Qualcuno l’ha chiamata la “guerra dimenticata” e non senza una ragione, perché il conflitto nella terra coreana, a ridosso del trentottesimo parallelo sembra appartenere ad un’era lontanissima, di cui ormai si è persa ogni traccia di memoria. Eppure ci divide poco più di mezzo secolo e, rileggendo in War Trash le cronache drammatiche dei combattimenti e dei massacri, della prigionia e delle torture, delle trattative e delle ribellioni, si ha come l’impressione che Ha Jin abbia voluto mantenere fede al sintetico e quanto mai perfetto titolo, tracciando un profilo della guerra che potrebbe valere per ogni occasione. In War Trash c’è però qualcosa di più: l’odissea di Yu Yuan parte dalla Cina, passa attraverso il fronte in Corea per arrivare ai campi di prigionia americani. Si lascia alle spalle la madre e la fidanzata e si ritrova a combattere senza equipaggiamento, in un clima gelido, con razioni striminzite. Gli ufficiali sono impreparati, i piani sono costituiti dall’unica teoria strategica delle “ondate umane”, l’obbedienza al partito è più di una fede e i soldati americani non sono quei codardi che la propaganda aveva propinato. Tra l’altro, hanno stormi di aerei pronti a sganciare tonnellate di bombe e ben presto Yu Yuan resta senza cibo, senza armi, al freddo e abbandonato a se stesso. Ferito gravemente e caduto prigioniero, deve lottare ancora su più fronti: da una parte i nazionalisti di Taiwan vogliono impedirgli di tornare in Cina e arrivano persino a tatuargli “fuck communism” sullo stomaco. Dall’altra i fedeli obbedienti al partito lo inquadrano e pretendono cieca obbedienza. Yu Yuan non si capacita dell’enorme quantità di prigionieri che popolano i campi di detenzione degli americani, ma forse dimentica quello che diceva Demostene: “un soldato che scappa è buono per un’altra guerra”. Una volta curato e medicato deve subire le angherie dei nazionalisti, i processi dei maoisti nonché le prepotenze dei soldati statunitensi e sudcoreani. Le ferite, le privazioni, le torture sono parte di un’estenuante lotta per la sopravvivenza, una battaglia giornaliera per il cibo, per il sonno, per la salute mentale e per la salvaguardia di un ultimo, minimo e miracoloso residuo di dignità umana. Yu Yuan subisce tutto aggrappandosi alla forza di volontà, a frammenti volubili di ricordi, alla flebile speranza di tornare a casa. L’addestramento, limitato ai principali rudimenti del combattimento, non prevedeva altri strumenti e come dice Yu Yuan, “a parte il suicidio, non ci avevano dato altre istruzioni sulla condotta da tenere nel caso fossimo fatti prigionieri”. Per lui la guerra non finisce, nemmeno quando è finita. Rimpatriato, viene sottoposto a una lunga serie di interrogatori e “autocritiche” per verificare la fedeltà al partito. “Le sessioni di studio”, come vengono chiamati gli auto da fé vertono su tre principi fondamentali che vale la pena enunciare per intero: “1) Il fatto stesso che siete stati fatti prigionieri è una vergogna. Avreste dovuto combattere il nemico fino all’ultimo respiro ma non l’avete fatto. Pertanto siete dei codardi. 2) Come possono dei codardi portare avanti la lotta contro il nemico? Anche se si sono verificati episodi di resistenza all’interno delle prigioni, questi sono stati dettati soprattutto dal vostro istinto di sopravvivenza. Perciò non potete vantare alcun merito e dovete confessare i vostri misfatti e le vostre colpe. 3) Della vostra prigionia non potete che incolpare voi stessi, senza attribuirla a cause esterne”. Lo stile di Ha Jin, volutamente monocorde, sembra fatto apposta perché sia il lettore a cogliere la complessità della storia di Yu Yuan, il protagonista, che vive tutta la guerra, senza esclusione di colpi. Il suo diario day by day diventa allora un ritratto impietoso, a tratti persino dolente che ha anche il pregio di raccontare “la guerra come un’enorme fornace alimentata dai corpi dei soldati”, senza subordinate e fuggendo qualsiasi tentativo moralistico. Un libro scomodo e, proprio per questo, persino educativo.
