Partendo dall’idea che il linguaggio è “una
linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le
teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si
accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui
interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto
piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è
fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi
evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi
ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria
evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è
maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti
spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono
Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà
umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria
per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza
accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di
trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una
narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in
uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni
condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle
funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a
smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni
cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare
l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come
era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma
restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era
sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è
inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come
tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche
vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato
“l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi,
considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti
anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe
spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura,
anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante
problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle
parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica
del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi,
centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno
e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è
indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett,
già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare
tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il
linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era
evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto.
L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il
legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure,
aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che
rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e
calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga
diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi,
speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà
con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso
Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in
gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a
nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma
in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di
astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte
poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa
eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo
che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti
i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso
fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e
pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante
dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom
Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto
secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto
fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione:
“E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente,
l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha
trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale:
sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non
solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La
conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né
all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle
probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che
Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era
più che sufficiente.
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