Come ricorda Colum McCann “Borges scrisse che bastano due specchi l’uno di fronte all’altro per formare un labirinto”, ed è proprio così che Apeirogon nasce da una spirale sterminata di sofferenza, riuscendo comunque, nonostante tutto, a risparmiare un alito di speranza. Non è poco, e comincia dall’incontro tra Bassam Aramin e Rami Elhanan, che hanno perso le rispettive figlie, Abir (per un proiettile di gomma) e Smadar (in un attentato suicida). Dovrebbe essere relativo che Bassam sia palestinese e Rami, israeliano, perché l’atrocità del dolore non conosce confini, ma se il confronto tra i due padri esula dal contesto, nello stesso tempo è la tragedia stessa di quel contesto. Si rivedono uno nell’altro ed è un gioco di rifrazioni ingannevoli, un dedalo morale che si sovrappone alle difficoltà dei loro pellegrinaggi. Per trovarsi, e per parlare, i due protagonisti devono subire le stesse vessazioni: posti di blocco, controlli, sorveglianza continua, ossessiva. Ogni volta le asfissianti procedure si presentano con cieco accanimento, ma poi non è finita perché la loro richiesta di dialogo è vista in modo ambiguo, come se vittime, e padri di vittime del tutto innocenti, dovessero avere le risposte a secoli di faide e caos. La percezione di Colum McCann è insieme una panoramica dall’alto, dove il volo degli uccelli incontra quello dei droni, degli elicotteri, dei missili e di altri oggetti non identificati, e una scrupolosa cernita dei dettagli che trova nella raffinata scrittura la soluzione ideale per ammettere infine: “Chi può dire dove finiscono le cose? Le cose vanno avanti. È così questo mondo. Capite cosa intendo? Non so se riesco a dirvi esattamente quello che intendo. Abbiamo le parole, ma a volte non bastano”. È così: le due voci si attraggono e nello stesso tempo si respingono, per le condizioni in cui si trovano, proprio come poli magnetici, e attorno a loro Colum McCann costruisce un’elaboratissima architettura perché non si può semplificare un problema complesso e forse non lo si può nemmeno spiegare. Per renderlo intellegibile, si lascia trasportare dalle divagazioni e dalle estrapolazioni finché “la storia che si trasfigura in un’altra” svela una struttura che prevede molte deviazioni di percorso, con interazioni che toccano l’ornitologia, le arti figurative e performative, la musica (dai Talking Heads a John Cage) che Colum McCann interpreta e assembla come un mosaico la cui dimensione si intravede soltanto alla fine. La costruzione di Apeirogon è immaginifica e razionale nello stesso tempo: ogni piccola (piccola?) variazione implementa un nuovo moto di direzioni, possibilità, visioni e tutti i sensi sono mobilitati per mostrare la terra divisa e insanguinata. Per poterla attraversare si deve affidare al concetto borgesiano di “irrealtà visibile” ed è lì che Colum McCann incornicia questo flebile, ma necessario tentativo di comunicazione in un viaggio senza meta, a tratti disturbante, che si sviluppa con gradualità, e con insistenza, grazie al ritmo proprio della scrittura e trova una sua continuità come se fosse una trasmissione radiofonica clandestina, in diretta, senza interruzioni. Il senso, in effetti, è un po’ quello: non risolve le fratture, le distanze, ma le colloca sotto una luce diversa cercando di realizzare “una comunità di sentimento” e “una mitologia delle pulsioni”. Apeirogon è “un poligono con un numero infinitamente numerabile di lati” e, per la precisione, “dove l’infinitamente numerabile è la più semplice forma di infinito. Cominciando dallo zero, è possibile ricorrere ai numeri naturali per contare senza sosta, e sebbene tale conteggio possa andare avanti per sempre, è tuttavia possibile raggiungere un qualsiasi punto dell’universo in un lasso di tempo finito”. Il paradosso matematico è la fonte di un lavoro poderoso e insieme fragile perché basta un nonnulla per perdere il filo e ritrovarsi al punto di partenza, disorientati. Ma c’è un’armonia che tiene insieme questo strano libro ed è la certezza che “non finirà finché non parliamo”. Ci vuole del coraggio ad affrontare le divisioni, lo stacco, la spaccatura, l’odio, i muri e le barriere, la violenza quotidiana continua e assurda. E così in un elenco di ipotesi, un romanzo costruito su una storia vera e poi sviluppato come un modello matematico che si espande con una progressione autonoma, Colum McCann, pur con tutta la fallibilità del linguaggio e delle parole, riesce a districarsi in un mondo folle e feroce. È un processo certosino, svolto con cesello e lente di ingrandimento, un puzzle che si rivela passaggio dopo passaggio e più ci si inoltra nel perimetro infinito di Apeirogon, più Borges si rivela la guida, è la voce che emerge cadenzando il racconto di Colum McCann che tocca l’anima della desolazione con un’approssimazione scientifica nel metodo e millimetrica nel dettaglio, che lascia senza fiato. Deve essere stato un sfida scriverlo, almeno quanto leggerlo, perché proprio come diceva Borges in L’artefice: “È strano che ci siano sogni, specchi che il logoro, consueto repertorio d’ogni giorno comprenda l’illusorio orbe profondo ordito dai riflessi”. Apeirogon è un formidabile miraggio, ed è tutto vero.