sabato 30 marzo 2019
mercoledì 27 marzo 2019
Ben Ratliff
Una serie di interviste condotte con grandi jazzisti in maniera insolita, ma molto interessante (ovvero ascoltando insieme le loro musiche preferite) conduce alla creazione di un utile metodo per affrontare, da neofiti come da esperti, la sublime arte del jazz. Gli incontri raccolti da Ben Ratliff in Come si ascolta il jazz sono rivelatori e liberatori, soprattutto per chi ama la musica al punto di parlarne e di scriverne, due forme d’espressione che non sempre riescono a renderne le dimensioni della bellezza. Il suo metodo di avvicinamento all’idea di una “conversazione sulla musica” (che vuol dire anche “sopra” la musica) prevede piccole tappe di aggiramento degli ostacoli, qualche spicciolo trucco per giocarsi le carte migliori nelle interviste, quel tanto di confronto da rendere umani anche i colossi del jazz che ha di fronte perché poi “ascoltare musica in compagnia di qualcuno è un atto di intimità, perché la musica si rivela per gradi”. Ognuno cerca di interpretarla con gli strumenti che ha: chi spiega le suddivisioni ritmiche e i materiali degli strumenti, chi racconta le connessioni con la vita quotidiana, chi evoca fantasmi (Charlie Parker il più gettonato) e chi si rifugia nelle frazioni di tempo e nelle notazioni musicali per descrivere un’emozione. Però più si va in alto e più è chiaro che l’ascolto, fermarsi a sentire un assolo di sassofono o una scansione sul rullante, è qualcosa di più, perché è lo stesso jazz visto dai musicisti che va oltre la musica. A Ben Ratliff lo dicono un po’ tutti, ma sono due leggende viventi a spiegarlo meglio degli altri. Il primo, Sonny Rollins, lo spiega soprattutto per i protagonisti, per i musicisti, per chi ci è dentro: “Questo è il jazz: jazz vuol dire libertà. Non credo sia obbligatorio andare sempre a tempo. Ma si può suonare in due modi diversi. Uno, senza pulsazione. L’altro, con una pulsazione fissa e si suona su quella. Ed è questo che io considero il paradiso, riuscire a essere così liberi, spirituali, musicali. Mi sembra di poter dire che è un’idea tuttora poco considerata”. L’altro, Ornette Coleman, che sembra quasi rispondergli a distanza, dopo i due punti apre un’intera visione (per chi suona, per chi ascolta, per tutti): “La musica non è uno stile, è un’idea”. E’ per questo che gli incontri di Ben Ratliff, oltre a “raccontare” la musica (il jazz non è l’unico argomento, anzi è solo l’inizio) riescono a intuire le sfumature e le profondità di coordinate invisibili perché scopre e riscopre che “i musicisti jazz hanno sempre più cercato di collegare fra loro gli apparenti vicoli ciechi della storia, mostrando così il senso delle fratture fra tradizione e innovazione oppure arrivando a comprendere che quelle che sembravano fratture non erano affatto tali”. Se poi serve un’opinione di tutto riguardo sul jazz, sul suo futuro o sulle sue origini, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Per esempio, Pat Metheny quando dice: “Preferisco, se il jazz rimane una musica popolare. Non trasformiamolo in musica classica. Che resti una musica di strada, che accompagna la vita quotidiana delle persone. I jazzisti devono continuare ad adoperare i materiali, gli strumenti, lo spirito dell’epoca in cui vivono come punto di partenza per la loro arte”. Non mancano, in appendice, spicciole biografie e altrettante discografie consigliate, molto utili una volta compreso come si ascolta il jazz. Appassionante, coinvolgente e “scritto nell’anima”.
