Più
che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un
artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a
confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi
del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica.
I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero
bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza
critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo.
“La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano
parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il
produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più
vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la
passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica
(molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con
altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien
Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock,
ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione
di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu
del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche
risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita
e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano
risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai
universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot
della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna
sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una
delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche
ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della
Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il
culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia
all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome
da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica
di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è
sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico
quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora
dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di
farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove
l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi
l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai
registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo
rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio
su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella
definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita
in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come
arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito
difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello
estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se
finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente
un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che
come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci
forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni,
identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a
riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere
nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte
idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore
dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non
funziona, ma quando funziona, è grande.
mercoledì 28 dicembre 2016
martedì 27 dicembre 2016
Tom Wolfe
Partendo dall’idea che il linguaggio è “una
linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le
teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si
accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui
interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto
piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è
fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi
evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi
ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria
evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è
maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti
spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono
Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà
umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria
per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza
accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di
trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una
narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in
uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni
condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle
funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a
smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni
cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare
l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come
era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma
restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era
sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è
inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come
tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche
vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato
“l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi,
considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti
anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe
spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura,
anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante
problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle
parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica
del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi,
centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno
e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è
indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett,
già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare
tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il
linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era
evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto.
L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il
legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure,
aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che
rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e
calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga
diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi,
speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà
con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso
Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in
gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a
nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma
in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di
astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte
poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa
eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo
che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti
i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso
fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e
pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante
dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom
Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto
secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto
fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione:
“E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente,
l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha
trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale:
sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non
solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La
conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né
all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle
probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che
Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era
più che sufficiente.
sabato 24 dicembre 2016
Jim Harrison
L’espressione
dei personaggi è il cuore delle storie di Jim Harrison e Vento
di passioni, per via della metamorfosi in
film di Leggende d’autunno
(che resta il titolo originale della raccolta, poi modificato per
ovvi motivi), è diventato il suo libro più fortunato, ma resta
anche uno dei più espliciti e rappresentativi nel mostrare
l’aderenza agli sviluppi delle sue creature. Nei racconti Jim
Harrison è proprio uno storyteller nudo e crudo: lascia quel minimo
indispensabile di spazio ai dialoghi (più che altro in Vendetta)
e va a collegare le narrazioni con una voce diretta, come se fosse il
commento a “una sorta di déjà vu permanente”. Una modalità che
non chiede alter ego, intermediari o altri escamotage: Jim Harrison
si limita ad allineare “i fatti puri e semplici, un concetto che
usiamo volentieri quando cerchiamo di sfuggire alle paludi, in cui
più o meno s’invischiano le nostre esistenze” e il lettore, più
che affrontare le pagine, deve ascoltarle. Leggende
d’autunno è un racconto che sfoggia una
delle specialità ricorrenti nei menù di Jim Harrison, la saga
familiare. Nello svolgere l’albero genealogico dei Ludlow, che
occupa più di un secolo, serpeggia l’elemento della vendetta, e
anche se “in fin dei conti la gente non ama farsi troppe domande,
soprattutto quelle spinose che riguardano l’evidente assenza di un
sistema equo di ricompense e di punizioni sulla terra”, per il
protagonista, Tristan è un desiderio sufficiente e rivelatore.
Leggende d’autunno
ha la forma spudorata del soggetto cinematografico, senza un dialogo
che sia uno, eppure in grado avvinghiare il lettore alla pagina, come
l’anaconda comprata da Tristan si è attorcigliata all’albero
maestro della sua nave e a cui hanno dovuto offrire un maialino per
farla scendere, e questo aneddoto è Jim Harrison al cubo. A riprova
che “uno stato di grazia non è mai solo” anche il secondo
capitolo di Vento di passioni
trova uno tra i più memorabili dei suoi personaggi tormentati dal
passato, circondati e definiti dalle rispettive figure femminili,
sempre sul confine tra un cambiamento e l’altro. Una situazione
delicata e volubile perché, come direbbe Nordstrom alias L’uomo
che rinunciò al suo nome, “la cosa più
frustrante per un uomo che desidera cambiare la propria vita è
l’improbabilità stessa del cambiamento”. Nordstrom che, in
un’ideale galleria antologica dei suoi protagonisti, occuperebbe di
sicuro una posizione centrale, balla da solo ascoltando i Dead e Otis
Redding, è “un amante abbastanza esperto da preferire l’atto
alla sua conclusione”, si divide tra la moglie (ormai ex) e la
figlia, affrontando i resti spaventosi del mondo con un aplomb tutto
suo, cucinando, stappando costose bottiglie di vino e pensando,
un’attività non così scontata. A concludere l’ideale trilogia
di Vento di passioni è
Cochran, già pilota di un cacciabombardiere abbattuto nel Laos, che
si trova in Messico “quasi divertito della propria circospezione,
da quella volontà di sopravvivere a qualsiasi cosa fosse in grado di
capire consapevolmente. Al momento non si sentiva nemmeno di
rimpiangere il modo in cui aveva sprecato, una dopo l’altra, le
varie occasioni che la vita gli aveva offerto. I rimpianti lo
annoiavano e la sola energia che gli rimaneva quella notte era
concentrata nello sforzo di capire come tutto ciò fosse potuto
accadere: un’ambizione meccanica, a dir tanto”. Quello che c’è
da sapere è tutto qui e lui, Nordstrom e Tristan sembrano lo stesso
personaggio tradotto e sfumato da Jim Harrison in tre
interpretazioni. Pur essendo molto differenti, i protagonisti di
Vento di passioni si
avvicendano su personalità con una notevole definizione, un
carattere indomabile e nello stesso tempo portato all’introspezione
e in fondo, degni esemplari del fatto che “ognuno desidera una
parte di mistero nella propria vita, ma rari sono coloro che fanno
qualcosa per meritarlo”. Da riscoprire.
mercoledì 21 dicembre 2016
James Ellroy
Un vortice di personaggi dentro una pozzanghera nera chiamata Los Angeles (l’inizio e la fine di tutto) che poi si allarga verso Chicago, Las Vegas, Miami, un’ombra chesi allunga la storia fosca degli Stati Uniti nei Caraibi dove pare abbiano trovato il cuore di tenebra e la linea d’ombra, insieme di quella che è (in effetti) un’idea distopica dell’America. Pur non essendo un romanzo storico, Il sangue è randagio collima e incastra fatti e cronache e se in quegli anni torbidi il leitmotiv era legato alla consapevolezza, leggendo James Ellroy si capisce che nessuno era consapevole di ciò che sta accadendo. E’ il 1968, la parola chiave è collusione e per favorire prima l’ascesa e poi la conferma di Nixon, prende forma una folle, convinta e ambigua volontà di assemblare piani, trame e operazioni segrete. Uno dopo l’altro, tutti confezionano, conservano, collezionano dossier per proteggersi, per attaccare, per difendersi e con la scusa che “per il dissenso c’è un prezzo da pagare”, li usano per contrastare le proteste contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili. Attorno a quelle attività illegali, prolifera un mondo parallelo, oscuro e spietato che si nutre dell’ipocrisia e della corruzione come elementi principali della miscela di una società predatoria e convinta fino al midollo che il razzismo, non soltanto verso i negri, ma con tutti, possa essere il collante di una nazione. Compresi gli oggetti stessi che sono al centro degli intrighi e delle macchinazioni di Il sangue è randagio: la distribuzione dell’eroina nei ghetti delle metropoli americane, gli interventi a Haiti e nella Repubblica Dominicana sono un parte considerevole dei gironi infernali in cui James Ellroy immerge il lettore, senza possibilità di appello. Una volta partito, Il sangue è randagio è impossibile fermarlo: nel suo vortice immaginifico, e nello stesso tempo ancorato alla realtà (peraltro ormai convalidata da tutte le analisi storiche) le contorsioni del potere, le sue assurdità, le sue maschere prendono le sembianze di spie addestrate al doppio e triplo gioco, infiltrati, informatori, delatori, spacciatori, mercenari, agenti, investigatori, femme fatale. L’elenco dei nomi è infinito e costituisce una sorta di romanzo nel romanzo perché ognuno è “l’anello di congiunzione tra causa ed effetto”, una connessione dove, il più delle volte, il risultato è la morte, ovvero l’omicidio, di qualcun altro. Le moltitudini di personaggi attraversano Il sangue è randagio come una piaga biblica, e cercando “di creare un’adeguata convergenza ed elaborare un’ipotesi credibile”. macinano, sbriciolano, devastano senza concedere nulla, senza correggere gli appetiti. La voracità è insaziabile, cannibale e suicida, ma anche cosciente del suo infausto destino, quando qualcuno ammette che “eravamo innocenti, allora. Adesso tutto il mondo ci odia”. Non è facile tenere testa a James Ellroy perché è animato da una ben strana generosità, nel senso che non risparmia niente, scruta nelle ombre, non cede mai alla tentazione di censurarsi e abbonda con i punti di vista anche se, in definitiva, quello che conta è soltanto uno, il suo. Non spiega, non racconta: trascina dentro un flusso inarrestabile, tanto è vero che, un po’ per gli additivi, un po’ per i riti voodoo, nell’accellerazione finale Il sangue è randagio si inoltra in una Dimensione onirica, e si trasforma in un gorgo allucinante. E’ la citazione Hellhound On My Trail di Robert Johnson a spiegare che Il sangue è randagio è una corsa letale nella decadenza dove caos e ordine tendono a sovrapporsi, a confondersi, a scambiarsi di ruolo rivelando un ritratto magniloquente del potere, nelle sue manipolazioni delle persone, dei fatti, delle informazioni, della realtà e della storia. Il delirio delle macchinazioni è tale da assumere vita propria e più il turbinio di alcol, droghe, torture, omicidi, furti, fughe, notti insonni si fa minaccioso e più il ritmo diventa via via furioso, il linguaggio scarno e brutale, le frasi spezzate senza pietà. James Ellroy è come i suoi “killer-a-distanza-ravvicinata”. Scotenna il lettore.
