Raccontato come un lungo diario, un’autobiografia spontanea nata sulla strada, Hell’s Angel è la storia di Ralph “Sonny” Barger, personaggio su cui grava gran parte delle responsabilità delle leggende e della cronaca legate al più famoso club motociclistico del mondo. La definizione è persino riduttiva: “Noi siamo le nostre moto” sentenzia ad un certo punto Ralph “Sonny” Barger ed è per questo che gli Hell’s Angels sono diventati una sorta di sottocultura con moltissimi legami, spesso biunivoci e ambigui, con la golden age del rock’n’roll. Come se fosse a una festa a cui non è stato invitato Ralph “Sonny” Barger incontra Allen Ginsberg ascoltando Bob Dylan, i Rolling Stones (ed è molto interessante leggere la sua versione dei fatti di Altamont al tramonto del 1969), Ken Kesey, Jerry Garcia e per finire Hunter Stockton Thompson. Tutti i rendez-vous sono piuttosto contraddittori, per ovvie ragioni (“Noi Hell’s Angels vivevamo nel nostro mondo, facevamo parte a mala pena del mondo normale e cercavamo di avere a che fare coi normali cittadini il meno possibile. Sia nella vita che nella morte, gestivamo le nostre faccende a modo nostro”) salvo quelli con il leader dei Grateful Dead con cui gli Hell’s Angels hanno sempre avuto un buon feeling (“Ci trovammo bene anche con i Grateful Dead, che incontrammo grazie alla sezione di Frisco. Mi sembrava di conoscere Jerry Garcia da sempre. Mi manca. Fra l’altro amava e rispetta gli Hell’s Angels. Ai concerti dei Grateful Dead, un Hell’s Angel non pagava mai il biglietto”) e Hunter Stockton Thompson, per motivi diametralmente opposti. Avendo vissuto direttamente l’esperienza degli Hell’s Angels, raccontata nel suo omonimo libro, però da fuori, da inviato speciale, anzi gonzo, come piace a lui, Hunter Stockton Thompson è trattato da Ralph “Sonny” Barger con pochi eufemismi. Evidentemente, perché la loro frequentazione non era finita felicemente (l’avevano riempito di botte), ma questa è un po’ la chiave per leggere la storia di Ralph “Sonny” Barger e degli Hell’s Angels: “Noi non cerchiamo guai e non abbiamo intenzione di provocarne, ma perdio, sembra che i guai cerchino noi”. Compresa la droga, un cancro e la galera che Ralph “Sonny” Barger ha abitato a lungo (una fedina penale lunga così). Il culto del fuorilegge resiste fino a quando non si scontra con la realtà, come ammette con un certo candore lo stesso Ralph “Sonny” Barger: “Mettersi nei guai con la legge costringe a riflettere bene ma in fretta. È un gioco. Loro usano le loro pazze regole e le loro strategie di accerchiamento per metterti al fresco, e tu usi la tua intelligenza per trovare una via d’uscita. Star seduti in prigione è una cosa, ma respingere accuse gravi per crimini che non hai commesso o stare a guardare mentre ti buttano addosso accuse su accuse, be’, per farlo bisogna essere molto lucidi di testa. Il prezzo più alto che si può pagare nella vita è la perdita della propria libertà”. L’inevitabile capolinea è la cella di un carcere che Ralph “Sonny” Barger ha cominciato a frequentare a partire dal 1957 e l’ultima volta che ne è uscito, ha festeggiato così: “Nella mia prima serata fuori dal carcere si teneva un concerto di Willie Nelson all’Oakland Coliseum. A promuovere lo spettacolo erano Deacon e Fu con la loro Magoo Productions. Al concerto c’era tutto il club. Io portavo un grosso cappello da cowboy e bevevo da una bottiglietta di whisky, mentre Willie dedicava Whiskey River a Sharon e a me. Willie non fece segreto ai giornalisti di essere mio amico e disse alla stampa che era contento di vedermi finalmente fuori”. I duri non ballano.
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