martedì 26 marzo 2019
Leslie Fiedler
I cinque saggi di Leslie Fiedler raccolti da Samuele S. F. Pardini in Arrivederci alle armi toccano un nervo scoperto e dolente della cultura americana: il rapporto con la guerra, che trova radici negli anfratti letterari di James Fenimore Cooper e Mark Twain e nella bandiera issata a Iwo Jima il suo punto di non ritorno. L’ennesima, puntualissima, ricostruzione della fotografia di Joe Rosenthal è per Leslie Fiedler l’occasione per scoprire la fonte di “un mito genuino, vale a dire, sebbene certo una menzogna, quel tipo di menzogna che dice una verità che altrimenti non può esser detta”. Il conflitto con “l’altro”, chiunque esso sia, presuppone un continuo aggiustamento del tiro, un aggiornamento degli obiettivi e un riordino degli elenchi di alleati è nemici. “Combattere è ammettere la propria confusione; è un atto di disperazione, non di forza” scriveva Henry Miller nel 1941 ed è lì che è diventata necessaria quella “griglia mitologica” svelata da Leslie Fiedler che viene costruita e adattata, proprio dalla bandiera di Iwo Jima, sfruttando “uno stereotipo, o un cliché, che è anche un’icona, una forma di mito visibile e perciò a disposizione di tutti”. Le voci divergenti non sono mancate e Leslie Fiedler ricorda, tra gli altri, Tre soldati di John Dos Passos, La stanza enorme di E. E. Cummings e Addio alle armi di Hemingway, libri in cui “il messaggio è che morire per la propria patria non è bello e ragionevole; e che il vero nemico di tutti gli uomini di buona volontà non è il nemico visibile, ma il conflitto armato, non importa per qualche causa venga apparentemente combattuto”. Bisogna porre l’accento sull’ultimo avverbio perché l’enfasi, ben interpretata dalla camminata cinematografica di John Wayne, è stata radicalmente scardinata dalla guerra del Vietnam, che si è propagata come un virus. A differenza, per esempio, di Philip Roth in Pastorale americana, l’analisi della spaccatura nazionale e generazionale di Leslie Fiedler è più elaborata e pungente, e molto pertinente nell’evidenziare le fratture, prima di inoltrarsi nel confronto con i film che la guerra ha ispirato. La svolta avviene in un contesto talmente volubile che Leslie Fiedler più di una volta si sofferma a precisare: “Sto cercando di dire che non è il semplice fatto dell’opposizione alla guerra in Vietnam che rende particolarmente difficile la sua mitizzazione, ma la natura di classe di quella opposizione”. Setacciando poi Il cacciatore, Apocalypse Now e Rambo, Leslie Fiedler mette in rilievo gli elementi conflittuali innati nella cultura americana. In particolare su Rambo, Leslie Fiedler opera un’analisi non frettolosa (come è spesso accaduto) e si avvicina a identificare con precisione il personaggio, con tutte le peculiarità dell’outsider. Pur camminando su un territorio minato, in Arrivederci alle armi, Leslie Fiedler fugge qualsiasi tentazione ideologica, e si concentra soltanto sull’attinenza delle fonti e sugli stili, spiegando che “la guerra viene trattata allo stesso modo in cui i maestri della cultura popolare ci hanno a lungo insegnato a trattare ciò che c’è di reale negli eventi del momento e in varie forme di entertainment”. Sottotraccia, s’intende la trasformazione, proprio a partire dalla serie di Rambo, di una straordinaria débâcle (e non solo militare) in un immaginario epico ed eroico, non del tutto privo di ambiguità (anzi). Questa attitudine è diventa una prassi consolidata visto che, come scrive Lesie Fiedler, “da Iwo Jima in poi le guerre che abbiamo combattuto più di recente sono sembrate sempre più recitate, messe in atto o interpretate”. Se sul Vietnam ha generato una scia di film perlopiù scadenti (e un capolavoro, Full Metal Jacket) ha fatto di contorno a tutte le guerre americane, con un’apoteosi di contraddizioni in Black Hawk Down. Se si può ridefinire una (sanguinosa) vittoria, come è stato a Iwo Jima, si può anche riscrivere una sconfitta: in fondo non c’è differenza, e la guerra può continuare all’infinito, come del resto è stato.
