mercoledì 20 novembre 2024

Tom Robbins

Irriverente e visionario come non mai, Tom Robbins costruisce un’articolata allegoria del potere e una parodia senza freni della ricerca di una vita per comprendere “il significato delle cose”. L’oggetto dell’estremo desiderio che coinvolge ogni protagonista di Profumo di Jitterburg è un profumo portentoso, rincorso da una variopinta umanità che va da una cameriera a Seattle a un immortale (o due) a Costantinopoli, da una regina di New Orleans a un uomo con una maschera da balena a Parigi, dato che “a questo mondo ci sono persone che posso indossare maschere a balena e persone che invece non possono”. La ricerca dell’essenza filtra attraverso i secoli così come negli spazi e sopra gli oceani: secondo la percezione di Tom Robbins “ci sono apertamente poche limitazioni di tempo o di spazio per i viaggi della psiche, e soltanto l’ispettore di dogana assoldato dalle nostre inibizioni pone limiti a ciò che ci si può portare dietro quando rientriamo nella quotidiana coscienza”. Le frontiere saltano subito: Kudra e Alobar, due personaggi centrali, “incerti, intrepidi, forse immortali, decisamente innamorati”, partono quando “la terra era ancora piatta e la gente sognava spesso di precipitare giù dal bordo”, passano per l’Himalaya approfondendo il Kamasutra e, in compagnia del dio Pan, vagano fino alla terra promessa, ovvero l’America. Nel frattempo passano i secoli e sull’affollatissimo palcoscenico di Profumo di Jitterburg vanno in scena Descartes, Einstein, Mary Quant, l’impero romano e il cristianesimo, l’estinzione dei dinosauri e di tutto e di più secondo l’insindacabile regola per cui “il mondo è un puzzle e la vita un cappio”. Per di più, allo spasmodico inseguimento del profumo si sovrappone l’apparizione delle barbabietole, un tubero con una sua peculiare caratteristica che, alla fine, sarà risolutoria. “L’aroma del paradosso” è il vero Profumo di Jitterburg, un romanzo caotico e scoppiettante che è un tutto: provocatorio e incongruente, ma con un suo specifico motivo, una mappa mentale che si dipana secondo progressi ineluttabili, ma anche imperscrutabili. Un ordine c’è ed è quello dello scrittore, della sua particolare percezione del mondo, capace di scompigliare le trame, quel tanto “da complicare un po’ la storia. Se a una situazione non si riesce a estrarre alcun lume, tanto vale estrarci un po’ di spasso”. Profumo di Jitterburg è un romanzo portentoso, che ribolle di comicità, erotismo, miti “che spiegano il mondo” e leggende che lo confondono. Ogni personaggio è “il re di se stesso” e, con ogni singola voce, si attorciglia attorno a una forma erudita e cosmopolita, eppure chiarissima e divertente. A volte fin troppo, e non è sempre agevole seguire il filo del discorso, ammesso che ce ne sia uno, ma il ritmo è pazzesco e coinvolgente. Digressione dopo digressione, Tom Robbins crea universi di parole, ben consapevole che “forse la cosa più terribile (o meravigliosa) che possa succedere a una giovane persona piena di immaginazione, a parte la maledizione (o benedizione) dell’immaginazione in sé, è venire a contatto, senza esservi preparata, con la vita al di fuori della propria sfera, l’improvvisa rivelazione che c’è per l’appunto qualcosa là fuori”. Il trucco è precipitare in libertà dentro una voragine di storie che si accavallano una sopra l’altra: Profumo di Jitterburg è un’odissea pan-aromatica e psichedelica nel senso più esteso del termine, con un gran finale nel carnevale del Mardi Gras, tra jambalaya e champagne, e non poteva esserci destinazione più accurata.

lunedì 18 novembre 2024

James Lee Burke

Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che Clete Purcel e Dave Robicheaux soffrono di disturbo da stress post-traumatico, maturato tanto in Vietnam quanto nelle strade di New Orleans. La città non aiuta e lo spiegava benissimo Tom Robbins quando dice che appena ci arrivi “qualcosa di bagnato e di scuro ti balza addosso e comincia a dimenarsi come un randagio in calore uscito dalle paludi”. L’unica possibilità di disfarsi di questo odore è adeguarsi, e mangiarlo e così si spiegano i numerosi pasti quotidiani di Clete e Dave, che sono poi i momenti principali in cui si ritrovano a confrontarsi con i rispettivi fantasmi. In questa osmosi di ruoli con Streak, Clete pare più riflessivo, anche se si dedica alla distruzione con il consueto tatto, compreso l’utilizzo, non proprio a norma, di una betoneria. È solo un episodio, il più delle volte va  dispensando un’inedita saggezza: “Vi spiego. Disorienta il tuo nemico. Fai l’inaspettato. Se non funziona, non fare nulla. Lascia che il silenzio sia la tua arma. Il punto è confondere il nemico e fargli rivolgere le energie contro se stesso. Non è difficile. Il colpo migliore nella boxe è quello che eviti”. I tentennamenti di uno e i black-out dell’altro li conducono a incrociare uno sciame di forze maligne che coltivano ancora l’oppressione, lo sfruttamento, la violenza come strumento di un potere assoluto e feroce, nascosto dietro paraventi di affettata cortesia e antico galateo. I Bobbsey Twins si trovano a combattere tra Hollywood e il Ku Klux Klan (o qualcosa di peggio) e la vera lotta, mostri, allucinazioni e veleni a parte, è contro l’ipocrisia dato che “la Louisiana meridionale è il paradiso, a patto che si chiuda un occhio e non ci si soffermi sulla corruzione, che qui è uno stile di vita”. Il nemico è sfuggente e pericoloso. Non manca la femme fatale di turno, ma sono altre le figure femminili che si impongono per il coraggio, la forza, la determinazione, a partire da Giovanna D’Arco, le cui apparizioni punteggiano tutta la trama di Clete. L’elemento soprannaturale e/o fantastico, non insolito nei romanzi di James Lee Burke, distingue in modo particolare la visione di Clete Purcel che è nella stessa prospettiva di Streak, solo che cambia l’approccio. Però, dai e dai, i due prima si completano e poi si sovrappongono e così Clete è il riflesso naturale di New Iberia Blues o Una cattedrale privata, una celebrazione infinita della saga e la doverosa affermazione di Clete Purcel, un personaggio che deve essere sfuggito di mano a James Lee Burke e che si concede più di una confidenza (e figurarsi se non può permettersela). Clete Purcel si rivolge a tutti, anche ai lettori trascinandoli in un gorgo ipnotico e avvincente. Business al usual, d’accordo, ma come i piatti saporiti e succulenti della cucina sudista, c’è molto da gustare: la vista dello scenario resta uguale per entrambi e New Orleans  e gli altri distretti della Louisiana sono parte di un ecosistema fragile e unico, sospeso tra la terra e l’oceano che hanno un loro punto di incontro nel bayou. Albe e tramonti nelle sfumature variopinte della luce contribuiscono in modo determinante alle suggestioni del romanzo e ipnotizzano Clete e Dave non meno di James Lee Burke. Poi, “è solo rock’n’roll. Tutti arrivano alla stessa destinazione. L’importante è come ci si arriva”. Si era capito nella dedica a Nils Lofgren, dalla citazione illuminante di Light My Fire dei Doors, a quella, non meno importante, di Promised Land di Chuck Berry, ma l’apoteosi è riservata a Bob Seger che, en passant, viene definito il più “grande filosofo americano”. Mai avuto dubbi, ma è bello vederlo scritto nero su bianco.