lunedì 19 dicembre 2016
Rick Moody
Ci
voleva il Nobel a Dylan per ricordarlo urbi et orbi, ma Rick Moody
l’aveva già capito con Musica celestiale che “la
letteratura, come la musica, vuole apertura, vuole esperienze, vuole
presa di coscienza e emozioni, e vuole esprimere tutto questo con
accuratezza e con dolcezza”. Una richiesta espressa in modo
perfetto, anche quando i temi sono tra i più disparati: in Musica
celestiale trovano posto le note scritte per i Wilco, il diario
agrodolce di Due settimane al campo musicale, il capitolo
dedicato a New York per la Rock’n’Roll High School di
Little Steven, ovvero L’underground di New York 1965-1988,
gli omaggi ai Pogues e ai Lounge Lizards. Anche se tesa a condividere
“visione storica, immaginazione, brama culturale, e passioni e
debolezze molto umane”, la dimensione è colloquiale, per cui il
tono funziona sempre e la voce di Rick Moody, più che le sue analisi
(che comunque sono accurate e documentate), risulta essere il
collante ideale per rendere coerente e uniforme una composizione in
realtà molto eterogenea. Contenuta da due estremi opposti e
sovrapponibili: cool e underground sono le parole d’ordine che
comprimono tutto quello che c’è dentro la Musica celestiale,
i tempi e i rituali, le epifanie e le interpretazioni, gli alti e i
bassi perché, come si premura di ricordare Rick Moody, “nella vita
capita di toccare il cielo con un dito e di capire quanto sia
importante quell’istante, ma poi ci si sveglia e ci si rende conto
di avere ancora molta strada da fare. Oppure: tutte le cose giungono
alla loro conclusione, specie la sensazione che la tua giovinezza sia
stata memorabile; questa sensazione si affievolisce, gli occhi
luminosi della giovinezza si velano di oscurità, tutto quel danzare
attorno a certe colonne sonore di quegli anni finisce, e ti trovi a
passare da un lavoro incompiuto a un altro e a cercare di tenere i
creditori a bada. Arrivano più bollette che lettere d’amore”. La
sfida ai luoghi comuni non è del tutto convincente, rimangono in
sospeso La questione del declino o quella dei Piaceri
inconfessabili, la musica come rifugio e come hobby, così come
Rick Moody alterna fiction fiction e filosofia, narrativa e
autobiografia, restando in bilico tra il racconto della sua
esperienza e dell’esperienza in sé. Non a caso, I frammenti di
Pete Townshend è forse il capitolo che rappresenta uno snodo,
anche nella sua forma assemblata di più parti, perché Rick Moody
sembra riflettersi, magari in modo involontario e spontaneo, nella
tormentata personalità del chitarrista degli Who. Se non altro,
Musica celestiale non cede alla tentazione di azzerare gli
orologi o di cancellare una storia quando è chiaro che “questa
musica del passato ci offre un rinnovato accesso alle nostre antiche
percezioni e emozioni, e quindi con ogni probabilità c’è un che
di intrinsecamente nostalgico nel piacere inconfessabile (benché
ritenga la parola nostalgia inadeguata in questo contesto: sarebbe
come dire che tutta l’opera di Proust ruota attorno alla nostalgia
per un dolce). Ma se la musica riesce a dar voce a emozioni che
altrimenti rimarrebbero inespresse, questa non è forse una ragione
sufficiente per considerarla valida e importante?” Il senso più
intimo e profonda della Musica celestiale è proprio nella
risposta di Rick Moody quando dice che “la memoria è difettosa,
costellata di errori, trasuda desiderio, eppure interagisce con la
musica in modo duttile; come il jazz, la memoria è imprevedibile, e
offre ai musicisti qualcosa su cui puntare, così come offre agli
scrittori qualcosa su cui scrivere”. La definizione rimane quella,
l’entusiasmo resta intatto ed esplicito quando viene così
condensato e sollecitato: “Prendete il controllo del vostro
splendido linguaggio. Mettete in funzione il vostro gergo alchemico.
Rimescolate il vostro slang. Suonate i vostri innumerevoli fiati.
Suonate bene. Suonate con sentimento”. L’esortazione, molto Beat
Generation, in coda all’introduzione della Musica celestiale,
è ambivalente e si può leggere anche al contrario visto che, come
ribadisce Rick Moody, “la letteratura, pur manifestandosi sulla
pagina, è un fenomeno acustico”. Ecco perché, tra l’altro, il
Nobel è andato dove è andato.
martedì 13 dicembre 2016
Walt Whitman
Negli
anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln,
Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i
moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie
degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla
secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una
nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad
affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni
sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata
alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e
i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna
voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si
sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”.
Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla
tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a
corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali
meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più
grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali,
incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto
forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è
mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel
momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non
sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi
di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La
speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale
americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato
umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la
modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della
compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt
Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in
gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità
inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di
questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non
dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore
assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle
circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non
nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle
divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione,
e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi
confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non
parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La
retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata,
non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e
secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro
l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il
popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi
e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati
superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere
d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e
illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente
sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman
avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie
politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham
Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto
bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come
se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio
sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi
cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando
misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei
governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al
protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di
vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”.
L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è
nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie:
ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di
Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le
storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre
lì, ancora più grande, ancora più evidente.
mercoledì 7 dicembre 2016
Denis Johnson
Mostri
che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio
in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa
sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro
disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo
humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame
tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e
molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in
altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di
un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a
distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi
di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di
accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia
Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore
dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche
altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo
stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando
delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il
termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua
versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze,
“la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è
la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è
un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo
secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001,
ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando
“correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio.
Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna
a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non
è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e
tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee
d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano
prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del
proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni,
ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai
pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e
cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei
confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione.