giovedì 21 marzo 2019
Jerome Charyn
Nella visione di Jerome Charyn, Metropolis alias New York City, non è la trascrizione di un’idea di città, ma un ritratto sinuoso, che serpeggia nelle strade e nei bassifondi, rastrellando storie e linguaggi nella forma stessa della pagina scritta. Pur sottolineandone a più riprese il carattere cosmopolita, caotico e in eterno movimento, Jerome Charyn non si lascia ingannare dalle apparenze e punta subito l’accento sul DNA conflittuale di New York, ricordando, nell’anticamera di Metropolis, l’esperienza brutale di Ellis Island, l’approdo dell’emigrazione europea: “Nessuno avrebbe potuto sentirsi sicuro in una stanza così, grande come l’America. Io, di certo, me la sarei fatta addosso. Non per paura del centro, ma per la disperazione che emanava una stanza dove non riuscivi più a definire te stesso”. L’identità consumata su quella soglia è diventata l’humus su cui è germogliata Metropolis così come la conosciamo perché “spesso l’anima di una città si rispecchia in quella dei suoi abitanti. Ciò è particolarmente vero in una città di immigrati come New York, dove intere popolazioni giunsero su navi fantasma, attraversando una cattedrale di mattoni mentre i vestiti venivano segnati col gesso e le teste ispezionate alla ricerca di pidocchi; e se il paese li faceva entrare, lavoravano sodo per mantenersi, facevano figli, facevano soldi e morivano nella lotta per diventare americani”. Da quel momento il sogno delle opportunità si spalanca in tutte le direzioni e seguendo un percorso personalissimo (“Scrivo questo libro da quando avevo cinque anni, immagazzinando i ricordi nella mia pelliccia, come un orso nel Bronx”) Jerome Charyn riesce a vedere che, oltre l’esplosione architettonica, dalla Loisaida ad Alphabet City, “la città tesse le sue leggende come un fantasma collettivo. Gli eroi (e i cattivi) irrompono nella nostra coscienza, ci svegliano da un sonno inquieto e controllano le nostre vite... Finché nella nostra mente non germina un’altra messe di eroi”. I protagonisti del self-made assumono le sembianze della Material Girl di Madonna e incrociano ancora, inevitabilmente, gli eccessi urbanistici, quando “il figlio di un costruttore di periferia, uno con la faccia da neonato, costruisce un hotel tra la Gran Central Station e il Chrysler Building e diventa Donald Trump”. Le estremità delle radici che l’hanno portato a diventare un presidente degli Stati Uniti vanno cercate proprio qui, perché come scriveva Martin Gottlieb, “invece di conformarsi alla legge di gravità di Newton, Manhattan danza ai ritmi di una variazione delle leggi di Einstein secondo cui tempo, materia e energia interagiscono con il denaro”. Jerome Charyn riecheggiando voci e impressioni di natura eterogenea che comprendono Henry Roth e Scott Joplin, sindaci e gangster, è ancora più preciso e ricorda, a nome degli abitanti di New York, che “non abbiamo rinunciato all’abitudine di affollare i mercati, comprare e vendere, vendere e comprare. Siamo una razza che baratta. Siamo nati con questo dono. Ce l’abbiamo nel sangue. La città stessa è un unico gigantesco mercato. Non puoi fare dieci passi senza imbatterti in qualcosa che abbia a che fare con il commercio. È nel fumo e nella fuliggine che respiriamo. Siamo tutti imprenditori potenziali, sempre alla ricerca di un buon affare nella terra di chi vende e di chi compra”. Lo snodo centrale di Metropolis porta Jerome Charyn a rileggere l’essenza della pop art, con Julian Schnabel nel ruolo di anfitrione. Il legame con New York è doppio e ambiguo non solo “perché il grande segreto americano del ventesimo secolo è che tutti gli uomini e tutte le donne sotto sotto sono degli artisti”, ma soprattutto perché il mercato dell’arte ha celebrato e sublimato la rapacità economica e così, spiega Jerome Charyn, “come in tutti gli spettacoli, l’interesse e il fasto sono enormi. L’arte è superadorata. Quell’adorazione genera il denaro e idolatria per i manufatti, non come elementi culturali che ci parlano di noi stessi, che dipingono la nostra psiche e ci smascherano in modo profondo, ma come eventi pseudomagici, totem frammisti a simboli del dollaro. I prezzi delle opere d’arte sono determinati dall’incontro tra la scarsità reale o indotta e il desiderio, puro, irrazionale, e nulla è più manipolabile del desiderio”. Questa è Metropolis: una dichiarazione d’amore e un segnale di pericolo, un tuffo verso i ricordi dell’infanzia e uno sguardo nel futuro, dove c’è “la New York moderna, urla e silenzio insieme. È una città senza barriere del suono. I rumori echeggiano ovunque e tornano, rimbalzando, nel silenzio”. Era il 1986, funziona ancora così.