lunedì 11 novembre 2024

Edward Bunker

Come scrive James Lee Burke, “il punto non è la reclusione; è l’umiliazione. È la perdita instantanea dell’identità e della dignità”. La rassegnazione della vita in carcere è tutta lì: il rapporto con i secondini e con la burocrazia, le gerarchie dentro le mura, le divisioni e i conflitti razziali, l’idea fissa dell’evasione, i rapporti alterati dalla paranoia, e comunicazioni attraverso le tubature dei cessi, l’equilibrio (si fa per dire) tra punizioni e concessioni, le risse e le rivolte determinano la pena quotidiana di Animal Factory, ovvero San Quentin, e rappresentano un cupo capolinea senza alcuna umanità, solo giorni che si consumano nel nulla. Ronald Decker, giovane e inesperto spacciatore, al suo debutto nel sistema carcerario, trova una sponda inaspettata e fortunosa in Earl Copen, un veterano inserito alla perfezione nelle dinamiche della galera. Il primo incontro avviene nel corso di uno sciopero che mette subito in risalto le tensioni che vedono tra scontrarsi tra loro masse di detenuti poi destinati a soccombere con l’intervento delle guardie che sparano con tutto quello che hanno a disposizione. Nessuna pietà: Animal Factory (nella traduzione di Fabio Zucchella) è governato da forme di violenza che si propagano in ogni direzione, spesso con l’aggravante sessuale. Ron è una preda facile della “definitiva mancanza di significato della vita in un universo differente” e l’amicizia in carcere può essere equivoca, come qualsiasi altra cosa. Ogni aspetto legato ai rapporti umani è compresso in un’infinita paranoia e “dopo un po’ impazzisci e fai cose che non dovresti fare”. Earl Copen conosce bene le dinamiche, e sa che “tutto quello che ha un uomo in prigione è la reputazione con i compagni” ma per qualche motivo, più di tutti il bisogno di covare ancora un briciolo di speranza, si avvicina a Ronald Decker e lo aiuta a sopravvivere nel contorto recinto di San Quentin che “era qualcosa in più di un luogo murato; era un mondo alieno di valori distorti, governato da un codice di violenza”. Non esiste definizione più accurata di questa. L’ambiguità, l’altra faccia della paranoia, è costante. Gli accoltellamenti dettano cicli di guerra e pace, domina il razzismo “che andava al di là del razzismo per trasformarsi in ossessione da entrambe le parti”. Mentre le residue aspettative sono affidate alle pronunce di un giudice, di una commissione o di un ufficiale, ma il più delle volte gli appelli finiscono nei vicoli ciechi della burocrazia, i detenuti si industriano in traffici e intrighi ma “è già un lavoro a tempo pieno rimanere vivi”. Sfiancati dall’isolamento, Earl e Ron decidono di evadere, aiutati da mezza prigione e da lì in poi il destino resta un’incognita. Attorno a loro due, Edward Bunker in Animal Factory scrive un diario dal carcere episodico e graffiante che non fa sconti in nessuna direzione. La brutalità è condivisa dal potere così come dai condannati. Non c’è tregua e anche uno come Earl, che vanta esperienza e stile, non è mai al sicuro e se “la routine è la chiave per sopravvivere alla prigione”, è anche il tedio che affossa ogni ambizione. La conoscenza di Edward Bunker della materia carceraria è minuziosa e dovuta all’esperienza, quindi di prima mano, comprese le fragili forme di amicizia e le difficoltà nello stabilire rapporti di fiducia. L’interno della prigione è visto come se fosse sotto una lente di un microscopio: i rapporti di forza sono letti attraverso un linguaggio scarno e spontaneo che segue le ombre ben oltre oltre le mura di San Quentin o Alcatraz o qualsiasi altro penitenziario. Fuori, secondo uno che “si è fatto quarantasei calendari”, Charley Fitz, “non è cambiato un accidente di niente. Forse si muovono un po’ più in fretta, ma è sempre la solita merda”. Durissimo, ma sincero.

lunedì 14 ottobre 2024

Kurt Vonnegut

In Barbablù, Kurt Vonnegut tocca un tasto delicato, quello dell’arte moderna, e lo fa con la consueta e sperimentata ironia, ma anche con cognizione di causa nel descrivere le traiettorie dall’ispirazione artistica al mercato, con tutte le deviazioni e le intersezioni possibili e immaginabili in mezzo. Barbablù, metafora ideale per mettere a fuoco le idiosincrasie verso il mondo femminile del bizzarro protagonista, si snoda a modo suo, un po’ attingendo al passato, un po’ volgendosi al presente. Non ha proprio uno schema preciso, se non il libero fluttuare dell’autobiografia di Rabo Karakebian che non perde tempo in convenevoli e si dichiara ben presto così: “Il problema sono io. Io non sono un uomo presentabile”. Esatto, e seguirlo è un po’ una sfida perché si lascia trascinare nelle situazioni più improbabili e curiose e qui entrano in scena le donne: Dorothy, la prima moglie, Edith Taft Fairbanks (dal secondo e più fortunato matrimonio, con cui ha ereditato una fortuna, compresa la magione sull’oceano), Circe Berman alias Polly Madison, scrittrice che arriva senza preavviso e gli stravolge la vita,  Allison White, la cuoca (nonché la figlia).  Hanno tutte qualcosa da ridire, sul suo conto, forse anche perché il suo cuore è rimasto invischiato nella relazione con Marylee, concubina di Dan Gregory, “il massimo artista vivente”, a sua volta pittore, illustratore e mentore. Con lei, la vicenda impone una serie di balzi nel passato (Dan Gregory e il suo assistente Fred Jones uccisi in Egitto con uniformi italiane, tutta un’altra storia) e rimbalzi in avanti (Marylee eredita un intero palazzo a Firenze), ricordando che “era un’epoca di imperi, quella. E anche questa lo è, neanche tanto ben camuffata”. La trama prende forma con il discorso e i ricordi di Rabo Karakebian la cui origine armena dissemina contatti e riferimenti per tutto il globo. È un bravissimo disegnatore, ma non è un pittore. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato un esperto di mimetismo, una dote che torna utile all’istinto di sopravvivenza. È attorniato da una danza di fantasmi che comprende Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem De Kooning, ma anche mecenati, scrittori, fattorini, critici & mercanti, spie, insegnanti, giardinieri, parenti. Gente che sembra avere una stazione radio in testa e che nelle loro gesta ricordano che “la più diffusa malattia d’America è la solitudine”. Gli uomini sono tutti un po’ fuori strada: Dan Gregory e Fred Jones a parte, bisogna contare almeno Terry Kitchen e Paul Slazinger (amico  e scrittore in crisi profonda) che ha la spontaneità di ammettere: “Io ho tentato e ho fallito, quindi ho fatto piazza pulita: adesso tocca a voi”. Sono tutti fotogrammi in movimento perché “era ed è tuttora facile, per buona parte degli americani, recarsi da qualche altra parte e ricominciare daccapo” e Vonnegut scalpitante, amaro e ironico nello stesso tempo, cerca di mettere un po’ di ordine nel caos di Barbablù a modo suo, ovvero rendendolo ancora più eccentrico e interessante. Le iperboli e le digressioni a raffica lo trasformano un rompicapo, una suite jazzistica, un’irriverente cronaca dal mondo dell’arte, dove il sottinteso è che, a confronto di musica e pittura, in particolare nella declinazione astratta ed espressionista, la scrittura, fra tutte le forme d’espressione, è la più faticosa, solitaria e silenziosa, ma è anche l’unica che concede il diritto della parola e del dubbio e permette a Paul Slazinger di dire, che “la condizione umana può riassumersi in un’unica parola. E questa parola è: imbarazzo”.  Barbablù è un libro per esperti di Vonnegut, che è sempre lucido, ha un metodo nella sua follia e il più delle volte esibisce il dono della chiarezza senza patemi e con un sorriso contagioso. In Barbablù però è necessario assecondarlo da vicino e non ci sono subordinate: solo il ritmo incessante del geniale e spumeggiante sproloquio di un clamoroso outsider, capace di tenere nascoste le sue opere migliori in un patataio.