L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte,
e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel
sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol
ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di
addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure
secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger,
portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione,
prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le
cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che
ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze
incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo
all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli
animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di
Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli
intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della
devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema
della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e
se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione
formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei
viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un
bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente
omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione
di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della
genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che
sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica
differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che
non ha più nulla di umano.
domenica 4 dicembre 2016
Hart Crane
Daniel
Mark Epstein chiama i versi di Hart Crane “assalti alla logica”
ed è una definizione ben allineata a quella di Waldo Frank che a sua
volta li inquadrava in “una superba espressione del caos”. Non
c'è alcun dubbio che la poesia di Hart Crane sia un Giardino
astratto, popolato da immagini e associazioni forti ed
eccentriche che mettono in rilievo le parole, le levigano e le
lasciano libere di mutare “cavalcando spontaneità che formano le
loro orbite indipendenti”, come dice un verso in Le mele della
domenica mattina. Le forme sono sempre ingombranti (Harold Bloom
parla di “complessità”, e per dirlo lui), ma l’insistenza del
ritmo è feroce, non lascia scampo, è tambureggiante, ed è piena di
svolte, come avviene in Chaplinesque. Se
all'inizio, “noi docilmente ci adattiamo, contenti di quelle
fortuite consolazioni che il vento depone in tasche sfondate e troppo
grandi”, poi il poeta e la sua poesia ci conducono a un livello
superiore dove “il gioco impone compiacenti sorrisi; ma noi abbiamo
visto la luna in vicoli solitari fare di un bidone vuoto dei rifiuti
un fulgido graal di risate, e fra tutti i suoni della gaiezza e della
ricerca, abbiamo sentito un gattino nella desolazione”. Se si segue
con attenzione la cadenza, è facile intuire la stessa avvolgente
natura del jazz che Hart Crane riassumeva nella meravigliosa
percezione degli “ipnotismi di ottone”, poi particolareggiati in
“mille piccoli sobbalzi ci bilanciano in mezzo a minacciosi
soprassalti di melodia, ombre bianche scivolano sul pavimento,
disseminate come carte aperte da una mano fiacca; ritmiche ellissi ci
portano al galoppo in un qualche luogo con un gallo insolente”. Le
destinazioni finali restano sempre un'incognita e un discorso a parte
meritano i Viaggi compresi alla fine di White Buildings.
Sono uno dei momenti più alti ed evoluti della poesia di Hart
Crane, che qui si intreccia inevitabilmente con la sua umanità, come
ricorda Harold Bloom: “I Viaggi sono poesie di intenso
appagamento erotico ambientate nel Mar dei Caraibi, dove Hart Crane
aveva trascorso le estati insieme alla nonna, sull’isola dei Pini,
sin da quando aveva quindici anni. Proprio in queste acque il poeta,
ormai trentaduenne, di ritorno a a New York dopo essersi mantenuto
per lungo tempo a Città del Messico con la borsa di studio
Guggenheim, cadde in depressione e si annegò”. Per questo i versi
del secondo movimento, quando Hart Crane dice che “il sonno, la
morte, il desiderio, sono racchiusi all’istante in un fiore che
galleggia”, sempre secondo Harold Bloom hanno “l’autorevolezza
di una profezia”. Questa proiezione, la visione dentro e oltre il
tempo, è una proprietà che appartiene a tutta la poesia di Hart
Crane e se serve un punto di riferimento, tra tutte le liriche di
White Buildings, forse lo si
può scovare in Leggenda: “Silenziose come si crede
uno specchio, le realtà affondano nel silenzio vicino. Non sono
pronto al pentimento; né a misurare rimpianti. Perché la falena non
piega nulla più che la fiamma, ancora implorante. E tremuli, fra i
bianchi fiocchi cadenti, sono i baci, l’unica verità che vale
tutto. Questo va appreso, questo scindere e questo bruciare, ma solo
quelli che ancora si consumano”. Follia e ragione possono aspettare
in un angolo, il tempo, almeno qui, è dettato dal mistero della musica e della poesia.
giovedì 1 dicembre 2016
Flannery O'Connor
Al
di là dei racconti selezionati con La
schiena di Parker (e
tra gli altri alcuni classici come Un
brav’uomo è difficile da trovare, Il
fiume, La
vita che salvi può essere la tua o Non
si può essere più poveri che da morti),
questa selezione ha il pregio di annoverare alcuni frammenti di
notevole valore tratti da Il
territorio del diavolo e
soprattutto una piccola campionatura delle lettere di Flannery
O’Connor che rivelano un rigore nella formazione delle riflessioni
poi espresse con un tono tagliente. La predisposizione a separare (a
incidere) nettamente a dividere gli aspetti più superficiali della
scrittura (dell’arte in generale) sono evidenti in Natura
e scopo della narrativa dove
Flannery O’Connor si dimostra una grande teorica e trova sempre il
modo di puntualizzare la sua visione senza paura di prendere
posizione, per esempio sparando ad alzo zero sulla didattica perché “vogliamo l’abilità ma, da sola, è mortale. Necessaria
è la visione che l’accompagna e non la otterrete da un corso di
scrittura”. Il territorio della narrativa è sempre “qualcosa da
desiderare”, e questo vale anche per tutti: “C’è qualcosa in
noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto
di redenzione, al fine di offrire a chi cade la possibilità di
risorgere. Il lettore di oggi, anche giustamente, cerca questo
processo, ma ne ha dimenticato il prezzo. Il suo senso del male è
diluito o manca completamente, e così ha dimenticato il prezzo del
riscatto. Quando legge un romanzo vuole il tormento dei sensi o
l’elevazione dello spirito. Vuole essere trasportato all’istante
in una finta dannazione o in una finta innocenza”. Nessuno sconto
né ai principianti, né all’accademia: “Ovunque vada mi chiedono
se, secondo me, le università soffocano gli scrittori. Il mio parere
è che non ne soffocano abbastanza. Con un buon insegnante più di un
best-seller si sarebbe potuto prevenire”. La distanza è ancora più
evidente nelle lettere dove Flannery O'Connor mostra una verve
impagabile. Essendo già autocritica a sufficienza, di fronte a
un'analisi tutta imperniata sugli aspetti gotici della sua scrittura
risponde:“Mi
fa sorridere vedere le mie storie descritte come storie dell’orrore
perché il recensore ha sempre un senso dell’orrore sbagliato”.
Più in là, in un'altra corrispondenza sembra, rincarando la dose in
modo ruspante e senza inibizioni: “Il senso morale è stato
geneticamente estirpato da certe categorie di popolazione così come
geneticamente sono state fatte nascere galline senza ali per
ricavarne più carne. La nostra è una generazione di galline senza
ali che suppongono sia stato quello che Nietzsche intendeva dire
quando disse che Dio era morto”. Non le sfugge nulla: nel campo
della fede (cattolica), un tema su cui non teme di spendersi con
generosità riesce a inventarsi un'acrobazia linguistica al limite
del paradosso (se non oltre) quando dice: “Trovo ragionevole
credere, sebbene queste credenze siano al di là della ragione”.
Quella di Flannery O'Connor è una voce inconfondibile e la sua
unicità è tale che, fatte salve le diverse prospettive, non si
intravedono differenze tra il tono dei racconti, dei saggi o delle
lettere, a conferma dell'idea che “la
narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere,
dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere
narrativa”, e così sia.
lunedì 28 novembre 2016
Mark Strand
Quando Un
poeta legge un pittore la
domanda è: “Come mai troviamo così difficile dare un senso a
quello che vediamo?”, e il tentativo di rispondere in Edward
Hopper,
è in una disgressione geometrica, filosofica e, soltanto alla fine,
narrativa. Mark Strand distingue trapezi, piani, e linee facendo
notare come “l’uso reiterato di alcune figure geometriche, che
hanno un’influenza diretta sulla reazione che l’osservatore
probabilmente avrà” è una prassi con cui “una geometria
pittorica stimola un’azione opposta a quella che la narrazione
dispone”. In questa contraddizione di termini c’è gran parte del
fascino della pittura di Edward Hopper, perché come nota Mark Strand
osservando uno dei suoi dipinti più famosi, Nighthawks,
“un punto di fuga non è soltanto il luogo in cui s’incontrano
linee convergenti, è anche il luogo in cui noi cessiamo di essere,
la fine di ciascuno dei nostri viaggi individuali”. Anche nei
soggetti ricorrenti in Edward Hopper, “le strade e le ferrovie, i
luoghi di passaggio e quelli di sosta temporanea, in termini più
generali, i luoghi del viaggio”, la dimensione è ambivalente e
Mark Strand sa intravedere in quel “mondo colto al volto, di
passaggio”, “immobile” nella sua essenzialità, una visione
“senza di noi; non solo un luogo che ci esclude, ma un luogo
svuotato di noi stessi”. E’ davvero lì, nell’istante ricavato
tra la luce e le ombre, che la grandezza del poeta e del pittore
s’incontrano e quei “momenti del mondo reale, di cui noi tutti
abbiamo esperienza, sembrano per mistero trasportati fuori dal tempo.
