Lasciate
perdere le baleniere e le prede che inseguono. Quelle navi,
secondo Giacca
bianca sono
soltanto squallide ombre all’orizzonte rispetto
alla Neversink alias
(in realtà) United
States,
fregata della marina militare americana. La distinzione, non priva di
ironia, è dello stesso Melville che trascorre una crociera di un
anno, doppiando Capo Horn e arrivando nella baia di Rio. La
descrizione di Herman Melville è fitta, nitida e particolareggiata
come un diario di bordo alternativo, frutto di quella che chiama La
ricerca della poesia tra mille difficoltà,
uno dei tanti titoli dei capitoli di Giacca
bianca già
esplicativi in sé. La vita, o meglio, “il tumulto che regna” su
una nave da guerra, è una macchinosa trattativa quotidiana con lo
spazio limitato, con le dure esigenze della navigazione e con gli
elementi, altrettanto estremi. Gente
di mare particolarmente soggetta a subire le condizioni del tempo,
sa come affrontare la burrasca e la bonaccia, ma è sempre in
difficoltà nella convivenza obbligata tra le pareti catramate del
vascello perché “qui i figli delle avversità s’incontrano con i
figli delle calamità, e qui i figli delle calamità s’incontrano
con la prole del peccato”. Con un equipaggio di cinquecento
uomini, Lo
stato sociale su una nave da guerra è
soggetto a numerose variabili, spesso contraddittorie. Gli ordini
sono perentori, l’organizzazione è disciplinata dagli articoli
di guerra,
giorno e notte sono scanditi da compiti, postazioni e turni rigorosi,
ogni errore viene corretto a colpi di frusta (anche Giacca
biacca ovvero
Melville rischierà di essere punito per una piccola amnesia). Non
c’è via di scampo: la diserzione, o soltanto un tentativo di
lasciare la nave, portano a conseguenze drammatiche, come succede al
nocchiere. Mentre la Neversink è
ancorata in porto, tenta di raggiungere la riva in cerca di avventure
notturne, ma dopo pochi metri in mare viene colpito alla gamba dal
colpo di fucile sparato da una sentinella. Nel tentativo di salvarlo,
il dottor Cuticle tenterà un’amputazione in una delle scene più
agghiaccianti di Giacca
bianca.
L’abnegazione della “gente di bordo” è raccontata in modo
epico da Melville che mette in risalto anche tutte le altre
variabili, spesso invisibili e impercettibili, con cui si sopravvive
sulla Neversink:
la benevolenza (o meno) degli ufficiali, i rituali e le
superstizioni, il contrabbando, l’alcol e quegli sprazzi di
generosità interpretati da Jack Chase, un nobile lupo di mare,
perché “in realtà una nave da guerra è una città galleggiante”.
Si nota nella somma dei dettagli, delle consegne, degli ordini che
compongono il linguaggio, un gergo che Giacca
bianca riporta
minuziosamente, ricordando “gli uomini alle aspe, quelli pronti a
incocciare le gaschette dal viradore alla gomena, quelli che alavano,
quelli al viradore, i lavativi e tutti gli altri, si arrampicarono su
per le scalette fino ai bracci e alle drizze, mentre, come scimmie
sulle palme, quelli che mollavano le vele uscivano su quegli enormi
rami, i nostri pennoni; e giù si dispiegavano le vele come nuvole
bianche dall’etere, gabbie, velaccini, velacci e stragli; e via,
forza con quelle drizze, fino a che ogni vela fu ben tesa”. Per
quanto inserito a pieno titolo nella ciurma, Melville rimane molto
polemico nei confronti della marina e, per estensione, del governo.
Le ragioni non mancano: le condizioni di vita proibitive, la violenza
delle punizioni corporali (la fustigazione, che condanna in diversi
capitoli), i ritmi massacranti, la scarsezza del cibo e del sonno,
più di tutto la distanza tra gli ufficiali (compreso un ammiraglio
alcolizzato) e l’equipaggio, lo angustiano. Herman Melville non
riesce a conciliare “l’aristocrazia su una nave da guerra” e
“la democrazia di tutte le cose”, implicita nella primordiale
idea della rivoluzione americana. Il naufragio (metaforico) è
nell’aria e Melville lo avverte quando dice che “allora finché
esisterà una nave da guerra essa rimarrà sempre il paradigma di
quanto c’è di tirannico e di repellente nella natura umana”.
Fine. La sfida sarà un’altra: al largo, dietro le creste delle
onde, s’intravede Moby
Dick.