venerdì 20 agosto 2021
mercoledì 11 agosto 2021
James Ellroy
Freddy Otash è una conoscenza di lunga data negli inferni hollywoodiani di James Ellroy che, romanzo dopo romanzo, si è guadagnato un posto in prima fila, fino ad assurgere al ruolo di protagonista come già succedeva in Ricatto e come si ripete e si moltiplica nel bis di Panico. Per cui, niente di nuovo sul fronte occidentale: Freddy Otash ordisce trame, intrighi e complotti senza soluzione di continuità. Ha legami e connessioni con l’intera Los Angeles e, come è tradizione nell’area, vive in macchina e la strada è la sua casa. Si nutre di alcol e anfetamine, sguazza nella merda con grandi soddisfazioni e notevoli fallimenti, ma se dice qualcosa, il romanzo di James Ellroy, è che rimane solo una parte irrilevante, un piccolo, infinitesimale ingranaggio di un meccanismo molto più grande, complesso e micidiale. Non invisibile: nell’indefinita rincorsa al potere, la commistione tra politica, fiction e disinformazione che nel corso degli anni ha prodotto veri e propri effetti monstre, e non solo in America, come ben sappiamo. Per dirla con Freddy Otash: “Hollywood ti incula sempre quando nessun altro è disposto a farlo”, e anche questo, bisogna dirlo, è un dato di fatto. Ma Panico va a fondo, all’inizio di tutto, nel ventre della bestia, e James Ellroy, dall’alto della sua posizione cinica, distorta e irrispettosa crea un furibondo frullatore che macina senza pietà e con divertita brutalità miti, leggende, realtà e invenzioni americane. Nel Panico ci finiscono un po’ tutti: James Dean e Rock Hudson, Charlie Parker e Art Pepper, nonché Marlon Brando, ma soprattutto Caryl Chessman in attesa di essere giustiziato, figura attorno alla quale ruotato le ossessioni di Freddy Otash e un po’ tutto il senso della storia. Neanche a dirlo, naturalmente non manca neanche John (o Jack) Kennedy, qui in versione astro nascente, promettente senatore e vulnerabile animale notturno. Dal 1949 al 1960, Panico è l’ennesima immersione senza via di scampo in una Los Angeles torbida e frenetica, descritta come “una corsia d’ospedale per malattie polmonari” e illuminata dai bagliori dei test nucleari nel deserto: uno sfondo perfetto per un teatro di ricatti e omicidi, di appetiti incontrollabili e decadenza senza fine. Non ci sono colpevoli o innocenti, solo capri espiatori. Indizi, non prove. Segreti, e una pioggia acida di pettegolezzi che allineano avidità, lussuria, e tutti i peccati capitali messi in fila in un’apocalisse di turpitudini, trascritta come se fossero gli appunti per un romanzo, piuttosto che un romanzo vero e proprio. Prendere o lasciare: con sommo piacere e celebrandolo sull’altare del caos, James Ellroy diventa Freddy Otash, “un poliziotto corrotto e un gorilla che usa le maniere forti con troppo passato e nessun futuro da perdere”. L’esecuzione risulta disturbante con quel martellare parossistico di allitterazioni e reiterazioni e con l’assenza (non una novità) di una prosa formalmente compiuta, ma qui è tutto scorretto, sgangherato, deviato e, in breve, davvero caustico. Per fortuna, anche perché con ogni probabilità non esiste un altro modo per raccontare queste storie. Del resto, sia James Ellroy che Freddy Otash convengono nel dire che “noi siamo fedeli alla nostra merda”, e Hollywood nel Panico è una fogna a cielo aperto, ma resta ancora il più grande sogno di tutti e di sempre.