Ad esempio il mondo visto di sfuggita da un treno, o da un’auto in
corsa, rivelerà la scheggia di una storia che forse cercheremo, o
forse no, di completare, ma i cui echi suggestivi ci commuoveranno
comunque, rendendoci consapevoli della natura frammentaria, fuggitiva
persino, delle nostre vite”. I frammenti di stanze, finestre, corpi
e paesaggi e tutto quello che resta sospeso lasciano aperte molte
ipotesi per l’osservatore, e Mark Strand ricorda come “quello che
sentiamo sarà soltanto nostro. La negazione del viaggio, insieme al
nostro senso di perdita e alla nostra assenza transitoria,
prospererà”. Eppure, la narrazione dei quadri è rispettosa,
limitata alle impressioni e alle forme, senza l’aggiunta di
particolari speculazioni, deduzioni o divagazioni. L’arte di Edward
Hopper rimane “un universo a sé stante in cui il suo mistero
rimane intatto”, è il suo riflesso a colpirci, così come “il
silenzio che accompagna il nostro guardare sembra accrescerci. Ci
turba. Vogliamo andare oltre. E qualcosa ci spinge a farlo,
nell'attimo stesso in cui qualcos’altro ci costringe a restare
fermi. Ci pesa addosso come solitudine. La distanza tra noi e ogni
altra cosa aumenta”. Quella racchiusa nelle due dimensioni della
pittura di Edward Hopper è “una lacuna ombreggiata non tanto dagli
eventi di una vita vissuta quanto piuttosto dal tempo prima della
vita e dal tempo susseguente”, ovvero un momento magico protratto nel
tempo e di cui “noi siamo i privilegiati testimoni”. L’effetto
porta alla dimensione superiore, dove la considerazione inevitabile
tocca “il problema dei nostri rapporti con il tempo: cosa ce ne
facciamo del tempo e cosa il tempo a noi?” Se la domanda iniziale
toccata più il pittore, quella conclusiva è di pertinenza del
poeta: se in Edward Hopper intravede quella “struttura formale in
grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento
inspiegabile delle nostre vite”, la risposta tocca ancora a
chi guarda, incantato, perché, “noi pure desideravamo qualcosa
oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi, oltre quanto sapevamo
immaginare, qualcosa in cui nondimeno potessimo riconoscerci”.
Questa è l’arte, questa è la poesia.
mercoledì 23 novembre 2016
Ta-Nehisi Coates
L’idea
di Un conto ancora aperto nasce dalla convinzione che alla
fonte del razzismo ci sia la speculazione economica e che, con il
trascorrere dei decenni e poi dei secoli, causa ed effetto (la
speculazione e il razzismo) siano diventati intercambiabili. E’ il
motivo per cui Un conto ancora aperto prende le distanze con
molta chiarezza dall’illusoria possibilità di riconciliazione
senza risarcimento. Una posizione che è implicita già nello
svolgimento del sottotitolo. Quando Ta-Nehisi Coates si chiede Quanto
valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?, non è per niente
una domanda retorica. La quantificazione del danno, riconosciuta come
diritto a partire da John Locke, è un argomento che ha solide
fondamenta. Il furto è concreto e continuato nel tempo, attraverso
formule più subdole, raffinate e meno esplicite della schiavitù, ma
pur sempre efficaci, e a senso unico. Non solo: come succede nel
primo caso raccontato da Ta-Nehisi Coates, quello di Clyde Ross, la
distorsione e l’assenza dei diritti lo spingono al punto di
rendersi conto che “non viveva sotto lo sguardo bendato della
giustizia, ma sotto l’oppressione di un regime che aveva elevato la
rapina armata a principio di governo”. Le osservazioni sono
radicali perché la condizione è estrema: la depredazione e la
conseguente distruzione di un popolo generano una percezione sfasata
perché, spiega Ta-Nehisi Coates, “in realtà, in America c’è la
bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte
smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il
coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un
passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare
soltanto distogliendo lo sguardo”. E’ evidente che c’è proprio
Un conto ancora aperto e lo sforzo maggiore compiuto da
Ta-Nehisi Coates è insieme un grido di dolore e di allarme perché
“non possiamo fuggire dalla nostra storia. Tutte le soluzioni che
abbiamo sperimentato per risolvere grandi problemi come l’assistenza
sanitaria, l’istruzione, il diritto alla casa e le diseguaglianze
economiche, pagano il prezzo di ciò che non si vuole ammettere”.
Ta-Nehisi Coates parte da casi espliciti ed esemplari prima di
avvalersi degli strumenti statistici, che sono sempre fluttuanti e
hanno bisogno di una giusta collocazione, ma Un conto ancora
aperto non deve difendere una teoria, una ricostruzione,
un’opinione: il danno compiuto è conclamato, perché gli esseri
umani ridotti in schiavitù sono stati trattati e organizzati come
merci. Ricorda lo storico David W. Blight: “Nel 1860 gli schiavi
come bene patrimoniale valevano più di tutte le produzioni
manifatturiere, più dell’intera rete ferroviaria e dell’intera
capacità produttiva di tutti gli Stati Uniti messi insieme. Gli
schiavi erano di gran lunga il bene di proprietà più importante
dell’intera economia americana”. Questo vuol dire un’immane
sofferenza perché trattare uomini e donne come parti di ricambio
vuol dire distruggere le comunità e “separare una famiglia di
schiavi equivaleva di fatto a un assassinio. Ecco dove affondano le
loro radici la ricchezza e la democrazia americane: nella lucrosa
distruzione del bene più importante a cui ogni individuo possa
aspirare, la famiglia. Questa distruzione non è stata un elemento
incidentale nell’ascesa dell’America: l’ha facilitata.
Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha
potuto gettare le basi economiche per il suo grande esperimento
democratico”. Riconoscere l’esigenza di un risarcimento sarebbe
(il condizionale è d’obbligo) un decisivo cambio di prospettiva,
anche se il saldo finale, per la civiltà tutta, resta negativo.
domenica 20 novembre 2016
Herman Melville
Pur
essendo molto distanti dall’epopea di Moby Dick, perché
sono episodi che appartengono al suo periodo giovane e selvaggio, i
Frammenti di uno scrittoio sono rappresentativi di uno stile
destinato a diventare unico. Non soltanto con l’esuberante carica
per cui D. H. Lawrence dirà che “in effetti Melville è un tantino
sentenzioso, e così cosciente e anche teso a convincere se stesso”
o per le citazioni di Shakespeare, Milton, Byron, Scott, Coleridge
ostentate nei due racconti. In prospettiva, i Frammenti di uno
scrittoio sembrano germi primordiali in cui Melville asseconda il
motto di Friedrich Schiller (“Sii fedele ai sogni della tua
giovinezza”) e lo traduce in una narrazione spumeggiante, per
quanto ancora grezza e acerba. La dimensione onirica tout court delle
“lungaggini” di Melville è palpabile, richiamata spesso nelle
descrizioni che sono floride e voluttuose: “Candelieri di disegno
estremamente fantasioso, pendenti dall’alto soffitto con funi
d’argento, diffondevano su questa scena voluttuosa una luce morbida
e temperata, e trasmettevano all’insieme quella bellezza di sogno
che vuol essere vista per essere pienamente apprezzata. Specchi di
grandezza inusuale, moltiplicando in tutte le direzioni i bellissimi
oggetti, illudevano l’occhio con le immagini riflesse e ingannavano
la visione con un lungo scorcio”. Una caratteristica che poi
resterà, ampliata e centellinata con maggior precisione, tanto è
vero che D. H. Lawrence dirà ancora che “il Melville migliore
scrive in una specie di sogno soggettivo, cosicché gli eventi che
gli ci narra hanno una strettissima relazione con la sua anima e la
sua vita profonda”. La vita è sogno ed è suono e i Frammenti
da uno scrittoio mettono già in risalto la natura tambureggiante
della scrittura, che poi John Freeman definirà così: “Una delle
maggiori qualità di questo genio è il suo orecchio per il ritmo.