lunedì 4 marzo 2019
Andre Dubus
La singolarità più evidente di Adulterio e altre scelte è che la raccolta è divisa in tre parti e ognuna costituisce una porzione tematica a sé stante, eppure complementare a quella che la precede. I primi racconti sono dedicati all’adolescenza e alla sua incongruenza rispetto ai legami famigliari (e non): seguendo Paul in Un pomeriggio con il vecchio (quasi un prologo generale), poi attraverso il Rimorso e con Il bullo, Andre Dubus guarda il mondo degli adulti, una destinazione inevitabile, da una prospettiva insolita, con un certo distacco, e non poche sorprese. Due personaggi femminili, opposti per carattere, simmetrici nelle scelte, hanno il compito di espletare la metamorfosi, costi quel che costi. Il diploma vede protagonista Bobbie e la sua particolare visione della sessualità, che Andre Dubus racconta senza un filo di ambiguità. Con La ragazza grassa, poi, scavalca la terra di mezzo e nella battaglia di Louise contro il peso riesce a evidenziare la gelida natura del marito, Richard, e l’affettuoso ricordo dell’amicizia di Carrie. I due poli attraggono e respingono Louise, nello stesso tempo, e Andre Dubus si trova così a centellinare il suo rito di passaggio: “Non sapeva né la sua destinazione né da dove fosse partita; era in un tratto di cielo a cui non sapeva nemmeno dare un nome”. L’immagine simbolica è rappresentativa dei tormenti di molti personaggi di Andre Dubus, tutti legati da un ricamo che, se il più delle volte è invisibile, spesso si ritrova in forma esplicita attraverso i nomi, per esempio, Paul, che, dopo la trilogia iniziale, viene ripescato più avanti ed Edith e Hank che si ricollegano addirittura a Voli separati. La condivisione dei personaggi è uno dei tanti elementi di continuità nella progressione dei racconti che viene sottolineata anche da altre piccole intersezioni: a volte si tratta soltanto di un dettaglio, un richiamo, un’atmosfera, una sfumatura. Nel segmento centrale di Adulterio e altre scelte è un aereo con tutti i suoi presagi di morte. Si tratta della parte spigolosa compresa tra Ritmo, Caporale di artiglieria, La sparatoria e Andromaca, un quartetto di racconti che funzionano da spartiacque, essendo dedicati alla vita militare, con una particolare inclinazione verso il corpo dei marines, che a sua volta è un’ulteriore universo. Un tema non insolito nella narrativa americana, ma che non è nemmeno frequente nelle pagine di Andre Dubus, più attente alle dinamiche esistenziali che, per ovvie ragioni, non trovano spazio una volta varcate le recinzioni di un campo d’addestramento o di una base navale. I racconti sono collegati tra loro dalla presenza di un aereo l’A3D Skywarrior, il bombardiere imbarcato più ingombrante utilizzato dalla marina americana. Per contenerne il peso, vennero eliminati i seggiolini eiettabili, sostituiti da uno scivolo posto dietro la cabina di pilotaggio, come ben descrive anche Andre Dubus. Una caratteristica che portò alla parafrasi della sua sigla ufficiale nel soprannome di “all three dead”, ovvero tutti e tre morti (i membri dell’equipaggio). Un presagio che si rivela in tutta la sua tragicità, al culmine della parentesi militare di Andre Dubus, con Andromaca. La terza e conclusiva sezione conduce all’escalation di Adulterio. Già nel titolo celebra una delle principali ossessioni di Andre Dubus che poi, nello svolgersi del lungo racconto, viene accettata e, in qualche modo, normalizzata. Nelle diagonali che uniscono Jeanne e Hank, Joe ed Edith, l’Adulterio è quasi istituzionalizzato e diventa un riflesso deformato della famiglia, dove la lussuria si condensa in una malinconica routine. Un’apoteosi (spiazzante, va da sé) che nel suo sviluppo è proprio l’estrapolazione dell’epigrafe di Simone Weil: “L’amore è una direzione, non uno stato d’animo”. Dove porta (spesso ai confini della morte) ci pensa Andre Dubus a mostrarlo attraverso quei fotogrammi che sono la sua specialità: i contatti tra i corpi, i silenzi e le luci, la notte nell’oscurità e il mattino dopo, il gin al crepuscolo e le uova a colazione, le sigarette accese, i misteri della fede e i segreti degli uomini e delle donne che guardano nel vuoto, pensando a chissà cosa.
