Qualcuno l’ha chiamata la “guerra dimenticata” e non senza una ragione, perché il conflitto nella terra coreana, a ridosso del trentottesimo parallelo sembra appartenere ad un’era lontanissima, di cui ormai si è persa ogni traccia di memoria. Eppure ci divide poco più di mezzo secolo e, rileggendo in War Trash le cronache drammatiche dei combattimenti e dei massacri, della prigionia e delle torture, delle trattative e delle ribellioni, si ha come l’impressione che Ha Jin abbia voluto mantenere fede al sintetico e quanto mai perfetto titolo, tracciando un profilo della guerra che potrebbe valere per ogni occasione. In War Trash c’è però qualcosa di più: l’odissea di Yu Yuan parte dalla Cina, passa attraverso il fronte in Corea per arrivare ai campi di prigionia americani. Si lascia alle spalle la madre e la fidanzata e si ritrova a combattere senza equipaggiamento, in un clima gelido, con razioni striminzite. Gli ufficiali sono impreparati, i piani sono costituiti dall’unica teoria strategica delle “ondate umane”, l’obbedienza al partito è più di una fede e i soldati americani non sono quei codardi che la propaganda aveva propinato. Tra l’altro, hanno stormi di aerei pronti a sganciare tonnellate di bombe e ben presto Yu Yuan resta senza cibo, senza armi, al freddo e abbandonato a se stesso. Ferito gravemente e caduto prigioniero, deve lottare ancora su più fronti: da una parte i nazionalisti di Taiwan vogliono impedirgli di tornare in Cina e arrivano persino a tatuargli “fuck communism” sullo stomaco. Dall’altra i fedeli obbedienti al partito lo inquadrano e pretendono cieca obbedienza. Yu Yuan non si capacita dell’enorme quantità di prigionieri che popolano i campi di detenzione degli americani, ma forse dimentica quello che diceva Demostene: “un soldato che scappa è buono per un’altra guerra”. Una volta curato e medicato deve subire le angherie dei nazionalisti, i processi dei maoisti nonché le prepotenze dei soldati statunitensi e sudcoreani. Le ferite, le privazioni, le torture sono parte di un’estenuante lotta per la sopravvivenza, una battaglia giornaliera per il cibo, per il sonno, per la salute mentale e per la salvaguardia di un ultimo, minimo e miracoloso residuo di dignità umana. Yu Yuan subisce tutto aggrappandosi alla forza di volontà, a frammenti volubili di ricordi, alla flebile speranza di tornare a casa. L’addestramento, limitato ai principali rudimenti del combattimento, non prevedeva altri strumenti e come dice Yu Yuan, “a parte il suicidio, non ci avevano dato altre istruzioni sulla condotta da tenere nel caso fossimo fatti prigionieri”. Per lui la guerra non finisce, nemmeno quando è finita. Rimpatriato, viene sottoposto a una lunga serie di interrogatori e “autocritiche” per verificare la fedeltà al partito. “Le sessioni di studio”, come vengono chiamati gli auto da fé vertono su tre principi fondamentali che vale la pena enunciare per intero: “1) Il fatto stesso che siete stati fatti prigionieri è una vergogna. Avreste dovuto combattere il nemico fino all’ultimo respiro ma non l’avete fatto. Pertanto siete dei codardi. 2) Come possono dei codardi portare avanti la lotta contro il nemico? Anche se si sono verificati episodi di resistenza all’interno delle prigioni, questi sono stati dettati soprattutto dal vostro istinto di sopravvivenza. Perciò non potete vantare alcun merito e dovete confessare i vostri misfatti e le vostre colpe. 3) Della vostra prigionia non potete che incolpare voi stessi, senza attribuirla a cause esterne”. Lo stile di Ha Jin, volutamente monocorde, sembra fatto apposta perché sia il lettore a cogliere la complessità della storia di Yu Yuan, il protagonista, che vive tutta la guerra, senza esclusione di colpi. Il suo diario day by day diventa allora un ritratto impietoso, a tratti persino dolente che ha anche il pregio di raccontare “la guerra come un’enorme fornace alimentata dai corpi dei soldati”, senza subordinate e fuggendo qualsiasi tentativo moralistico. Un libro scomodo e, proprio per questo, persino educativo.
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