lunedì 9 agosto 2021
Jordan Farmer
L’essere umano è costituito in larga parte di acqua, anche quando deve condividere le deformità del corpo, come succede a Hollis Bragg, songwriter talentuoso e tormentato e ritiratosi a vita privata, ben sapendo che “la musica è l’unica forma d’arte che ti permette di nasconderti”. Di motivi per rifugiarsi nell’anonimato ne ha parecchi: un’infanzia permeata dalla figura funesta del padre, un ambiguo predicatore e il legame con Angela Carver, interprete delle sue canzoni e per un breve quarto d’ora, compagna nel successo. Le loro storie sono come placche tettoniche che muovendosi un flashback dopo l’altro, generano quel particolare attrito che muove Un diluvio di veleno con un ritmo sincopato e rocambolesco che tocca una realtà ineluttabile e la marchia di rosso. Hollis Bragg è testimone involontario dello scempio compiuto a Coopersville, dove le falde acquifere sono state intossicate da un gravissima perdita di sostanze chimiche. La Virginia occidentale è un territorio particolarmente bersagliato dai veleni, come già è stato ben illustrato in Dark Waters, il film based on a true story di Todd Haynes che raccontava l’inquinamento da acido perfluoroottanoico rilasciato dalla DuPont. Quello che succede con Un diluvio di veleno non è dissimile, solo che invece delle aule dei tribunali, a Coopersville si passa alle vie di fatto e una strana rock’n’roll truccata da film horror, decide di punire il responsabile del disastro ecologico. Suo malgrado, Hollis Bragg viene coinvolto nell’esecuzione del complotto, che sovrappone (almeno) tre piani simbolici. Le maschere dei giustizieri vanno consumandosi mentre la violenza, che è l’elemento più tossico, prende il sopravvento. I conflitti con i padri, che assillano un po’ tutti i personaggi, svelano un senso del tempo sfuggente, che le devastazioni della terra ormai segnano come un conto alla rovescia irreversibile. Infine, il guado ripetuto più e più volte verso casa, è per Hollis Bragg un sorta di ordalia verso la salvezza che è rappresentata dalla musica. È l’elemento che compensa e mitiga le sferzate ballardiane di Jordan Farmer, che lascia ammettere al suo songwriter preferito che “le vere canzoni, quelle che si impiantano nel profondo di ognuno di noi, sono quelle che ci sembra di conoscere da sempre. Sono diverse l’una dall’altra eppure danno istintivamente conforto come la voce di una madre”. È proprio lì che va cercato il senso di Un diluvio di veleno, quando Hollis Bragg dice: “nella mia immaginazione, l’uomo sta suonando per il bambino la stessa canzone che usava cantare a una donna quando gli alberi germogliavano in primavera, quando le stagioni come la primavera esistevano ancora e c’erano ancora i prati verdi su cui sdraiarsi”, è inevitabile tornare a ricordare quello che Rachel Carson scriveva in Primavera silenziosa: “L’acqua va anche considerata dal punto di vista di tutta quella catena di esseri viventi che da essa trae nutrimento, dal pulviscolo di verdi cellule noto come il nome di fitoplancton alle minuscole dafnie ed ai pesci che filtrano il plancton per il loro nutrimento e sono a loro volta divorati da pesci più grossi, o da uccelli e procioni, e si snoda in un ciclo continuo di dare ed avere da un individuo ad un altro. Sappiamo che i minerali presenti nell’acqua passano attraverso tutta la catena alimentare. Come non pensare che le sostanze nocive immesse nell’acqua entrino in gioco anche in questi cicli naturali?”. È quello che lascia intendere Un diluvio di veleno: è una civiltà morente quella che uccide i fiumi.
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