domenica 13 ottobre 2024

Howard Fast

Il principale protagonista tra Gli emigranti, Dan Lavette, è un esemplare di tutto rispetto del mito del self made man: capace di sfidare eventi di proporzioni catastrofiche (incendi, terremoti, maree, guerre) per affermare l’assioma per cui con il duro lavoro si può ottenere tutto (o quasi), per poi restare incastrato nelle pieghe di un tortuoso matrimonio. La trama è tutta qui, ma la sua arrampicata sociale parte dalla traversata oceanica, passa da un’umile barca e arriva a gestire flotte di aerei e di navi, finché nel 1929 arriva uno di quei diluvi a cui non c’è riparo. Dan nel frattempo deve reggere il connubio con Jean Seldon, unica ereditiera di una ricca famiglia, e la liaison con May Ling, figlia del suo capo contabile e architetto finanziario. Il destino personale e quello aziendale vanno di pari passo nella convinzione di marciare spediti, parole sue, “verso la vetta di questo mucchio dorato di merda che chiamiamo i grandi affari”. Howard Fast riesce a mantenere un certo equilibro tra gli psicodrammi coniugali (con Jean Seldon più volitiva che mai) e le cronache dei tempi moderni con tutte le trasformazioni tecnologiche e i passi storici (la prima guerra mondiale, soprattutto) che hanno distinto gli anni dal 1888 al 1933, l’arco temporale su cui si dispiega Gli emigranti. È una bella panoramica, camuffata dentro le singole esistenze: anche i personaggi secondari che ruotano attorno a Dan Lavette rivestono un’importanza non relativa che gli viene attribuita con cura da Howard Fast e così Gli emigranti, oltre a offrire uno spaccato credibile dell’America (in particolare della California) a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, concede tutto lo spazio necessario alle sfumature emotive dei suoi protagonisti. Gli uomini e il lavoro, le donne e la famiglia: Gli emigranti ha un suo schema preciso che Howard Fast illustra con una scrittura figurativa, modesta nelle intenzioni eppure efficace nel mostrare le contraddizioni della società americana, della costruzione dei capisaldi del mercato e del suo dissolversi, improvviso ma non imprevedibile, che ha travolto ogni cosa, anche “tutti i re senza corona”. La rappresentazione dei conflitti è multiforme, anche se il livello resta appena sopra la linea di navigazione, tra “l’elemento romantico e romanzesco”, come lo definisce lo stesso Howard Fast. Con il progredire della storia, le tensioni personali sostituiscono quelle sociali, anche se tra razzismo, proibizionismo e rivendicazioni sindacali si dipana una sorta di storia parallela dell’America. Gli episodi si sprecano e si inanellano uno all’altro, anche alla fin fine a tenere banco è ancora la differenza di rango tra Dan Lavette e la moglie (e i figli), una condizione critica che non concede una seconda chance.  C’è un particolare garbo nel racconto di Howard Fast, uno stile che ha una gentilezza, anche nell’affrontare i momenti più difficili e torbidi e con cui riesce ad appassionare: Gli emigranti è un romanzo che ha una sua logica e una sua bellezza, anche se non riesce a scalfire in profondità i contrasti che racconta ed è così fino al finale che, troncato di netto, lascia molto in sospeso.

giovedì 10 ottobre 2024

David Joy

Il contesto è quello frammentato dell’America odierna, attraversata da faglie che non riguardano soltanto il bianco e il nero, o altre scomposizioni razziste, ma anche la geografia, tra il nord e il sud, e la storia e/o il tempo, tra passato, presente e futuro. Come direbbe Ta-Nehisi Coates c’è “un conto ancora aperto”, e non c’è dubbio, solo che il passato non si può rimuovere a senso unico: ogni rimozione necessita un nuovo ordine, ma il più delle volte, tanto per cominciare, sviluppa solo un certo grado di caos. Per la Carolina del Nord, la guerra di secessione pare non essere finita mai e così “per alcuni gruppi, in America, il trauma era una sorta di eredità” e, quasi come un principio fisico, il destino di Toya Gardner, giovane artista, è segnato nel momento in cui vuole ricordare un minimo di giustizia, se non altro a livello simbolico. In quel preciso momento nella piccola cittadina, tutti si accorgono che “il mondo era certamente spaccato in due, ma distinguere chi stava da una parte e chi dall’altra non era bianco e nero. Era grigio, e il grigio era il colore più spaventoso perché spesso non si riusciva a individuarlo”. Quando ai margini di una manifestazione di protesta attorno a una reliquia confederata, Toya scompare, sulla small town cala una sudario pesante. Il dilemma che investe lo sceriffo John Coggins, che si sta avviando alla pensione, è una linea di demarcazione netta: è amico di Vess, la nonna di Toya (era un compagno di avventure del marito) e qui le cose si complicano perché il divario tra bianco e nero, almeno in apparenza, viene mitigato. A ben vedere, un’altra divisione, quella tra uomini e donne, diventa palpabile, ed è anche la chiave di volta del romanzo di David Joy. Da una parte la madre e la nonna e la madre di Toya nonché la detective Leah, dall’altra un’ondata maschile. Questa, nonostante tutto, si rivela la frattura più plateale: le donne studiano, lavorano, cucinano, preservano il raccolto degli orti, osservano e ascoltano ed è così che arrivano fino alla fine. Gli uomini cacciano, pescano, soppesano le armi, bevono (troppo). Poi “quelli che pensavamo di conoscere” sono un’altra realtà, si nascondono dietro cappucci bianchi, sono politici e furfanti, due categorie ormai inseparabili, e alla fine è più accettabile il personaggio di William Dean Cawthorn, una figura sfuggente e pericolosa che non sarebbe una sorpresa ritrovare più avanti, implicato in altre storie. Sta dalla parte sbagliata, ed è evidente fin dall’inizio, ma almeno non ha bisogno di mascherarsi. Questo ha un doppio valore perché laggiù “la vita era sempre stata questione di collocare le persone. Sapere da chi e da dove veniva qualcuno ti diceva tutto quello che c’era bisogno di sapere”. La famiglia, l’amicizia, i luoghi (il fiume, soprattutto) diventano la mappa risolutiva e David Joy precisa che “era sempre stato così, un luogo che sembrava perfetto e incantato, il tipo di comunità affiatata che il resto del mondo aveva perso da tempo”. Tocca proprio a Leah “una vulcanica agente”, che lo stesso Coggins ha promosso a detective, a smuovere le acque, anche se coraggio e convinzione la porteranno a setacciare l’intera contea, ma non a vedere oltre la nebbia di contrasti e conflitti. David Joy (che ha già mostrato in Queste montagne bruciano e Dove tende la luce una certa sensibilità per temi attuali e delicati) riesce a collocare nella sua storia abbastanza personaggi per rappresentare un quadro completo delle tensioni americane del ventunesimo secolo, una rappresentazione che tra l’altro Quelli che pensavamo di conoscere condivide con Il sangue dei peccatori di S. A. Cosby. C’è una certa familiarità tra i due romanzi, a partire dai dualismi e dalle contrapposizioni nonché dagli effetti di un passato che ha lacerato la nazione, e che continua a spaccarla, mentre l’identità, e la salvezza, è ancora, come si dice in Quelli che pensavamo di conoscere, “in base al posto da cui provengo e a ciò che mi è stato raccontato per tutta la vita”. Consigliatissimo.

