Il
miglio verde è esemplare nel dispiegare i puntuali meccanismi di
Stephen King, che sono pratici, immediati e riconoscibili nel
contesto del rapporto con il lettore. Più di tutto è quella
conoscenza reciproca, continua, solida e rinnovata nel tempo, a
garantire comunque il funzionamento del romanzo, anche dove Stephen
King tende a divagare e ad allungare il brodo. Non è roba con cui si
possa pensare di vincere il premio Nobel, ma ha un indiscutibile
magnetismo in quell’assiduo cercare “il fragile senso di
meraviglia” che si nasconde in ogni storia. Il miglio verde
comincia con un lungo lavoro di preparazione e la costellazione di
personaggi secondari e dell’ambiente dove maturato l’efferato
delitto da cui si dipana tutta la trama, un’area in cui
“costruiscono da sé i propri mandolini e spesso sputano i denti
marci nei solchi dei campi che stanno arando; ventre della campagna
dove gli uomini erano proclivi a maneggiare serpenti il sabato
mattina e a giacere in abbracci carnali con le proprie figlie la
domenica sera”. Con l’America della Depressione sullo sfondo, il
braccio E, in cui Il miglio verde rappresenta l’ultima
frontiera prima della sedia elettrica, ospita John Coffey, un
prigioniero gigantesco condannato alla pena capitale che, si
scoprirà, ha un dono magico, e doloroso. Il suo arrivo e quello di
un piccolo topo, chiamato Jingles e/o Steamboat Willie, scardinano i
già precari equilibri tra le guardie e gli altri prigionieri.
Stephen King è nel suo elemento quando si tratta di rendere
l’atmosfera e, con Il miglio verde riesce nel difficile
compito di far comprendere le sottili, cupe e imprevedibili dinamiche
di un braccio della morte. “Avviare la conversazione” è il
fulcro della giornata per tutti gli inquilini che camminano lungo Il
miglio verde, e sui singoli caratteri, sui bisogni, su ogni
piccolo incidente pesa una data di scadenza scritta su un atto
giudiziario. Molti dettagli vanno valutati con parametri straordinari
e con una sensibilità più acuta del solito perché “quando parte
del lavoro è scambiare la vita con la morte”, è difficile trovare
una forma di redenzione. La tensione è mantenuta costante da Stephen
King e le parti ripetute più volte nel romanzo sono dovute sia al
fatto che Il miglio verde in origine era uscito a puntate, sia
all’intenzione di ricordare più volte l’essenza della storia.
La spada di Damocle sospesa sopra la testa di tutti (e non solo dei
condannati) è la pena di morte e la sua esecuzione attraverso uno
strumento brutale come la sedia elettrica e, peggio ancora, l’idea
che un’ipotesi di giustizia possa essere determinata e definita con
queste modalità. Un tema specifico, ed esplosivo, dato che nel
braccio E, e non solo, “il tempo si prende tutto, che tu lo voglia
o no. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine
c’è solo oscurità”. A Stephen King non basta, come è nella sua
natura, e al fiume principale aggiunge una miriade di rami secondari,
che a tratti riescono a reggere l’urto della storia e scorrono
paralleli, e a volte si disperdono, senza sortire particolari
effetti. Le parti non necessarie sono comprese nel prezzo, comunque,
e Il miglio verde resta un esempio dello storytelling di
Stephen King da centellinare con cura.
Nessun commento:
Posta un commento