domenica 3 marzo 2019
Lawrence Ferlinghetti
“Non aspettate la rivoluzione o succederà senza di voi” diceva Lawrence Ferlinghetti ed è ancora il più titolato per ricordarlo, essendo stato il cardine della City Lights, la casa editrice che diventò il punto di riferimento per tutti gli autori Beat Generation, da Allen Ginsberg in poi. L’attività di editore non ha però frenato le sue ambizioni poetiche e letterarie che lo hanno visto protagonista di un flusso continuo di lavori. Lawrence Ferlinghetti ha infatti sperimentato la scrittura nei campi più disparati: il teatro e il romanzo sono stati approdi non casuali e spesso significativi, ma la poesia è rimasta il punto di partenza e di arrivo. Poesie è una selezione antologica che funziona da introduzione alla poetica di Lawrence Ferlinghetti: scandaglia un periodo che va dal 1955 al 1973 con la parte centrale costituita essenzialmente da A Coney Island Of The Mind (1958), una delle opere più importanti della Beat Generation. Quando uscì per la prima volta, ispirato da una frase di Henry Miller, la Beat Generation stava germogliando nel fertile territorio di San Francisco. Con Urlo di Allen Ginsberg e Sulla strada di Jack Kerouac rappresenta una sorta di triangolo da cui tutto è partito, anche se lo sguardo di Ferlinghetti è sempre stato un po’ più disincantato e molto più scrupoloso nel raccontare le “immagini del disastro” e dall’altra parte i veri volti dei fuggitivi della Beat Generation: “È la stessa gente, soltanto più lontana da casa, su autostrade larghe cinquanta corsie su un continente d’asfalto spazieggiato da invitanti cartelli stradali che illustrano imbecilli illusioni di felicità”. La prova del nove è come vedeva Jack Kerouac in Scrivere sulla strada: “Jack non ha nulla a che vedere con i beat o i beatnik, se non nella testa di migliaia di persone che leggono Sulla strada pensando che lui sia una sorte di folle ribelle e sregolato, mentre invece è davvero solo un homeboy, un amico della piccola vecchia Lowell e di certo non un ribelle”. A Coney Island Of The Mind affermava che “eppure alla fine inghiottiamo per salvare le nostre anime da circo le ostie anch’esse immaginarie della grazia” e Lawrence Ferlinghetti ammetteva di aver “versato un altro paio di poesie”. Ne lascerà qualcuna in più, scrivendo “sulla riva d’un fiume esattamente dove tutto era cominciato e così tutto ricomincia daccapo”, ascoltando “il suono dell’estate nella pioggia” e, in omaggio alle visioni di William Blake o Edgar Allan Poe, guardando “verso est nella fine del giorno, l’ultima frontiera fatta ancora d’acqua”. La convinzione è rimasta immutata attraverso gli anni (“Non è il momento ora per i nostri piccoli giochi letterari, non è il momento ora per le nostre paranoie & ipocondrie, non è il momento ora per la paura & il disgusto, è il momento solo per la luce & l’amore”) e Poesie si incastra nei viaggi e nelle avventure di Lawrence Ferlinghetti perché “portiamo noi stessi con noi, ovunque andiamo”. Anche nel viaggio del 1968 a Mosca, che in Scrivere sulla strada raccontava così: “Sono arrivato a Mosca dopo un volo di nove ore su uno strano aereo passeggeri russo, diviso in compartimenti come un treno & carico di soldati di fanteria. L’aereo aveva quattro motori e circa otto propulsori su ogni motore. Aveva l’aspetto e produceva il suono di un nido di farfalle bianche congelate che prendono il volo”. È l’atmosfera che gli ispirerà Mosca nella desolazione, Segovia nella neve, pescando “in un’algebra di lirismo, che sto ancora decifrando”. Nel frattempo “qualche strana specie ha preso possesso dell’America” (e non solo dell’America) come scrive in Scrivere sulla strada, ma non per questo Ferlinghetti si è fermato (anzi) riconoscendosi nel suo stesso autoritratto: “Sono un distillatore di poesia. Sono una banca del canto. Sono una pianola in un casino abbandonato sulla riva del mare in una fitta nebbia e ancora suono”. L’ha fatto per un secolo, lo farà per sempre.