mercoledì 2 ottobre 2024

Richard Ford

Per Frank Bascombe si tratta di “un ultimo tentativo di felicità”: in Per sempre, il personaggio di Richard Ford, all’ennesima svolta della sua esistenza, si trova ad affrontare una prova definitiva. Il figlio Paul, già protagonista durante Il giorno dell’indipendenza, è ormai un malato terminale e Frank, nei giorni intorno a san Valentino, lo convince a intraprende un viaggio verso Mount Rushmore. È il rapporto padre/figlio, come un segmento significativo a diventare un laboratorio di emozioni che vengono distillate da Frank Bascombe con una voce ipnotica, mai invadente, quasi un fruscio perché “essere padri è una lotta, in qualunque lingua”. Paul, un tempo un adolescente fragile, è diventato un adulto ancora più complesso e aggravato dalla sclerosi laterale amiotrofica. Fin da bambino, è stato “un abile artista della fuga dal grigio quotidiano”, e tale è rimasto, tanto da apostrofare il padre con un altro nome (“Lawrence”) e di definirlo senza mezze misure: “Sei il mio stronzo preferito”. Detto questo, Frank è tenace quanto basta da trascinarlo su un camper per la loro piccola odissea. La destinazione, è facile intuirlo, è relativa, dato che “si parte con una meta ma poi si finisce chissà dove”. La “logistica umana”, strana materia che affascina Paul, sulla strada, da un motel all’altro, parcheggio dopo parcheggio, diventa una sorta di ordalia, per entrambi: le fibrillazioni diventano più acute, quasi dolorose, e ogni tappa, ogni piccolo episodio on the road si caratterizza per le reazioni di Frank e Paul. Le situazioni vanno dal comico al tragico e la tensione tra padre e figlio è ai massimi storici, così come quella con l’intero mondo là fuori. C’è un legame da riparare e succede nei luoghi più improbabili, come ammette Frank: “Noi due ci troviamo bene in un centro commerciale. Anche se in molti luoghi pubblici, e per motivi più che giustificati, ho ormai la sensazione che qualcuno da qualche parte stia per spararmi”. Un mood che si riflette nella desolazione suburbana dell’America moderna: centri massaggi, concessionari, sportelli bancari e tavole calde sono la cornice tale da convincerli che “tutte le metropoli e le cittadine sopravvivono e prosperano orientando il comportamento umano verso un’idea generica e artificiosa”. Quello che succede nel tragitto verso “un’istituzione posticcia” come il Mount Rushmore ed è un tentativo di aggrapparsi al parossismo delle suggestioni e delle inquietudini per cercare un significato di fronte alle “imponderabili circostanze della vita”. La strada offre molte occasioni e tra i viaggiatori si sviluppa, con molta fatica, una complicità che deve tenere conto delle telefonate, tra cui quelle complicaet con Clarissa (la figlia), degli incontri e più di tutto del fatto che “la casualità, in altre parole, va bene in qualunque dose riesca sopportabile. Ma a un certo punto è meglio, forse necessario, fissare ognuno le proprie coordinate”. Il contesto, nonostante l’ampiezza delle praterie americane, resta limitato e alla fine è più utile a tutti e due accontentarsi, tanto che, all’alba, “la novità della giornata e il bel tempo bastano già a rendere tutto un’avventura”. Il vero motivo che Per sempre mette in chiaro, permette di rivedere tutta la storia di Frank Bascombe, tornando fino a Sportswriter: “Dare un senso alle cose è un processo inesauribile di riordino e di ri-riordino. Un processo che per natura è provvisorio e che ben presto soppiantiamo con qualcosa di meglio”. La continua introspezione di Frank Bascombe arriva a livelli critici, con “l’età”: Per sempre è contorto, prolisso, eccessivo, perché, davvero, “a volte guardiamo la vita troppo da vicino”, ma è anche intenso, coerente e coraggioso nel raccontarla. E pochi scrittori, soprattutto in America, hanno saputo affondare nella sfera intima e personale come Richard Ford, che attraverso Frank si concede persino una battuta tanto autoironica quanto memorabile: “Leggere libri lunghi, complessi e incomprensibili per isolarsi dalla cattiveria e dall’ingiustizia arbitraria del mondo ha i suoi vantaggi”. Il segreto, se ancora ce n’è uno, è tutto qua.

mercoledì 18 settembre 2024

Henry Miller

Già nelle prime pagine, nella distinzione tra Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, è evidente il tentativo reiterato di “conciliare gli aspetti apparentemente contraddittori di un uomo come me, che nella sua opera scritta ha sempre cercato di versarsi completamente e senza riserve”. Henry Miller parte da se stesso, come ha sempre fatto, e si avvia ad allargarsi a un visione universale perché “anche se non lo confessa, l’artista è ossessionato dal pensiero di ricreare il mondo per restaurare l’innocenza dell’uomo. E inoltre sa che per l’uomo l’unico modo di ritrovare l’innocenza perduta è di riconquistare la propria libertà. Libertà in questo caso significa morte dell’automa”. È così che il sesso è solo un trampolino di lancio per una riflessione più ampia (e nello stesso tempo circoscritta) sulle aspirazioni e sulle esigenze degli esseri umani. Henry Miller è molto lucido nell’affrontare il tema dei rapporti tra uomo e donna, ma li inserisce in un contesto più ampio di rapporti con il mondo, con l’essenziale, con la vita stessa. Quando parla di sesso in modo esplicito, Henry Miller non concede nulla alla censura: siamo nel 1959 e il politically correct non esisteva, per cui Il mondo del sesso è quello che è, compresi i dettagli anatomici, dissertati con gusto, e le relazioni pericolose a Parigi. Il nesso tra sesso e desiderio, dove quest’ultimo è l’elemento dominante, è un nucleo magnetico e Henry Miller ricorda che “dovunque siano un fiume, una piazza di mercato, una cattedrale, una stazione ferroviaria, una casa da giuoco, cova questo fuoco di palude che aggruma il sangue e secca la bocca”. Un punto di vista originale che nasce da una condizione particolare: “Quando sono solo, e cammino per le strade, mi prende il senso delle cose: passato, presente, futuro, nascita, rinascita, evoluzione, rivoluzione, dissoluzione. E il sesso, in tutto il pathos psicologico”. La svolta avviene proprio lì, in quel momento e se “l’amore, quando capita, è una cosa da mandare avanti dietro le quinte”, la sua conclusione è che “finché non ammetteremo che la vita è fondata sul mistero non capiremo nulla”. Henry Miller, pur sfoggiando capriole su capriole di digressioni e iperboli, si conferma più preciso che mai e oltrepassata la metà, Il mondo del sesso svolta verso una possibile definizione dei parametri che definiscono l’esistenza a partire dal fatto che “soltanto in certi momenti imprevedibili noi siamo completamente intonati, completamente ricettivi e dunque nella disposizione migliore per accogliere i favori della fortuna”. Questa collocazione è ribadita nel dettaglio tenendo presente che “i fatti cruciali e veramente cardinali che danno un’impronta alla nostra vita sono frutto del silenzio e della solitudine” e, di riflesso, che “noi ingombriamo la terra con le nostre invenzioni, senza pensare che forse sono inutili, o dannose”. È un modo di ricordare le possibilità della persona, dentro Il mondo del sesso e altrove, e ovunque, visto che “gli atti sensati non richiedono agitazione. Quando tutto crolla, la cosa più ragionevole da fare forse è di stare fermi. L’individuo che riesce a capire e ad esprimere la verità che ha in sé, può ben dire di aver compiuto un’impresa più grande che la distruzione di un impero”. Questo è possibile secondo Henry Miller perché “dopo tutto, il mondo in cui abitiamo non è che l’immagine riflessa del caos esistente dentro di noi”. Non è soltanto, è evidente, Il mondo del sesso a cui fa riferimento: è un’entità da scoprire che appartiene a tutti e “anche gli sfortunati, i derelitti hanno diritto a dir la loro, ogni tanto. Nessuno è troppo piccolo o troppo vile per essere ignorato”. I limiti, cerca di spiegare con insistenza Henry Miller sono altri: “A sbarrare la strada dell’uomo non ci sono che le sue fantomatiche paure. Il mondo è la nostra casa, ma noi non ne abbiamo ancora preso possesso; la donna che amiamo ci attende, ma noi non sappiamo dove trovarla; il cammino che cerchiamo ci sta sotto i piedi, ma non siamo capaci di accorgercene”. Questa è la vera questione e proprio dove si scopre che “quel che conta è il miracolo che si fa norma”, Il mondo del sesso si rivela molto di più del suo titolo.