Melville aderisce alla superba tradizione degli scrittori
anglosassoni: la tradizione di una prosa scritta per l’orecchio più
che per l’occhio”. Questo è già evidente fin dagli scritti
giovanili come emerge nel primo dei due Frammenti da uno scrittoio
quando Melville dice: “Sento che le mie capacità sono
inadeguate alla bisogna; proverò tuttavia a cimentare la mia mano
sull’argomento sebbene, da inesperto pittore qual sono, temo che
riuscirò solo a scandalizzare le grazie che sto tentando di
rappresentare”. La promessa, si sa, sarà mantenuta, vagabondando
tra le frasi con un coraggio per e nella prosa che lo spingerà a
scelte radicali nella vita. Alla fine, anche nei Frammenti da uno
scrittoio si trova, come scriveva Gianni Celati “il procedere a
tentoni delle parole verso questi deserti, luoghi di voci e richiami
dell’anima, con la grazia del grafomane e del manierista, ma anche
sempre con questo lancinante senso di un’apertura in tutte le
direzioni, che non arriva da nessuna parte”. Un mese dopo Herman
Melville salperà e da lì in poi il sogno diventerà un’ossessione,
per lui e per tutti: “Cavatevi gli occhi per cercarla, ragazzi:
guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche solo una bolla,
segnalate”. Siamo sempre in mare aperto, la caccia continua.
mercoledì 16 novembre 2016
Andy Warhol
Amore,
bellezza, fama, lavoro, tempo, morte, economia, atmosfera, successo,
arte: La filosofia di Andy Warhol è il vademecum per
comprendere la particolarissima ottica con cui vivisezionava la
realtà, rileggendola e trasformandola, o almeno cercando una
bellezza nei frammenti di vita, nelle brevi tregue tra un’incombenza
e l’altra, convinto che “ognuno ha il suo proprio tempo e luogo
per accendersi”. E’ proprio nelle logiche di Andy Warhol dare un
senso ad aspetti insignificanti, almeno in apparenza, della vita
quotidiana con un’attenzione di è nitida, continua, serrata. Quasi
un diario di bordo, molto scrupoloso nei dettagli casalinghi,
nell’osservazione della routine, con l’idea che, comunque, “alla
fine l’intera giornata sarà un film”. La filosofia di Andy
Warhol è tutta definita dalle immagini cinematografiche e
televisive, come se fossero (e lo sono, ovviamente) traduttori
simultanei della realtà, sfruttati però in modo creativo, o almeno
con la consapevolezza “che una volta viste le emozioni da una certa
angolazione non le si possa più considerare reali”. La percezione
di Andy Warhol è solo per il momento, una visione del tempo fondata
sul futuro e su un’immaginazione frigida (come direbbe il diretto
interessato), concentrata, precisa e proprio per tutti questi motivi,
geniale. Andy Warhol racconta la sua normalità, che è fatta delle
ossessioni di un artista, dei suoi rituali, delle misure che prende
alla sua vita, dei tempi che asseconda. La filosofia è mutevole,
come l’umore. Solo le ossessioni che restano costanti e coerenti ed
è ancora attualissima la sua dimestichezza nel generalizzare, con
ironia e leggerezza snodi esistenziali complessi, che Andy Warhol
traduce in aforismi brevissimi e pungenti. Il pop è proprio questo.
Quando scrive che “alcune persone pensano che la violenza sia sexy,
ma io non me ne sono mai accorto”, lo dice da sopravvissuto visto
che soltanto qualche anno prima. Valerie Solanas gli aveva sparato
contro tre colpi di pistola. Nello stesso modo riassume in pochissime
parole il mistero gaudioso e doloroso del cosiddetto sogno americano
spiegando come “l’America è veramente bella. Ma sarebbe ancora
più bella se tutti avessero i soldi per vivere”, che poi in realtà
si concentra e si sviluppa nell’idea del lavoro e del diventare
qualcuno. A quel punto La filosofia di Andy Warhol è a un
bivio, ma non rinuncia alla sfida, non è nella sua natura. Andy
Warhol rimane un bizzarro “self made man”, un uomo di successo,
che ha vissuto il suo ruolo sempre con un distacco regale: “Credo
di avere una concezione molto approssimativa del lavoro, perché è
mia convinzione che vivere sia già di per sé un grosso lavoro, che
non si ha sempre voglia di fare. Nascere è un po’ come essere
rapiti. E poi venduti come schiavi. La gente non fa altro che
lavorare. Il meccanismo è sempre in moto”. D’altra parte La
filosofia di Andy Warhol ha ragione di esistere in quanto
riflesso e personificazione delle proiezioni, delle contraddizioni e
delle fantasie del ventesimo secolo. La fama non è solo il
celeberrimo “quarto d’ora”. C’è molto di più nello stardom
system e nessuno è stato così chiaro come Andy Warhol nel
comprenderlo: “Oggigiorno sei considerato anche se sei un
imbroglione. Puoi scrivere libri, andare in televisione, concedere
interviste: sei una grande celebrità e nessuno ti disprezza anche se
sei un imbroglione. Sei sempre una star. Questo avviene perché la
gente ha bisogno delle star più che di ogni altra cosa”. Poi, come
scriveva nei suoi diari, “se volete sapere tutto su Andy Warhol,
guardate semplicemente alla superficie dei miei dipinti e delle mie
pellicole ed eccomi, lì sono io. Non c’è nient’altro oltre a
questo”. Resta unico, non riproducibile, e forse questo è il vero
paradosso che racconta La filosofia di Andy Warhol.
lunedì 7 novembre 2016
Don DeLillo
Zero
K è
la radice quadrata di una love story, “un assurdo moto di amore”
che alimenta una reazione a catena di visioni, una sfida che infine
si trasforma in “una sontuosa finzione”. L’atmosfera onirica,
precisa, gelida, sublime ed estrema imposta da Don DeLillo “lascia
che la lingua rifletta la ricerca di metodi sempre più oscuri, fino
ad arrivare a livelli subatomici” e concede soltanto una scelta al
lettore, che può decidere se Zero
K è
“un sogno ben disciplinato” o la follia di un incubo “ai
margini estremi del plausibile”, e un po’ oltre. La storia si
condensa attorno alla decisione di Ross Lockhart alias Nicholas
Satterswaite e della (seconda) moglie Artis di ibernarsi, nella
speranza di ovviare alle malattie e per estensione per nascondersi e
per rimettersi al tempo seguendo “una promessa che gode di maggiori
garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni
organizzate di questo mondo”. L’elemento criogenico,
l’ambientazione scientifica, i dilemmi filosofici, circostanze,
congetture, conseguenze riportano a La
stella di Ratner ma
nello svolgersi della sostanza di Zero
K “in
termini puramente umani, stiamo parlando di un uomo che non se la
sente di vivere senza la sua donna”. Dovrebbe essere semplice, solo
che “quando vediamo qualcosa a noi arriva solo una parte di
informazioni, una sensazione, un’idea vaga di quello che realmente
si può vedere” e “sono solo indizi. Il resto è una nostra
invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale”.
Marito, moglie (non-madre), padre e figlio che si incontrano in un
non-luogo chiamato, con un’ironia impercettibile, Convergence, a
confabulare tra loro e con misteriosi interlocutori di non-vite e, di
riflesso, di non-morti. Tutto diventa dialogo, tono “prima e terza
persona insieme”, contraddizione, paradosso e una voce che
confessa: “Cerco di sapere chi sono. Ma sono quello che dico e non
è quasi niente. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle
parole. Le parole non se ne vanno mai”. E’ la lingua ad aprire
“una distorsione della luce”, quella che, nella scrittura
pulsante di Don DeLillo, ha una frequenza ritmica serrata, sincopata,
pari e dispari contemporaneamente. Il titolo, beffardo, lascia la
porta aperta all’invenzione di un non-romanzo, alla sensazione
continua di essere “caduti fuori dalla storia”, alla possibilità
di scoprire che il narratore “ogni tanto improvvisa, gonfia le
storie, le allarga, le porta al limite in un modo che può anche
mettere alla prova le cose in cui credi” e comunque, fino in
fondo, Zero
K è
una professione di fede per “le parole intatte”, che non sono
così facili da ritrovare, e per estensione per la letteratura come
prova, rituale, esperienza. L’unico (e forse, l’ultimo) modo per
accorgersi che, come dice Don DeLillo parafrasando Sant’Agostino,
“il tempo è multiplo, il tempo è simultaneo. Questo momento
succede, è successo, succederà”, e sono soltanto le “piccole
cose che definiscono ciò che siamo”, quelle che pesano o
valgono Zero
K,
e che rivelano “quanto siamo fragili, non è vero?”, e la vera
trama è tutta nella domanda. Resta la descrizione di un lungo
crepuscolo su Manhattan che cala come il perfetto sipario sul finale
di un romanzo straordinario.
