E’
come se L’anno del pensiero magico si fosse allungato a
dismisura, dando forma compiuta alle impercettibili variazioni delle
Blue Nights, quando, secondo Joan Didion, diventano evidenti
“la fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni,
l’inevitabilità della dissolvenza”. Se, nella sostanza, si
tratta di un memoriale dedicato alla figlia Quintana Roo, a tutti gli
effetti Joan Didion usa l’introspezione per ricollocare il dolore
(immane) e quei ricordi che “sono tutto ciò che non vuoi più
ricordare”. Il paradosso è alla fonte nella frattura delle Blue
Nights nel momento in cui, dice Joan Didion, “qualcosa che ha
alterato la prospettiva delle mie possibilità, ha ristretto, per
così dire, l’orizzonte”. La confessione è sempre esplicita e
l’unico palliativo è lo stile irreprensibile. La rivelazione di
particolari (autobiografici) intimi, anche molto vividi e laceranti,
ancora carichi di interrogativi (nello specifico, tutto quello che
riguarda l’adozione di Quintana Roo) non sorprende per
l’accuratezza e la minuziosa elaborazione di Joan Didion che misura
parola per parola, spesso ripetendosi, per essere certa di
trasmettere una ricostruzione efficiente. Stupisce l’immediatezza e
la lucidità con cui momenti delicati e appartenenti a una sfera
riservatissima delle emozioni nelle Blue Nights si associano
con naturalezza a fatti di cronaca e/o storici (la guerra in Vietnam
o l’invasione di Panama, tra gli altri) che filtrano per osmosi e
si vanno a incastrare nel tessuto narrativo nel tentativo,
lungimirante e ammirevole, di definire il mestiere indefinibile di
madre, di padre, di genitore. Un ruolo molto privato, una funzione
molto pubblica. La differenza generazionale, tra madre e figlia, è
anche una frattura epocale su cui Joan Didion riflette a lungo:
“C’era una guerra in corso. Quella guerra non ruotava intorno ai
desideri dei figli, né dipendeva in alcun modo da essi. In cambio
dell’accettazione di queste semplici verità, ai figli era concesso
di inventarsi la propria vita. L’idea che potevano essere
abbandonati a se stessi, che anzi fosse la cosa migliore per loro,
non veniva messa in discussione”. I dettagli vengono usati come
chiodi per fissare quegli istanti, “un periodo, un decennio,
durante il quale tutto sembrava corrispondere”, così come schegge
e frammenti che si perdono perché “il tempo passa. Il ricordo
sbiadisce, il ricordo si adatta, il ricordo si adegua a ciò che
pensiamo di ricordare”. Joan Didion non si sofferma mai né alle
mutevoli ragioni della memoria né al bisogno di consolazione ed è
estrema nel sottolineare le asperità della perdita, della mancanza,
ma la tensione nella confessione delle Blue Nights è
continua, inalterata, va oltre il lutto e la sua condivisione. Lo
ribadisce, con grande coraggio: “Vi racconto questa storia vera
solo per dimostrare che posso farlo. Che la mia fragilità non è
ancora arrivata al punto di impedirmi di poter raccontare una storia
vera”. La realtà delle Blue Nights ricorda che “quando
perdiamo quel senso di possibilità, lo perdiamo in fretta. Un giorno
siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al
passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi; il
giorno dopo non più”. L’inadeguatezza è fisiologica
l’incongruenza inevitabile, visto che “per ogni cosa c’è una
stagione”, dicono le sacre scritture, ma Joan Didion pensa ancora e
prima di tutto a Turn, Turn, Turn dei Byrds, a non dimenticare
che, a saldo di tutte le ferite, c’è quel sogno, magico, di volare
via, anche nell’implacabile luce del crepuscolo.
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