lunedì 9 settembre 2024

Joan Didion

La vita lungo il fiume scorre tranquilla per la borghesia californiana, erede dei pionieri e proprietaria terriera. Tormentati dalla noia, dai rimpianti, dalle istituzioni (famiglia, governo, esercito, chiesa, sindacati, stampa) dall’incombere della seconda guerra mondiale, uomini e donne di una generazione in “uno stato di crisi privo di una ragione precisa”, bevono (in continuazione) sherry, vermouth, bourbon mentre coltivano i loro piccoli e grandi drammi esistenziali, che vanno dall’impellente necessità di godersi l’alcol  (“Per tutte le delizie mortali. Ora vediamo se rimediamo un drink prima di pranzo. Forse hai bisogno di fartene uno. Forse anche due”) all’omicidio. Anche se Joan Didion nel progredire di Run River lascia intravedere spesso e volentieri “uno squarcio nel tessuto sociale”, con la trasformazione della California da terra promessa per tutti a paradiso e inferno della speculazione edilizia, la sua osservazione è rivolta con ossessiva attenzione alla parallela evoluzione di un generale e incontrollabile desiderio, spesso fine a se stesso, fino a un esaurimento nervoso collettivo. È il sogno del West incrinato da un’aria di decadenza morbosa, come se le regole stessero svanendo insieme a un vecchio mondo, ovvero “un impero effimero, bisognoso di continuo controllo, di manovre a ogni frazione di secondo”, e questo riguarda in particolare i fragilissimi esseri umani che lo popolano. Lily, la ragazza con la spilla da balia negli occhiali, è senza dubbio il centro della gravità, ma spesso Joan Didion sposta il peso del groviglio di storie sul marito Everett passando quindi al setaccio non solo le dinamiche marito/moglie, ma anche quelle fratello/sorella, genitore/figlio e amico/amante. Gli incontri (e gli scontri) sono un po’ a geometria variabile ma tendono a ripetersi e Joan Didion si concentra su ogni scena (che poi è un cocktail, un party o un brindisi solitario) con la stessa, premurosa considerazione. L’effetto è un po’ straniante: Run River pare soltanto una lunga teoria di appuntamenti perché, nonostante i vincoli, sono estranei gli uni agli altri e la finzione, per sopportarsi nel “fronte domestico”, è all’ordine del giorno. Sia che si tratti dei preparativi per la festa di nozze (e nessuno da invitare) o di essere richiamati nell’esercito, quello che condividono è soprattutto un mood malinconico, “snervante” per le assenze e per le ingombranti presenze. È un teatro amaro, costruito su “un’improvvisazione basata su una battuta d’entrata che un giorno non avrebbe sentito, su caratterizzazioni che poteva dimenticare in ogni momento” dove il “il sorriso più che altro è un tic” e tradimenti, fughe, scenate e riconciliazioni si susseguono senza sosta finché tutti insieme non collimano in “un’unica caduta di stile”. La tragedia della decadenza non si può dissimulare e Joan Didion ha, già all’esordio, la straordinaria capacità di rendere “un vuoto che neutralizzava qualsiasi apertura, ovattava le voci, dissolveva le connessioni”. Certi arabeschi, con un’insistenza maniacale nella ricerca del tono giusto, l’abbondanza delle parentesi e delle reiterazioni che Joan Didion in seguito avrebbe limato e raffinato, e basta pensare per esempio a Democracy, non tolgono nulla a Run River che, con “una piacevole sensazione di discreta licenziosità”, racconta bellezza e tormento californiani, dove la famosa seconda chance non è prevista. L’influenza di Fitzgerald, neanche tanto nascosta (un indizio palese è che un antenato di Everett si chiama Francis Scott), e il richiamo a Čechov delimitano il perimetro in cui è nato Run River, l’inizio di una grande carriera. 

venerdì 6 settembre 2024

Silas House

Quando si raggiunge Il punto più a Sud restano dei punti interrogativi che toccano l’interpretazione del ruolo di genitore, il peso della fede e delle religioni, l’intervento delle istituzioni e degli strumenti di comunicazione moderni nei rapporti affettivi. Un sacco di domande che Silas House lascia scorrere nella storia degli Sharp, Archer (padre, professione: pastore evangelista) e Justin (figlio) uniti in una fuga imprevista e precipitosa. Partono da una piccola realtà rurale del Tennessee sconvolta da un’alluvione. La famiglia Sharp si è salvata e si è prodigata per i vicini. All’appello manca soltanto il cane, Roscoe, e Justin, che è un bambino piccolo per la sua età, ma particolarmente sensibile, è andato cercarlo ma dal diluvio sono emersi, Stephen e Jimmy, bisognosi di un approdo asciutto. Salvo i primi soccorsi, la moglie Lydia, molto osservante, non li ha voluti ospitare perché sono gay. Da lì si rompe qualcosa, la fede diventa una costrizione e il pastore Sharp in rapida successione lascia il gregge e la famiglia. A partire dal suo discorso di commiato dalla congregazione, volto alla tolleranza, alla comprensione e alla condivisione, subito ripreso dai social, ma l’eloquio non è gradito né dalla consorte, né dalla congregazione e Archer sceglie di andarsene, ma con la paura che Justin possa diventare “come chiunque altro in questo mondo cinico e noioso, che si perde la meraviglia di ogni cosa”, decide di portarlo con sé. La meta è Miami in cerca del fratello Luke, anche lui a suo tempo vittima del pregiudizio e dell’indifferenza. Da padre a “ladro di bambini”, è un attimo: i tribunali, gli avvocati, la chiesa non considerano le emozioni, Asher è consapevole che la sua dimostrazione d’amore sarà condannata e derubricata a reato penale, ma ormai si sono avviati lungo “una strada senza uscita o a un inizio tutto nuovo”. L’affetto filiale nelle lunghe tappe on the road suggerisce una riflessione sullo stesso legame tra padre e figlio che animava La strada di Cormac McCarthy. La differenza (anzi, proprio il contrario) è che da una parte era una forma di protezione dal caos, mentre in Il punto più a Sud è una difesa dalla cosiddetta normalità e dalla burocrazia dei palazzi di giustizia e delle chiese. Mentre scorrono le canzoni di Patty Griffin, My Morning Jacket, Sinead O’Connor e Justin canticchia ritornelli di Tom Petty, la differenza tra il Tennessee e la Florida emerge non soltanto nei contrasti ambientali che Silas House tratteggia con scrupolo e con un’attenzione fuori dal comune. Non sfugge il capovolgimento simbolico dell’acqua, da spaventosa ferita nella terra, nell’esondazione del fiume, agli spazi infiniti e alla luce del mare. La parte più consistente del romanzo si svolge proprio davanti all’oceano, dove Asher e Justin infine trovano un modus vivendi e un faticoso equilibrio. Si accontentano dell’ospitalità di Bell, che canta le canzoni di Joni Mitchell, offrendo in cambio quel poco che riescono a fare e accudiscono Shady, un randagio adottato lungo la strada. Il nucleo che si crea, comprensivo di Evona, pur in tutta la sua fragilità somiglia molto di più a una famiglia, in particolare quando ricordano che “a volte si ride e a volte si piange, e finché siamo vivi possiamo affrontare tutto il resto”. A quel punto, e siamo alla fine, Silas House è stato troppo preciso e dettagliato per concedere un happy end, ma se non altro nella logica conclusione che spetta ad Archer (soprattutto) e a Justin lascia intuire la speranza che, pur con tutti gli errori e le penalità, qualcuno in fondo abbia fatto la cosa giusta. Le questioni restano tutte aperte: Il punto più a Sud ha pure il merito di non collocare risposte preconfezionate, lasciandoci intendere non tanto che bisogna scegliere da che parte stare, ma che una possibilità di ritrovarsi c’è sempre. Toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

S. A. Cosby

Il sangue dei peccatori condensa molti contrasti che sono d’attualità nell’America del ventunesimo secolo: nero/bianco, giustizia/politica, pubblico/privato, fede/razionalità, uomo/donna, giovane/anziano, Nord/Sud, carnefice/vittima. È un continuo ondeggiare tra questi estremi e il romanzo matura una forza centrifuga perché Titus è uno sceriffo di colore in una contea della Virginia e si trova proprio nell’epicentro di tutti i conflitti. Dato il carattere elettivo della sua carica, è una posizione in bilico. Deve essere una guida, e un esempio, per la sua squadra e per la comunità di Charon, ma il susseguirsi degli eventi lo mette a dura prova, fino al punto di dover mettere in discussione la propria personalità: “Era quello il problema, se facevi il poliziotto. Poco alla volta cominciavi a sospettare di chiunque, e prima o poi finivi col tagliare il mazzo due volte giocando a carte con tua moglie”. Il sangue dei peccatori comincia con una sparatoria nella scuola locale, anche questo un lugubre primato americano. Uno studente (nero) uccide un professore prima di essere falciato da una raffica di colpi degli agenti dello sceriffo. È solo l’inizio, perché lo scontro a fuoco fa da traino all’apparizione di un serial killer particolarmente efferato che lascia le sue vittime martoriate dentro uno scenario di simboli cupi e inquietanti. Titus intuisce subito che c’è un collegamento perché “la violenza è sempre la confessione di un dolore”, ma è combattuto tra legami fragili e delicati (il padre, il fratello, la fidanzata) e sulla scena (in aggiunta) arriva la sua ex, una giornalista che alimenta un suo podcast, oggi funziona così. Titus deve affrontare tutta una serie di prove, e di fronte alla corruzione e all’ingerenza della politica, alle carenze strutturali delle istituzioni e alle divisioni sociali, è costretto a compiere scelte repentine, alcune giuste e altre sbagliate, al punto di ammettere: “Non si faceva illusioni. Sapeva chi era e cos’era. Per molta gente era il diavolo. E lo accettava. Però era un diavolo che andava a caccia di demoni”. Nell’inseguimento attraverso la Virginia e l’Indiana, il presente e il passato (ecco un’altra ingombrante contrapposizione), chiese e sette, suprematisti e oppositori, Titus cerca di rispettare le regole che deve imporre e difendere: lo sceriffo deve essere irreprensibile, ma tutto intorno a lui è un continuo distinguersi, sollevarsi, ribellarsi. Non è facile espletare così il mandato, ma “esiste un genere di caos che a volte può dare l’impressione di muoversi secondo un ordine. Quando certe situazioni caotiche continuano a ripetersi, da questo meccanismo emergono degli schemi”. Il racconto è tumultuoso e senza tregua perché nello sviluppo della storia tutta la contea subisce in un modo o nell’altro le conseguenze delle fibrillazioni che l’attraversano. Il ritmo incessante e la suspense sono garantiti dalla scrittura essenziale e senza fronzoli di S. A. Cosby, ma nella migliore delle tradizioni del thriller Il sangue dei peccatori tocca temi rilevanti e viene usato per raccontare l’America di oggi, con quelle spaccature dovute a un passato che non vuole passare, con tutte le vessazioni e le meschinità nascoste dietro la placida costruzione di una cittadina di provincia. I colpi di scena arrivano uno dopo l’altro e qualche cliché del genere è da mettere in conto, ma non toglie nulla alla qualità del romanzo che ha una sua solida aderenza alla realtà, compresa la malinconica bellezza del finale. Da tenere d’occhio.

