. I personaggi sono
congruenti con il paesaggio, ma tendono a respingersi come magneti,
una volta accostati, perché si “conoscono tutti, ma nessuno sembra
conoscere loro”. Nell’intimo, e in questo Tom Drury è
superlativo, sono tutti uguali e ogni sforzo per rendersi differenti
non fa che avvicinarli e allontanarli nello stesso tempo. Il
paradosso è il senso ultimo della vita nella Grouse County, nel
Midwest e nella provincia (americana e non). Le differenze sono
caratteriali più che sostanziali: uno sguardo, un tono di voce
(soprattutto), un’abitudine (parecchie abitudini) formano la
costellazione di punti di riferimento su cui si staglia la voce di
Tom Drury, limpida, anche elementare (volendo), ma efficace, diretta,
colloquiale, come una storia avvincente (e qui siamo solo all'inizio
di una trilogia) raccontata da un estraneo al bancone del bar o nel
parcheggio di un motel. Più che leggerlo, bisogna sentirlo.
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