Come scrive James Lee Burke, “il punto non è la reclusione; è l’umiliazione. È la perdita instantanea dell’identità e della dignità”. La rassegnazione della vita in carcere è tutta lì: il rapporto con i secondini e con la burocrazia, le gerarchie dentro le mura, le divisioni e i conflitti razziali, l’idea fissa dell’evasione, i rapporti alterati dalla paranoia, e comunicazioni attraverso le tubature dei cessi, l’equilibrio (si fa per dire) tra punizioni e concessioni, le risse e le rivolte determinano la pena quotidiana di Animal Factory, ovvero San Quentin, e rappresentano un cupo capolinea senza alcuna umanità, solo giorni che si consumano nel nulla. Ronald Decker, giovane e inesperto spacciatore, al suo debutto nel sistema carcerario, trova una sponda inaspettata e fortunosa in Earl Copen, un veterano inserito alla perfezione nelle dinamiche della galera. Il primo incontro avviene nel corso di uno sciopero che mette subito in risalto le tensioni che vedono tra scontrarsi tra loro masse di detenuti poi destinati a soccombere con l’intervento delle guardie che sparano con tutto quello che hanno a disposizione. Nessuna pietà: Animal Factory (nella traduzione di Fabio Zucchella) è governato da forme di violenza che si propagano in ogni direzione, spesso con l’aggravante sessuale. Ron è una preda facile della “definitiva mancanza di significato della vita in un universo differente” e l’amicizia in carcere può essere equivoca, come qualsiasi altra cosa. Ogni aspetto legato ai rapporti umani è compresso in un’infinita paranoia e “dopo un po’ impazzisci e fai cose che non dovresti fare”. Earl Copen conosce bene le dinamiche, e sa che “tutto quello che ha un uomo in prigione è la reputazione con i compagni” ma per qualche motivo, più di tutti il bisogno di covare ancora un briciolo di speranza, si avvicina a Ronald Decker e lo aiuta a sopravvivere nel contorto recinto di San Quentin che “era qualcosa in più di un luogo murato; era un mondo alieno di valori distorti, governato da un codice di violenza”. Non esiste definizione più accurata di questa. L’ambiguità, l’altra faccia della paranoia, è costante. Gli accoltellamenti dettano cicli di guerra e pace, domina il razzismo “che andava al di là del razzismo per trasformarsi in ossessione da entrambe le parti”. Mentre le residue aspettative sono affidate alle pronunce di un giudice, di una commissione o di un ufficiale, ma il più delle volte gli appelli finiscono nei vicoli ciechi della burocrazia, i detenuti si industriano in traffici e intrighi ma “è già un lavoro a tempo pieno rimanere vivi”. Sfiancati dall’isolamento, Earl e Ron decidono di evadere, aiutati da mezza prigione e da lì in poi il destino resta un’incognita. Attorno a loro due, Edward Bunker in Animal Factory scrive un diario dal carcere episodico e graffiante che non fa sconti in nessuna direzione. La brutalità è condivisa dal potere così come dai condannati. Non c’è tregua e anche uno come Earl, che vanta esperienza e stile, non è mai al sicuro e se “la routine è la chiave per sopravvivere alla prigione”, è anche il tedio che affossa ogni ambizione. La conoscenza di Edward Bunker della materia carceraria è minuziosa e dovuta all’esperienza, quindi di prima mano, comprese le fragili forme di amicizia e le difficoltà nello stabilire rapporti di fiducia. L’interno della prigione è visto come se fosse sotto una lente di un microscopio: i rapporti di forza sono letti attraverso un linguaggio scarno e spontaneo che segue le ombre ben oltre oltre le mura di San Quentin o Alcatraz o qualsiasi altro penitenziario. Fuori, secondo uno che “si è fatto quarantasei calendari”, Charley Fitz, “non è cambiato un accidente di niente. Forse si muovono un po’ più in fretta, ma è sempre la solita merda”. Durissimo, ma sincero.
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