venerdì 4 novembre 2016
Brian Turner
Prima
di diventare un raffinato romanziere, Arturo Pérez-Reverte è stato
a lungo un inviato al fronte e nel 1988 è stato profetico quando
scrisse: “In realtà non vi invidio le guerre che vivrete tra venti
o trent’anni”. Eccoci qui, con “un
elenco aggiornato di continuo” delle possibilità e dei modi di
morire, come scrive Brian Turner, combattendo in guerre che
ormai “sono
così vecchie, così morte”. La definizione, che invece è di Don
DeLillo, si adatta alla perfezione alla forma di La
mia vita è una paese straniero: mettendo
in conto sette anni come “parte dell’inventario dell’esercito
americano”, Brian
Turner riunisce “poche frasi legate insieme nella sommaria
descrizione di una vita passata in guerra. Lo schieramento in
battaglia. Il filo della vita di una guerra”. All’inizio sono
“frammenti. Lampi di luce. Nient’altro che parti”, poi “un
tripudio di fucili, volti camuffati e intenzioni oscure” finché La
mia vita è un paese straniero non
comincia a germogliare in “uno spazio interiore, uno spazio che non
apparteneva né all’esercito né alla comunità militare in cui
prestavo servizio”. La convivenza tra le liriche e le armi, pur
radicata nella storia dell’umanità, si è fatta schizofrenica
(come tutto il resto, a dir la verità) perché “la guerra vera è
in televisione”. La visione è cambiata per la prospettiva, dato
che “a ben vedere, la vera macchina da presa siamo noi”, e di
conseguenza nella consapevolezza della tragica essenza della guerra
dove, spiega con rara profondità Brian Turner, “è
tutto percepito, in qualche modo, come una vastità di spazi, dove
l’architettura della civiltà non interviene, l’ambiente del
consorzio umano è chissà come assente o sospeso. Uno spazio in cui
le regole sono sottosopra. Teatro di guerra, lo chiamano alcuni. Lo
spazio in cui la guerra si svincola dalle strutturate regole degli
umani per dibattersi nel mondo naturale, nell’idea di bellezza, in
tutto ciò che su questa terra vi è forse di più simile a una
perfezione inviolabile”. Ecco, all’inizio, la domanda è: “Sono
questi i principi che ci hanno portato qui?”, e non c’è nulla di
retorico o di eroico, nel chiederselo, perché la risposta è
superata dagli eventi: armi che vedono e colpiscono ovunque, uomini e
donne e bambini usati come scudi, bersagli, bombe umane, atrocità e
crudeltà che si inanellano seguendo un’involuzione senza fondo.
Quello che rimane è solo un’altra domanda: “Come fa uno a
lasciarsi alle spalle una guerra, quale che sia, e a riprendere il
cammino della vita che gli resta?”Brian Turner dice in modo molto
coraggioso quello che tutti sussurrano sottovoce e che si intuisce
nei ricordi collezionati nei memoir di Chris Kyle, Ben Fountain, Phil
Klay, David Tell o Siobahn Fallon che hanno vissuto e osservato le
moderne guerre americane da vicino, e da diverse angolazioni. L’unica
verità che sopravvive è che l’operazione del rientro “richiede
anni e anni”, ma nessuno torna veramente. Brian Turner parte da una
constatazione più complessa, avendo percepito fin dal giorno
dell’arruolamento, “a un livello profondissimo e immutabile, che
sarei partito e mai tornato”. Non è tutto perché un pezzo dopo
l’altro La
mia è un paese straniero si
costruisce e si rivela nel titolo (e lo completa) quando Brian Turner
dice: “Forse il punto non è tanto che è difficile tornare a casa,
quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo
portarci. L’America, smisurata ed estesa da un oceano all’altro,
non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi
soldati porta a casa. E anche se ne avesse, non vorrebbe”. Scomodo,
urgente, necessario.
martedì 25 ottobre 2016
Elliott Chaze
La
canzone che sottolinea dall’inizio alla fine Il mio angelo ha le
ali nere ha una storia particolare perché è If You Got The
Money, Honey, I Got The Time, un classico di Lefty Frizzell,
scritta con il suo manager, Jim Beck. Registrata dallo storico
produttore della Columbia, Don Law, la canzone venne pubblicata il 14
settembre 1950 e rimase per tre settimane al primo posto nelle
classifiche country & western (poi ci tornò nel 1976
nell’interpretazione di Willie Nelson). Tim e Virginia l’ascoltano
dalla radio di una stanza d’albergo dove s’incontrano. Lui è
appena uscito di galera e “la canzone e le parole facevano un
effetto strano cantate da lei, con la freschezza di una ragazzina, ma
con la voce appena smozzicata di una signora”. Nasce in quel
momento una liaison pericolosa e instabile: Tim, come tutti i
delinquenti che si rispettino, ha un piano per un ultimo colpo e vede
in Virginia la complice ideale. Un po’ perché sa guidare, e un po’
perché “si può dire quello che si vuole, ma in realtà le persone
affamate di denaro, quelle voracemente affamate, sono una categoria a
parte”. Lei è una femme fatale incontrollabile e risoluta,
l’incarnazione vivente del ritornello della canzone di Lefty
Frizzell: se tu hai i soldi, dolcezza, io ho tempo. Al centro dei
pensieri e dell’azione c’è sempre la rapina da un milione di
dollari con tutti i cliché del caso, allineati con rara maestria da
Elliott Chaze. E’ un colpo ingegnoso, studiato per non lasciare
nessuna traccia, e, come nelle migliori tradizioni, è stato
elaborato in carcere, con un compagno di cella, Jeepie, un fantasma
che sembra seguire ogni movimento di Tim. Da lì in poi si rischia di
rivelare particolari importanti, che toglierebbero la sorpresa al
ritmo serrato, sincopato e senza un attimo di tregua di Elliott
Chaze. Uno stile molto evoluto rispetto ai dettami (pulp) dell’epoca
(siamo nel 1953). Intanto l’ambientazione, almeno nella prima
parte, è insolita per un noir, con tutti quei riflessi bucolici
nella wilderness, l’acqua chiara e gelida del torrente, la luce del
tramonto e la volta stellata di notte. Un paesaggio idilliaco in
netto contrasto con le motivazioni oscure che hanno portato lì, sui
pendii del Colorado, Virginia e Tim che li legano a quel luogo fino
alla fine della storia. La differenza è nitida e sottolineata dalla
scrittura di Elliott Chaze che si presta con generosità a illustrare
ogni scena, sia che Tim e Virginia si trovino circondati dalla
natura, sia che vengano ritratti in cornici più anguste, come il
posto nella fabbrica di lamiere per Tim. I luoghi scorrono veloci:
anche quando preparano il colpo in un quartiere sonnolento di Denver,
dove l’attività principale è innaffiare il giardino o scrutare i
movimenti dei vicini, la fuga è soltanto rimandata. E’ il vero
elemento trascinante di Il mio angelo ha le ali nere: Tim e
Virginia scappano anche dal proprio nome e Elliott Chaze non
distoglie mai l’obiettivo e non perde occasione per evidenziare il
senso unico a cui sono obbligati perché “nessuno è immune dal
pensare”. La vita da fuggiaschi ha i suoi alti e bassi: Tim e
Virginia si spostano lungo strade deserte o nella movimentata vita
notturna di New Orleans, ma qualcosa li costringe a tornare a
guardare nell’oscurità di un pozzo, dove il destino, inevitabile e
tragico, li sta aspettando. Il resto è l’abilità (non
indifferente) di Elliott Chaze nel servire il contorno, lasciando
suonare ancora una volta If You Got The Money, Honey, I Got The
Time, anche se ormai, dolcezza, non ci sono più né i soldi né
il tempo. Un classico, nerissimo e spietato.
venerdì 21 ottobre 2016
Joni Mitchell
“Le stagioni cambiano ogni giorno. Qualche volta è primavera, qualche volta è niente. Un poeta può cantare, sì, ci prova, prova sempre” cantava invece lei, Joni Mitchell, in Sisotowell Lane. “Una brava ragazza hippie e rock’n’roll” nella definizione di Barney Hoskins, un po’ riduttiva in realtà, visto che l’incanto di Joni Mitchell è la profondità della sua immersione negli abissi dell’amore. Nessuno ha scritto con la sua sensibilità, con la sua intensità e con la sua ricchezza di immagini l’inarticolato linguaggio del cuore, anche quando le storie d’amore sono destinate a sfaldarsi o a concludersi, anche quando l’amore coincide con la felicità (non sempre) o soltanto quando tutte quelle cose selvagge cominciano a correre veloci. Se in effetti il suo songwriting è, come scrisse una delle sue prime biografe Leonore Fleischer, una composizione che ritrae “la fragile natura del cuore e le complesse strade che prende nella sua ricerca di un altro cuore”, la declinazione non è stata univoca. Joni Mitchell è sempre stata salda e ferma nell’accordarsi alle proprietà di un linguaggio mutevole, preservando tutti i filamenti autobiografici, anche i più intimi e lancinanti, come ammetteva lei stessa: “Il dolore ha molto poco a che fare con l’ambiente. Puoi essere seduto nel più bel posto del mondo e non riuscire a vedere niente per il dolore. Nella mia vita ho affrontato molti miei demoni. Un sacco erano davvero stupidi, ma per me sono estremamente reali. Non mi sento colpevole per il mio successo o per il mio stile di vita”. La traduzione, cercandola dentro una canzone, la si trova in Talk To Me: “La mia mente cattura immagini, guida ancora i miei passi di danza anche se è coperta di piaghe”. Questa connotazione era già chiara a Lester Bangs, che sentiva in Joni Mitchell voce e canzoni “per i dolori occasionali e per le poche estasi della tua situazione privata e circoscritta”. Se la sua intenzione è stata quella di “fare musica abbastanza libera da poterla ballare”, con quell’istintivo senso per il ritmo non è riuscita soltanto a “comporre colonne sonore per i momenti di così tante persone”, come ha scritto Lisa Kennedy, ma ha saputo immaginarne i dettagli e le sfumature, attraverso una visione poliedrica dell’arte di raccontare l’amore, i suoi effetti collaterali e le sue controindicazioni. L’aspetto intimista e riflessivo che ricorre nei suoi temi non deve trarre in inganno, il tono è sempre affilato perché Joni Mitchell è “una donna di cuore e di mente” come si presentava nella sua stessa definizione e ancora nel 1996, pur coerente con un innato spirito libero e ribelle, e senza rimpianti, diceva: “Non sono io che sono diventata pessimista, io sono soltanto un testimone. Los Angeles è al centro del cambiamento. Adesso è una città pericolosa in cui vivere. In California, quando scrivevo le mie prime canzoni, c’era un clima del tutto diverso, la gente guidava in modo educato, la sera non si chiudevano a chiave le porte. Se tu mettevi la freccia a sinistra, la gente diceva: ma prego, vada pure. Adesso è una città dove guidano come pazzi. Se metti la freccia, credono che tu voglia superarli, e nessuno a Los Angeles si fa superare, da nessuno”. L’unica gioia in città resta sempre quel folle grido d’amore nascosto tra le pieghe delle sue canzoni e, fosse anche solo per quello, meriterebbe il Nobel pure lei.