giovedì 29 agosto 2024

Nelson Algren

Galeotti, fuggitivi, vagabondi, prostitute, sbandati: Le notti di Chicago sono popolate da tutto un milieu di disperati, agonizzanti, derelitti senza meta e senza speranza, braccati, “tagliati fuori”. Gli uomini e le donne di Nelson Algren sono outsider e sono tutti prigionieri, che siano in carcere o no, di sogni, miraggi e illusioni, e di un destino ineluttabile. Il clima è teso e al limite in ogni racconto e i protagonisti sono destinati a vicoli ciechi. La disperazione è una compagnia costante, almeno quanto la violenza, espressione di altri conflitti che esplodono in scontri e combattimenti corpo a corpo. Succede già in La faccia sul pavimento del bar ovvero Troppo sale sui pretzel dove, non senza un certo fatalismo, il protagonista affronta così la realtà quotidiana: “Mentre fumava la prima amara sigaretta del mattino, prendeva la fiera risoluzione di non darla vinta a nessuno, in tutta la giornata, e di non aver pietà per nessuno, come nessuno ne aveva avuta per lui”. I pugni assumono un valore “finché, a ogni nuovo colpo, ciascuno si sentì vendicato del duro colpo che la vita era stata per lui”. La rissa è soltanto l’inizio e anche la boxe è giusto una versione edulcorata per ricordare che c’è un “duro prezzo” da pagare. L’apologia è quella declamata in Pero venceremos, “perché quando la vita è fatta di momenti presi in affitto e di centimetri misurati uno per uno, allora ogni alba porta impressa la sigla di un dollaro e il dollaro di ieri non serve più a riscattare il giorno che passa. Allora ogni ora del giorno dev’essere comprata col sudore della paura e ogni pasto dev’essere consumato a costo di privazioni, come un falso amico che stia seduto dall’altra parte del tavolo e conti ogni forchettata: allora avviene che le cose più semplici diventano infinitamente preziose e nulla, neppure un grano di sale, ti viene dato per niente”. Più di ogni cosa, la necessità impellente è un luogo da chiamare casa, “un posto diverso, un posto felice, luminoso”, come dicono in La casa dei fratelli, ma se anche “c’erano buone probabilità”, dentro le mura il più delle volte si consuma un vuoto. L’alcol, la droga e i fallimenti sono un circolo chiuso e la tossicodipendenza è una fitta coltre di nebbia che i personaggi in in Progetto di partenza raccontano così: “Il tempo felice era trascorso per non più ritornare. Il tempo che non era mai esistito, e gli amici che non c’erano mai stati, tutto se n’era andato con le mattine che erano state così grigie e le notti che erano state così lunghe”. Il buio sembra propagarsi “in eterno” e a Nelson Algren non resta che dare voce ai suoi “rain dogs” così come vengono elencati in Il capitano fa brutti sogni: “E di nuovo arrivano gli uomini, gli spavaldi e i pentiti, gli sconfitti e gli arroganti, i ladruncoli da quattro soldi e i guappi sprezzanti, tutti avanzano, insaccati in sé stessi, in mezzo a uno scroscio di luce, come uomini che camminano in mezzo alla pioggia. I paurosi e gli esitanti, i remissivi e gli sfrontati, i tipi balzani e i pivelli di primo pelo, i vagabondi dal cuor contento e i veterani inaciditi”. Nel complesso, i racconti sono brevi istantanee, forti e precise nella cornice urbana, da Chicago a New. Orleans, dove l’ineluttabilità delle metropoli americane intorno alla metà del ventesimo secolo è riportata senza particolari mediazioni. Sono tutti tutti sull’orlo di un disastro e Nelson Algren, a suo tempo definito il “poeta dei bassifondi”, ci conduce a conoscere Il diavolo in Division Street, che è una ghost story con un suo senso nell’evidenziare la promiscuità e I ragazzi che seguono “tutti i rumori della notte sembravano come rumori che si allontanassero verso l’ignoto, sempre, tutta la notte”. Gli ultimi tentativi di fuga dalla dissoluzione in Da Kingdom City a Cairo e In fede mia comprendono maldestre rapine e passaggi obbligati sui treni merci, come unica alternativa al sottobosco di miseria, ma come direbbe qualcuno non c’è nessun posto dove correre, nessun posto dove andare.

venerdì 23 agosto 2024

Phil Klay

Ci sono guerre e guerre: l’Afghanistan e l’Iraq, e poi finite (male) quelle, resta comunque la Colombia, un luogo dove la vita è appesa a  un nonnulla. La condizione a vario titolo di Valencia e del padre, Juan Pablo, di Mason, Diego, Lisette, Jefferson, Abel, Luisa, Alma, Janvier anche nel contesto di Una buona guerra è quella che Phil Klay identifica così fin dall’incipit: “La gente pensa che una persona sia ciò che vedi andarsene in giro in carne e ossa e sangue, ma è un’idiozia. Carne e ossa e sangue esistono, ma esistere non significa vivere, e carne e ossa e sangue da soli non fanno una persona. Una persona è ciò che succede quando c’è una famiglia, e un paese, un posto dove sanno chi sei. Dove tutti quelli che ti conoscono tengono in mano un piccolo specchio invisibile, e in ciascuno specchio, tenuto in mano da familiari, amici e nemici, appare un riflesso diverso”. Lo schema essenziale, che prevede la convergenza dei protagonisti da posizioni molto distanti, e per certi versi incongruenti, non è di sicuro una novità, però è funzionale a inquadrare e a dipanare la complessità della trama di Una buona guerra. La costruzione di Phil Klay è per tre quarti meticolosa e dettagliatissima, per poi precipitare con il susseguirsi degli eventi nella parte conclusiva, che subisce un’improvvisa (per quanto non imprevedibile) accelerazione, compreso il lungo epilogo finale. L’articolazione tiene conto delle leve politiche, economiche, militari, criminali e di tutti gli interventi armati in difesa di interessi più o meno legittimi. Dopo l’11/9 è tutto giustificabile e sono tutti in cerca di Una buona guerra da poter raccontare. La Colombia e per estensione gran parte del Sud America hanno sufficienti sfumature per un’intera enciclopedia e provare a definirle è già un’impresa. Phil Klay conosce bene il sovrapporsi di finalità tra nazioni, governi, eserciti e segue con scrupolo gli eventi che provocano i suoi personaggi. È una reazione a catena e riesce a rendere un’idea complessiva grazie a un immane lavoro di ricerca che l’ha portato anche a discernere gli interessi e le ingerenze degli Stati Uniti sul campo. In questo senso Phil Klay sfrutta l’esperienza personale già narrata nei racconti di Fine missione, ma Una buona guerra sviluppa tutta una trama molto più ambiziosa. Quando i diversi protagonisti vengono infine a contatto, le forze che hanno richiamato, smosso o soltanto evocato si mostrano con tutta la loro violenza e così rivelano i destini a cui vanno incontro. Lo sforzo è ripagato: La buona guerra ci costringe a guardare dove di solito non è né lecito né indolore. L’organizzazione di Phil Klay è diretta a evidenziare la fittissima ragnatela di connessioni, convivenze e congiunture tra entità diverse: militari e paramilitari, narcos e guerriglieri, governanti locali e nazionali, giornalisti, missionari, tutti visti con estrema precisione alle prese con i propri obiettivi. Si va dal minimo della sopravvivenza quotidiana al controllo geopolitico di parti del territorio o di un’intera nazione. Ogni mezzo è consentito: dall’efferatezza delle torture alle minacce più o meno velate, dalla corruzione (endemica) ad armi sempre più sofisticate e micidiali, da strumenti tecnologici e informatici all’avanguardia a rituali ancestrali. Il patchwork, che pare inestricabile, è assemblato da Phil Klay con grande lucidità, senza alcun moralismo, e scorre nonostante l’urticante realtà che racconta e su cui è basato: l’intricato tessuto che sottintende ogni guerra, che, buona o no, resta l’espressione prima e ultima della volontà del potere di tutelarsi e procrastinare lo status quo, costi quel che costi. Impegnativo, ma necessario.