venerdì 1 marzo 2019
Ralph “Sonny” Barger
Raccontato come un lungo diario, un’autobiografia spontanea nata sulla strada, Hell’s Angel è la storia di Ralph “Sonny” Barger, personaggio su cui grava gran parte delle responsabilità delle leggende e della cronaca legate al più famoso club motociclistico del mondo. La definizione è persino riduttiva: “Noi siamo le nostre moto” sentenzia ad un certo punto Ralph “Sonny” Barger ed è per questo che gli Hell’s Angels sono diventati una sorta di sottocultura con moltissimi legami, spesso biunivoci e ambigui, con la golden age del rock’n’roll. Come se fosse a una festa a cui non è stato invitato Ralph “Sonny” Barger incontra Allen Ginsberg ascoltando Bob Dylan, i Rolling Stones (ed è molto interessante leggere la sua versione dei fatti di Altamont al tramonto del 1969), Ken Kesey, Jerry Garcia e per finire Hunter Stockton Thompson. Tutti i rendez-vous sono piuttosto contraddittori, per ovvie ragioni (“Noi Hell’s Angels vivevamo nel nostro mondo, facevamo parte a mala pena del mondo normale e cercavamo di avere a che fare coi normali cittadini il meno possibile. Sia nella vita che nella morte, gestivamo le nostre faccende a modo nostro”) salvo quelli con il leader dei Grateful Dead con cui gli Hell’s Angels hanno sempre avuto un buon feeling (“Ci trovammo bene anche con i Grateful Dead, che incontrammo grazie alla sezione di Frisco. Mi sembrava di conoscere Jerry Garcia da sempre. Mi manca. Fra l’altro amava e rispetta gli Hell’s Angels. Ai concerti dei Grateful Dead, un Hell’s Angel non pagava mai il biglietto”) e Hunter Stockton Thompson, per motivi diametralmente opposti. Avendo vissuto direttamente l’esperienza degli Hell’s Angels, raccontata nel suo omonimo libro, però da fuori, da inviato speciale, anzi gonzo, come piace a lui, Hunter Stockton Thompson è trattato da Ralph “Sonny” Barger con pochi eufemismi. Evidentemente, perché la loro frequentazione non era finita felicemente (l’avevano riempito di botte), ma questa è un po’ la chiave per leggere la storia di Ralph “Sonny” Barger e degli Hell’s Angels: “Noi non cerchiamo guai e non abbiamo intenzione di provocarne, ma perdio, sembra che i guai cerchino noi”. Compresa la droga, un cancro e la galera che Ralph “Sonny” Barger ha abitato a lungo (una fedina penale lunga così). Il culto del fuorilegge resiste fino a quando non si scontra con la realtà, come ammette con un certo candore lo stesso Ralph “Sonny” Barger: “Mettersi nei guai con la legge costringe a riflettere bene ma in fretta. È un gioco. Loro usano le loro pazze regole e le loro strategie di accerchiamento per metterti al fresco, e tu usi la tua intelligenza per trovare una via d’uscita. Star seduti in prigione è una cosa, ma respingere accuse gravi per crimini che non hai commesso o stare a guardare mentre ti buttano addosso accuse su accuse, be’, per farlo bisogna essere molto lucidi di testa. Il prezzo più alto che si può pagare nella vita è la perdita della propria libertà”. L’inevitabile capolinea è la cella di un carcere che Ralph “Sonny” Barger ha cominciato a frequentare a partire dal 1957 e l’ultima volta che ne è uscito, ha festeggiato così: “Nella mia prima serata fuori dal carcere si teneva un concerto di Willie Nelson all’Oakland Coliseum. A promuovere lo spettacolo erano Deacon e Fu con la loro Magoo Productions. Al concerto c’era tutto il club. Io portavo un grosso cappello da cowboy e bevevo da una bottiglietta di whisky, mentre Willie dedicava Whiskey River a Sharon e a me. Willie non fece segreto ai giornalisti di essere mio amico e disse alla stampa che era contento di vedermi finalmente fuori”. I duri non ballano.
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