lunedì 3 ottobre 2016
Ta-Nehisi Coates
Cresciuto
tra le gang di Baltimora, dove “la strada trasforma qualsiasi
giorno normale in una serie di domande difficili”, Ta-Nehisi Coates
si ritrova, adulto e genitore, a fronteggiare il terrore come prima,
unica e urgente forma di risposta alle necessità della vita
quotidiana. La deportazione, la schiavitù, la segregazione pesano
per secoli e secoli e, anche se è vero che “il furto del tempo non
si misura in termini di intere esistenze, ma di momenti”, le radici
sono avvelenate per sempre. Allora il padre si rivolge al figlio,
quindicenne, che deve diventare “un cittadino di questo mondo
terrificante e splendido” con una lunga lettera e gli dice, come
premessa: “Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti in cui
credi, devi ancora scoprire l’imbroglio che ci circonda”. La
dimensione del legame impone un tono accorato e Ta-Nehisi Coates non
si esime, ma essendo cresciuto nella trincea della sua pelle
americana Tra me e il mondo è diretto, estremo, impietoso.
Nella condizione di un popolo confinato nei ghetti, costretto a
misurarsi con i limiti imposti dall’odio e dall’avidità,
dall’ignoranza e dall’indifferenza è naturale vedere una
proiezione del futuro perché “la distanza è intenzionale come lo
è una legge, e l’oblio che ne segue. La distanza consente la
selezione mirata tra i derubati e i predoni, i contadini e i padroni
della terra, i cannibali e il cibo”. La linea è nitida, senza un
cedimento, senza forme consolatorie, nemmeno per rivendicare
un’appartenenza, nemmeno per salvare le apparenze, che ormai si
sbriciolano ogni giorno di più. Ta-Nehisi Coates sembra gridarlo,
mentre lo scrive in Tra me e il mondo: “La banalità della
violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa
proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la
più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione
solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i
terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà.
Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per
i propri errori umani”. La lettura è istintiva e immediata,
nonostante la complessità delle considerazioni di Ta-Nehisi Coates
perché la sua lucidità è un grido d’allarme, anche senza
volerlo: la tensione si scioglie soltanto quando ricorda la libertà
di un viaggio a Parigi, dove, nonostante l’invalicabile differenza
linguistica, si è potuto muovere alleggerito dall’angoscia di
essere identificato solo per il colore del suo corpo. Il perno, a cui
ruotano intorno tutte le frasi di Tra me e il mondo, è, di
fatto, la sospensione più o meno occulta di un diritto inalienabile
quale è l’habeas corpus. Ta-Nehisi Coates è soltanto un reporter,
non è un avvocato e nemmeno un giudice della corte suprema, ma è
proprio quello il solco scavato perché “gli americani hanno
letteralmente divinizzato la democrazia, eppure di tanto in tanto
l’hanno sfidata e oltraggiata, sebbene non se ne rendano del tutto
conto. Ma la democrazia è un dio misericordioso, e le eresie
dell’America, la tortura, il saccheggio, lo schiavismo, sono così
comuni negli individui e nelle nazioni che nessuno può
considerarsene immune” Se c’è una speranza è la consapevolezza
che “forse la lotta è tutto ciò che abbiamo perché il dio della
storia è ateo, e nulla del suo mondo è perché così deve essere”.
Non ci sono sconti, né al figlio, né a nessun altro. Anche davanti
a Ground Zero, l’epicentro del futuro, Ta-Nehisi Coates ricorda che
laggiù, a Manhattan, c’era il mercato degli schiavi di New York e
uomini e donne venivano venduti all’asta.
giovedì 29 settembre 2016
Bruce Springsteen
Più
che l’inevitabile memoir di una rock’n’roll star, più che il
racconto autobiografico di un ragazzo della provincia americana
“blinded by the light”, Born To Run è un complesso,
pensieroso e articolato trattato di resa di Bruce Springsteen con se
stesso e con i suoi demoni. Avendo passato una parte importante della
vita prigioniero di un sogno e tutto il resto ostaggio di quello che
ha creato, Springsteen si è sforzato di comprendere e poi accettare
che “per quanto lo desideri, e per quanto mi sforzi, non riesco
proprio a venire a patti con le cose come sono”. La
soluzione, in concerto, dove è più a suo agio, è una sorta di rito
collettivo che produce un’energia gioiosa capace di far rimbalzare
tuoni e fulmini. Nelle cinquecento pagine di un libro diventa più
difficile, anche perché è vero che “le storie vanno rivendicate:
con il duro lavoro e il talento ne nobiliti l’ispirazione, ti
sforzi di raccontarle al meglio, dichiari il tuo debito e la tua
gratitudine verso di esse. Ambiguità, contraddizioni e complessità
delle scelte di accompagnano nella scrittura come nella vita, e tu
impari a conviverci, ad assecondare il bisogno di instaurare un
dialogo con ciò che ritieni importante”. Essendo costruito attorno
all’irrisolto rapporto con il padre e per estensione all’infanzia
nel New Jersey, la prima parte di Born To Run resta la più
densa ed efficace dal punto di vista narrativo. Gli esordi sono
ricchi di volti, di storie, di spunti e il racconto di Springsteen è
ironico, picaresco, spesso romantico, anche se il tono non supera mai
il perimetro di quello che pare, a tutti gli effetti, un
confessionale a porte aperte. L’inversione comincia a metà corsa
dove Springsteen confessa di combattere da anni contro la depressione
che, a ben leggere tra le righe, è causa e insieme effetto di
un’irrisolta crisi d’identità. Il disagio serpeggia, “la
ricerca di un senso e di un futuro” dentro una faglia identitaria
molto movimentata, comprende, oltre ai conflitti personali, quelli
tra realtà e illusione, e, non di meno, i dubbi legati all’essere
americano. In effetti, come sostiene Springsteen “per sapere cosa
significa essere americani dobbiamo scoprire cosa significava
un tempo: solo rispondendo a queste due domande saremo in grado di
immaginare cosa potrebbe significare”. E’ più facile che
diventi presidente degli Stati Uniti che uno scrittore tout court: se
Born To Run non è il grande romanzo americano, Springsteen
era e resta un grande storyteller. La seconda parte, soprattutto
nelle ultime fasi, è più frammentaria, quasi meccanica nello
svolgere i brevi capitoli. Gli aneddoti non trovano sbocchi in una
trama più articolata, il linguaggio non si sviluppa e Born To Run
risulta, alla fine, un greatest hits di storie che ruotano attorno al
nucleo della contrapposizione tra l’età adulta e l’eterna
adolescenza del rock’n’roll, una guerra psicologica senza fine,
con l’ombra della depressione in agguato. Il contorno è la musica
ed è ancora una contraddizione perché quella invece è la sostanza,
il cuore di tutta la sua autobiografia, ma Born To Run è un
tentativo di rimuovere e ricollocare, aprirsi e nascondersi, sempre
con il timore di essere un enorme bluff e che all’orizzonte non ci
sia “nessun sogno, nessun futuro, nessuna storia”. Ci sarà un
motivo se “credibile” è una delle parole che tornano più
spesso. L’altra è “adorabile” e insieme formano un ritornello
che riappare con una frequenza regolare perché nel tentativo, anche
un po’ goffo, di rendersi accettabile, Springsteen intravede sempre
qualcosa di meraviglioso, e vuole bene a tutti (ma proprio a tutti)
perché si sforza di riflettersi negli altri, e di voler bene a se
stesso. Con la chitarra a tracolla, il trucco funziona (eccome).