mercoledì 21 agosto 2024

Sly Stone

L’ossessione per il ritmo che si risolve nell’equazione “prendere tempo, trovare il tempo” è una costante irrinunciabile per Sly Stone ed è anche la forza propulsiva del suo memoir. Una danza con la propria storia che comincia corteggiando la memoria: “Ripercorro il mio passato, le parti di tempo che ancora conservo e quelle che sono scivolate via. Riesco ancora a sentire una nota saltare fuori da un piano elettrico nel 1966. Riesco ancora a vedere l’orlo di un vestito sollevarsi nel 1970. Riesco ancora a sentire il calore delle luci sulla mia faccia mentre salgo sul palco nel 1972”. Sly Stone non è politically correct e non cerca nemmeno di edulcorare fatti, vicende e cronache perché qui dentro c’è la musica, la droga, il sesso, la vita vera, danni compresi. Il racconto è spontaneo, naturale e senza filtri o censure: Sly Stone si concede con generosità a raccontare la formazione della Family, il confronto con l’industria discografica, i successi e i fallimenti. Proprio come una delle sue canzoni, si snoda sinuoso e sincopato con un sottile senso dell’umorismo che non viene mai a mancare, anche nei momenti più drammatici (e ce ne sono un bel po’). Si accontenta di riordinare ricordi che non sempre sono precisissimi, ma non è nemmeno nell’intenzione ricalcare una biografia ordinata ed elegante. Il racconto però procede spedito, senza intoppi, “un po’ differente ogni sera, sempre nascosto, dalle ore piccole alle prime luci del mattino” collocando le ricostruzioni di Sly Stone nel contesto storico e sociale: dagli inizi in veste di conduttore radiofonico alle prime formazioni, dagli esordi discografici a Woodstock, dai successi a riconoscimenti tardivi. Sfrontato, a tratti gergale, per scelta e per necessità, come ammette Sly Stone: “Ho fatto una dieta verbale cercando di mettere in ordine determinate informazioni di cui ho bisogno per rimanere il più possibile vicino ai fatti e non essere depistato da qualche fenomeno da baraccone”. Non concede nulla all’ipocrisia e narra gli incontri e i legami con Bobby Womack, Michael Jackson, George Clinton, Bootsy Collins, e, con un certo candore, apre le porte su quello che il più delle volte viene rimosso o sotterrato. Giunto alla maturità degli ottant’anni Sly Stone non ha nulla da nascondere e gli va riconosciuto un bel coraggio nello svelare trucchi e misfatti delle etichette discografiche e dei promoter, ma anche i limiti di una vita in balia di sostanze e appetiti fuori controllo. Come è facile immaginare ne succedono di tutti i colori: arresti, fughe, colpi di pistola, eccessi e disastri, avvocati e tribunali, la lunga mano del fisco che lo insegue, galera e rehab. Bisogna dire che Sly Stone non si è fatto mancare nulla nel suo istintivo affrontare la vita e, per quanto colorite e saltellanti, le sue rievocazioni non sembrano avere secondi fini o ambiguità di sorta. È la musica, l’ancora di salvezza, l’ultima spiaggia di una traversata burrascosa, il limite che Sly Stone affronta con sincerità. È una bella corsa attraverso uno stile che ha rappresentato moltissimo per la cultura afroamericana in generale e per l’hip-hop in particolare. Non è lui a dirlo, ma Greil Marcus in Mystery Train quando spiega che: “Il sound della band era caratterizzato da un’incredibile libertà. Era complesso, perché la libertà è complessa; folle e anarchico, come il desiderio di libertà; cordiale, sensibile, affettuoso e coerente, come la realtà della libertà. Era inoltre una grande celebrazione, una grande affermazione, una musica dall’infinito humour e dall’infinita gioia, come una fantasia di libertà”. È proprio la “rivoluzione ritmica” come la definiva Rickey Vincent in Funk! e qui la sentite trasposta in prima persona, e vi farà ballare anche così.

giovedì 8 agosto 2024

Stephen King

Lo scrittore in seria difficoltà, se non in pericolo di vita, è un soggetto che ricorre una tantum nella bibliografia di Stephen King, basti pensare ai protagonisti di Misery e di Shining. In Mucchio d’ossa, Mike Noonan è un rappresentante della categoria particolarmente tormentato: sua moglie è morta all’improvviso, l’ispirazione si è inaridita rapidamente e si ritrova incastrato tra mura stregate. Quando decide di trasferirsi nella casa di villeggiatura sul lago, in un’area tipica del New England, è costretto a misurarsi con “la singolare impollinazione incrociata tra sogni e fatti del mondo reale”. Dalla classica tavola calda ai sentieri lungo le rive, il territorio yankee di Mucchio d’ossa circoscrive una comunità provinciale e ristretta, in apparenza cordiale e premurosa, ma che nelle pieghe della storia locale nasconde un segreto atroce. Stephen King sa che “uno scrittore è un uomo che ha insegnato alla sua mente a comportarsi male” (e sembra quasi scusarsi perché lo ribadisce in continuazione) e Mike Noonan avverte fin dall’inizio che qualcosa nell’equilibrio tra l’immaginazione e la vita normale è andato perduto: “Ricordo invece una sensazione che avevo già avuto laggiù, specialmente quando percorrevo quella strada da solo. Era la sensazione che la realtà fosse sottile. Io credo che sia sottile, sapete, sottile come il ghiaccio sul lago dopo il disgelo, e noi riempiamo la nostra vita di rumore e luce e azioni per nascondere a noi stessi quella sottigliezza”. Superata quella linea, basta l’incontro fortuito di Mike Noonan con una bambina e sua madre per far collassare uno dopo l’altro gli strati di cliché di cui è composto Mucchio d’ossa: una storia d’amore (anche un paio, giusto per non farsi mancare niente), una ghost story (ma qui ad un certo punto diventano tutti fantasmi), uno spruzzata di legal thriller (con tanto di omaggio a John Grisham), persino un po’ di etnomusicologia nel raccontare le gesta di una sorta di Robert Johnson al femminile che sarà via via più importante ai fini della trama, che è bella intricata, per non dire contorta. Stephen King preso dall’entusiasmo e/o ipnotizzato dalle sue stesse creazioni non risparmia e ci mette un po’ di tutto per ridefinire i confini della realtà e dei mondi paralleli che Mike Noonan, inevitabilmente, andrà a sollecitare. Le presenze, la telepatia, l’energia psichica, gli incubi, il sonnambulismo, i poltergeist, l’antropomorfismo che crea uomini, donne e mostri dietro ogni ramo di betulla rendono Mucchio d’ossa un groviglio eccessivo e prolisso, anche se la storia resta avvincente tra blues, spettri, avvocati e fuochi d’artificio assortiti, inclusi i Beach Boys quando cantano Don’t Worry Baby. Stephen King a volte riesce a essere trascinante, a volte no: la capacità di creare empatia per i personaggi (ce ne sono un bel po’, reali e non) è intatta ed efficace, ma ci sono un bel po’ di ripetizioni, come se cercasse di convincerci con la forza. Lo stesso vale per l’eccesso di teatralità, mettiamola così, nella parte conclusiva: l’apocalisse finale, con tanto di tempesta, ponte pericolante, battaglia all’ultimo sangue e colpi di scena a raffica, sembra destinata ad avvalorare, a furia di effetti speciali, di aver visto qualcosa che i più non riescono a vedere. Questa è la natura del suo gioco e lo confessa attraverso Mike Noonan quando dice che gli “interessa sapere quel tanto che basta per poter mentire in maniera colorita”. Un po’ di confusione è da mettere in conto e Mucchio d’ossa è proprio come un hamburger imbottito di tutto, gustoso e abbondante, ma si fa fatica a capire che sapore ha.