Dentro le pagine di un libro è credibile, adorabile. La seconda più
della prima.
lunedì 19 settembre 2016
Joseph Heller
Quando
Tim O’Brien sostiene che “in una storia di guerra c’è un senso
connaturato all’importanza di vita e di morte, che altrimenti uno
scrittore dovrebbe costruire in altro modo”, definisce un perimetro
molto preciso, per certi versi persino ineluttabile. L’elemento
bellico è una distorsione permanente, dove è impossibile domandarsi
se “è realtà o un ricordo del passato”, come scriveva
Josip Osti in Il libro dei morti di Sarajevo. Solo così si
capisce il contorno della bellezza sottintesa da Comma 22:
“Ero l’eroe di un film”, dice Joseph Heller. E’ una
connotazione importante, per capire, in prospettiva, come si è snoda
la sua attualità, che è quella di un classico, e non è soltanto
perché la guerra è onnipresente nei secoli dei secoli. Ricordava E.
L. Doctorow: “Quando Comma 22 venne pubblicato la gente
sosteneva: beh, la seconda guerra mondiale non era certo così, ma
quando ci trovammo impantanati nel Vietnam quel libro divenne una
specie di manuale per la coscienza dell'epoca. Si sostiene che la
letteratura non sia capace di cambiare niente, ma è certamente in
grado di influenza la consapevolezza di una generazione”. Lo
è diventato perché attraverso Yossarian, il protagonista di Comma
22, Joseph Heller è stato ben più
che esplicito nel raccontare cos’è la guerra: “Ogni nuova
giornata rappresentava una nuova pericolosa missione contro la
mortalità”. Le storie degli avieri americani nei cieli italiani
sono narrate in modo lapidario, grezzo, senza alcuna correzione di
rotta: “Clevinger era morto. Ecco il difetto principale della sua
filosofia della vita. Diciotto aeroplani s’erano abbassati
attraverso una nuvola bianca e splendente poco lontano dalla costa
dell’isola d’Elba, mentre tornavano un pomeriggio dalla
missioncella settimanale a Parma; dalla nuvola ne uscirono
diciassette. Nessuna traccia fu mai trovata dell’altro, non
nell’aria, e neppure sulla superficie liscia dell’acqua verde di
sotto. Neanche un frammento di aeroplano”. Questa è la sfida
quotidiana e non c’è via di uscita perché la burocrazia e la
disciplina sono altrettanto spietate, come è ribadito dal Comma
22, ovvero “chi è pazzo può
chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di
essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. In effetti la
follia è un’altra e “quando arrivò il momento in cui il
colonnello Cathcart aumentò il numero delle missioni di volo
prescritte a cinquantacinque, il sergente Towser cominciò a
sospettare che forse ogni persona che indossava un’uniforme fosse
affetta da pazzia”. Joseph Heller non si esime dall’affondare
nelle radici con cui è alimentata la retorica perché quando non
basta la patria, c’è sempre il richiamo alla gloria, come spiega
il colonnello Korn: “Sai, questa può essere una soluzione:
gloriarsi di qualcosa di cui dovremmo sentire vergogna. E’ un
trucco che sembra riesca sempre”. Per quanto si cerchi di
mascherare l’effettiva consistenza della guerra, la conclusione è
sempre l’inevitabile sovrapposizione con la morte, che Comma 22
celebra con un’amarezza infinita: “C’era un tempo in cui
provavo grande soddisfazione quando riuscivo a salvare la vita di
qualcuno. Ora mi chiedo che dannato senso può avere, dal momento che
devono tutti morire una volta o l’altra”. Sulla scia di Comma
22, l’avrebbe ribadito Rodolfo
Fogwill in Scene
di una battaglia sotterranea, alla fine è il
destino, non la guerra, quello di cui stiamo parlando. Obbligatorio,
oggi più che mai.
martedì 6 settembre 2016
Ann Beattie
Le
Gelide scene d’inverno di Ann Beattie inquadrano, all’inizio
del 1975, la precarietà degli anni americani della sconfitta e della
caduta, quando tutti sembravano reduci, o dalla guerra, o da
Woodstock. Questa dimensione pubblica si riflette nel disorientamento
privato dei personaggi, a partire da Charles, il protagonista, che è
ossessionato da Laura, nel frattempo prigioniera del matrimonio con
Jim alias il bue (proprio così). Ogni rapporto è un’elisse che ne
comprime un altro e nelle Gelide scene d’inverno non c’è
spazio di manovra perché un insieme di solitudini non basta a
rappresentare una comunità. I tentativi di comunicazione sono tanto
insistiti e ripetuti quanto destinati al fallimento e le reiterazioni
di Ann Beattie funzionano come colpi di frusta e giri di boa. Non
soltanto ribadiscono intere frasi, ma portano il periodo, di
conseguenza il dialogo e quindi tutte le Gelide scene d’inverno
al livello successivo. Eppure, nonostante lo sguardo ravvicinato,
quasi intimo, come se Ann Beattie fosse proprio lì, in mezzo a ogni
singola discussione, “l’atmosfera è così impersonale” e sono
soltanto le canzoni a ristabilire un po’ di calore. Gelide scene
d’inverno è punteggiato in tutti i passaggi più importanti da
Janis Joplin, Bob Dylan, Elton John, Billie Holiday George Harrison,
Rod Stewart. Per quantità e qualità la colonna sonora ha un valore
determinante non soltanto perché “le canzoni non sono mai a
sproposito. Qualunque disco si stia ascoltando, le parole si possono
sempre applicare alla realtà”, ma soprattutto perché sottolinea e
intervalla un romanzo costruito quasi per intero sui dialoghi.
Altrimenti Ann Beattie è lapidaria, essenziale, fotografica. Un
esempio: “Charles raggiunge Susan alla porta, escono e si avviano
alla macchina. Charles nota che gli uccelli hanno finito tutto il
mangime e che dovrà mettergliene ancora. C’è da aspettarselo: uno
mette fuori il mangime, scompare, ne mette dell’altro, scompare, e
così via”. Anche l’uso del presente è spiazzante: Gelide
scene d’inverno è una lastra di cristallo, trasparente in
superficie, piena di schegge nei suoi angoli più remoti, e comunque
senza alcun filtro o protezione. Come ha ammesso la stessa Ann
Beattie nella prefazione: “Avevo sviluppato una passione per le
storie che si potevano leggere fra le righe e per le narrazioni che
risultavano fuorvianti, a volte per una scelta deliberata dello
scrittore, a volte semplicemente perché i personaggi non dicevano la
verità”. Gelide scene d’inverno resta complesso per il
carattere coraggioso, a tratti anche sperimentale e innovativo, delle
scelte di Ann Beattie e più che leggerlo, va studiato. Con un po’
d’attenzione, si capirà che è molto doloroso nel riflettere
l’amarezza di un’era, in fondo riassunta in una battuta di
Charles: “Certo che mi sento solo. Perché continui a
ricordarmelo?” La domanda, nel gioco di specchi delle Gelide
scene d’inverno, sembra persino rivolta ad Ann Beattie e la
risposta, visto che tutti stanno aspettando il nuovo album di Dylan,
rimane abbandonata nel vento.
giovedì 1 settembre 2016
Mike Davis
Un
personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve
storia dell’autobomba è esemplare
per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di
una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki,
ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un
anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel
1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo
stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è
morte”. C’è tutta la Breve
storia dell’autobomba in quelle
ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale
di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui
diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui
“conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La
puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte
dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda
nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un
romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo
efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il
sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è
indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici
dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles
Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il
contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta
all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e
tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non
distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve
storia dell’autobomba è evidente
che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e
l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive
con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno
“l’impressione di essere guidati simultaneamente da una
disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a
tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione
preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi
dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo
darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore
di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le
esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft
targets, porteranno sicuramente a
scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico,
funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati
storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la
riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima
di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una
nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata
sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la
meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi
bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve
storia dell’autobomba rivela “una
corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza
orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è,
nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta
speranza per il genere umano.
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