mercoledì 31 luglio 2024

Charles Bukowski

Fa caldo nei racconti di Bukowski: fuori vince l’afa e dentro invece è freddo e c’è comunque qualcosa che non va. Le ruote buche (tre, compresa quella di scorta), il cesso intasato, gli animali che rovinano la siepe, la televisione che ci mette una vita ad accendersi, i cavalli che non corrono, il bicchiere mezzo vuoto più che mezzo pieno sono quei dettagli che distinguono una vita “sempre fuori posto”, e questo è quanto ricorre in continuazione nelle Confessioni di un codardo. È un’antologia di short story dell’ultimo periodo di Bukowski che pur nella sua brevità ne condensa tutte le ossessioni e le deviazioni, le abitudini. In Un nickel, spicca nel parterre delle corse (una seconda casa, se non proprio la prima) una femme fatale, in cerca della soffiata giusta. L’omaggio alla sua bellezza di Henry alias Bukowski è incredibile: “Mi arrivò il suo profumo e immaginai cascate e foreste e mobili soffici come nubi, immaginai gli avanzi di selvaggina a dei bellissimi cani, e di non puntare più la sveglia”. Un terzo incomodo appare all’improvviso, e quando il conflitto, che in ogni caso è latente, esplode sono fuochi d’artificio. In modi diversi succede, tra l’altro, in Nascondiglio, Riscatto e La star dove prende forma tutto un demi-monde di umanissimi fallimenti e altrettanto prosaiche fantasie. Non di rado i racconti approdano ad atmosfere oniriche e surreali: quello di Bukowski è Un universo poco accomodante che si tinge di sfumature variopinte, un po’ con le tinte della commedia, un po’ con quelle del dramma, unite da un filo di perfida ironia. Tra le Confessioni di un codardo si trova anche un’ammissione importante, infilata tra le pieghe di Che fine ha fatto quell’adorabile ragazza sorridente vestita di percalle?, quando l’Harry di turno in un momento di sincerità riconosce che “naturalmente era da codardi sforzarsi di dimenticare l’incomprensibile, però necessario”. Qui c’è un po’ tutta la filosofia dello stesso Bukowski che si accosta e si identifica nei suoi personaggi, che sono degli outsider assoluti, ma si rivelano capaci di coltivare ogni piccola opzione per la sopravvivenza, sperando persino nella poesia, inseguendo illusioni improprie e miraggi nelle pieghe della folle architettura di Los Angeles, che rimane lo scenario preferito, se non proprio l’unico. Il più delle volte, come succede in Vita da barbone, però: “le cose vanno avanti. Come le pulci, e lo sciroppo sulle frittelle”, e non ci sono molte aspettative. Questo lo si capisce anche leggendo Il suicida o La mia pazzia dove Bukowski prova a giocare la carta di una lungimirante saggezza, quando suggerisce di “non giocare con la follia, la follia non paga”. A dire il vero, tutta la sua esistenza dimostrerebbe il contrario, e restano ancora il pranzo e le chiacchiere di Morte nel pomeriggio, un esplicito omaggio a Hemingway, e 191, nonché l’accorato appello ai colleghi del futuro e all’evoluzione della specie: “E se fra voi c’è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va’ avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all’azzardo, e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza parole per tutti”. Una bella eredità, tutto sommato.

venerdì 26 luglio 2024

William Least Heat-Moon

Ancora una volta, “in giro per l’America”, prende forma più che un reportage turistico, una “topografia della mente” e per William Least Heat-Moon quello lungo Le strade per quoz è un viaggio diverso da tutti gli altri. Non è circolare e istintivo come Strade blu (a suo modo, generico), non è specifico e concentrato come Prateria o monotematico come Nikawa, ma in un certo senso li riassume tutti. Scorrono taverne e pescatori, contrabbando e speculazioni in Florida, fuochi fatui in New Mexico, le foreste del Maine, città fantasma e spiriti irrequieti, le spedizioni di Lewis e Clark e di Hunter e Dunbar, antiche pietre miliari e biciclette sulla ferrovia, esperimenti ed eccentricità, l’omaggio dovuto a Jack Kerouac e alla Beat Generation nonché l’ombra di Thoreau e quella di Mark Twain, i due punti di riferimento di un “cronista delle strade americane” come si definisce William Least Heat-Moon. Per l’occasione rinuncia alla solitudine e viaggia in compagnia di Q e, a ritroso nel tempo, di Mo e Le strade per quoz prevedono “un programma fatto più di direzioni che di destinazioni”. La meta è l’ideale quoz, in effetti più uno state of mind, che una tappa geografica, tenendo comunque ben presente due concreti capisaldi. Il primo riguarda da vicino lo spirito  dell’osservazione perché “nominare qualcosa, di reale o immaginario, significa dargli vita nel mondo reale del suono. Dal nulla sorge qualcosa”. Come diretta conseguenza, il secondo turning point che prevedono Le strade per quoz dipende dal fatto che “è nella nostra natura prendere parte a un luogo e ai suoi avvenimenti restituendoli in immagini e in parole, e in questo modo giungere a un’appartenenza: appartenere non semplicemente a un luogo, ma all’interno di esso”. La riscoperta dell’America è una cronaca alla ricerca dell’autenticità o di una storia da raccontare, assecondando comunque il precetto per cui “partire non sapendo esattamente il perché è proprio il motivo primario per partire, e scoprirne il perché è l’esito più promettente e potenzialmente soddisfacente”. Il termine e la definizione del viaggio in sé occupano spazi ricorrenti lungo Le strade di quoz. L’istinto a partire nasce, senza dubbio, da “quel vecchio stimolo che c’è dentro di noi a trovare tracce di un significato etereo-cosmico nelle nostre vite, un briciolo di prova che suggerisca che il nostro piccolo assemblaggio di atomi su due gambe sia qualcosa di più di un breve e irrilevante interludio”. Poi il quoz è sparso in dettagli, frammenti, colpi d’occhio, aneddoti, pause e scintille che William Least Heat-Moon colleziona ben sapendo che “il tempo trasforma i luoghi comuni in cose insolite”. In questo senso Le strade di quoz riservano molte sorprese: si scopriranno il jackalope e altre creature, come Estrarre raggi di sole dai cetrioli e perché Gli hippy entrano dalla porta laterale. Essendo uno storyteller convinto e scrupoloso, William Least Heat-Moon si attorciglia agli aneddoti, ai racconti e alle chiacchiere con gli sconosciuti, anche quando resta incagliato nella  rievocazione della Route 40 o nel caratteristico neologismo di “fiumitudine”. Concetti già espressi altrove, come la descrizione dell’interminabile sequenza dei cartelloni pubblicitari di Burma Shave, sì, proprio come avviene nella canzone di Tom Waits. Il cliché è dietro l’angolo, un po’ come il menù della tavola calda a conduzione famigliare, e la vicenda di William Grayston (“Non possiamo scegliere i nostri antenati, ma loro spesso, in modi impossibili da indovinare, possono selezionare pezzi del nostro futuro”), che occupa la parte centrale del libro, è più roba da topo di biblioteca che da esploratore moderno. William Least Heat-Moon pare accorgersi dei rischi di queste deviazioni quando dice che “in verità, per amare la realtà della strada, un viaggiatore fa bene a mettere in valigia un piccolo martello emotivo e tenersi pronto per usarlo spesso”. Questa è un’avvertenza più che ragionevole in ogni caso, ma ancora di più per il territorio specifico che attraversano Le strade di quoz dato che “in centinaia di modi, l’America è arrivata dov’è perché la sua gente può essere attratta da una destinazione in maniera maniacale; e per la stessa ragione l’America non è dove non è”. È così che grazie a un paradosso (o due) diventa tutto più chiaro: si tratta di cercare “il nostro posto in questo nostro posto”, che poi è il quoz fondamentale e, per certi versi, inarrivabile.