venerdì 30 giugno 2017
martedì 27 giugno 2017
Greil Marcus
Secondo
Greil Marcus, i Sex Pistols, capaci di firmare tre contratti diversi
per fare un solo disco in tutta la loro storia sono stati “un fuoco
di paglia, una meraviglia, una fabbrica per far soldi e per farsi
qualche risata, un tocco del vecchio épater
la bougeoisie”. L’esistenza di un meteora
così abbagliante è stata permessa dal fatto che, come scriveva Guy
Debord, “la realtà sorge all’interno dello spettacolo, e lo
spettacolo è reale”, e il gioco prevedeva ruoli e interpreti
imprevisti, con un precedente illustre in America. L’associazione
tra l’irruzione di Elvis e quella dei Sex Pistols ha una sua logica
stringente che Greil Marcus semplifica con precisione quando dice che
“comunque, Elvis Presley e i Sex Pistols hanno cambiato
l’impostazione della vita quotidiana, ne hanno alzato la posta. Se
quello che hanno fatto non ha provocato nessuna vera e propria
rivoluzione, ha comunque reso la vita più interessante in tutto il
mondo, e la vita continua ancora a essere più interessante di quanto
sarebbe stata se non fossero mai apparsi”. Su questo non c’è
ombra di dubbio. I Sex Pistols sono stati ancora (più) devianti
nella natura europea e nel focalizzare l’elemento di rottura oltre
la musica e le canzoni visto che “il rock’n’roll, avrebbe detto
Johnny Rotten, era solo la prima di molte cose che i Sex Pistols
intendevano distruggere. Eppure poiché non avevano altre armi,
poiché loro malgrado erano dei fans, i Sex Pistols suonavano
rock’n’roll riducendolo a velocità, rumore, furia e gioia
maniacale come nessun altro aveva fatto prima”. Erano marziani
almeno quanto Elvis, prima di loro, ma avevano aggiunto una patina di
colore ambiguo e brillante nel negare il passato e nel declamare il
“no future”: “Quello era il punk: una carrellata di vecchie
idee rese sensazionali da nuovi sentimenti che istantaneamente si
trasformarono in nuovi cliché, ma imposti con una tale forza che il
tutto sballò le sue equazioni giorno per giorno. Per ogni falsa
novità ce n’era una vera: per ogni posa di terza categoria, c’era
una posa di quarta categoria che si trasformava in un vero motivo”.
Non c’è una tesi concreta da seguire o condividere nelle Tracce
di rossetto, piuttosto una miriade di
connessioni, coincidenze, sovrapposizioni simboliche e metaforiche
che Greil Marcus prova a collegare, inserendo i Sex Pistols in un
contesto di rivolte, teorie e improvvisazioni sul tema, che vanno
dagli anarchici ai dadadisti, dai situazionisti al maggio francese
del 1968 all’estrema radicalizzazione seguita a Never
Mind The Bollocks. Il tentativo, ambizioso e
non privo di un solido background, si rivela riuscito soltanto in
parte, ovvero nella prima metà delle Tracce
di rossetto, dove si intravede nel
rock’n’roll “il più puro esempio di
laissez-faire che il capitalismo avesse mai
conosciuto”. Da lì, e già non è molto chiaro, rendere
intelligibili i “percorsi segreti” resta un bel miraggio, come se
Greil Marcus invece di sciogliere i nodi si fosse arreso, limitandosi
a indicare le pure numerose analogie e finendo per accorgersi che,
nei corsi e ricorsi della storia, “il disturbo dell’ordine
pubblico ha poca importanza”. L’ammissione non è relativa ed è
ampliata e circostanziata, con uno spicchio d’ironia, nella
citazione tratta da Routine Pleasures:
“Siamo tutti come attori non protagonisti di un film di Preston
Sturges pronti a testimoniare davanti alla giuria di un piccolo paese
in termini la cui rilevanza sfuggirebbe a chiunque tranne che a noi”.
Resta il fatto che nel momento in cui vedi roteare un’asta del
microfono, senti sferragliare la chitarra in Holiday
In The Sun o il salmodiare folle di Anarchy
In The UK, l’istinto suggerisce, come dice
Pete Townshend, che quello è “il modo in cui dovresti passare
tutta la tua vita”. E non è molto diverso nell’avvicinarsi
attraverso i dischi perché “la potenza in questi pezzetti di
plastica, la tensione tra il desiderio che li alimenta e il fatalismo
che è pronto a bloccare ogni battito, la risata e la sorpresa nelle
voci, la fiducia nella musica, tutte queste cose ora sono scioccanti,
perché in due o tre minuti ciascuno è un assoluto. Non puoi
attribuire a un disco più valore che a un altro, non mentre
l’ascolti; ciascuno è la fine del mondo, la creazione del mondo,
completo in se stesso”. E’ forse la definizione più completa di
Tracce di rossetto,
poi il lavoro di ricerca è enorme, congruo e considerevole, ma più
vengono accumulate nozioni e salti indietro nel tempo e meno evidente
è il senso compiuto, finché “tutto ciò che resta sono desideri
senza linguaggio”. Greil Marcus, fiutando la trappola e avendo
assorbito per osmosi le abitudini truffaldine dei Sex Pistols, aveva
messo le mani avanti fin dall’inizio di Tracce
di rossetto, quando ammette che “non si
possono risolvere gli autentici misteri, si possono però trasformare
in misteri più interessanti”. Questo, sì, gli è riuscito alla
perfezione.
domenica 25 giugno 2017
Lydia Davis
Creature
nel giardino, che incolla due
raccolte di Lydia Davis, Samuel
Johnson è indignato e Varietà
di disagio, rappresenta un excursus
più che sufficiente a cogliere l’essenza di uno stile unico e
spiazzante. I suoi frammenti sono calembour, sciarade, rebus, giochi
di parole minuscoli, persino sottili alchimie nell’uso del corsivo
in Modi di ricordare
(“Ricordati
che sei polvere. Cercherò di tenerlo
a mente”), piccoli enigmi come
Perdere la memoria
(“Mi chiedi di Edith Wharton. Sì, il nome mi suona familiare”),
l’apologia di una scoreggia in Fare
aria o una Storia
orale (con singhiozzo), e non si
capisce se Lydia Davis sia geniale o (soltanto) irriverente. Le
sfumature fantastiche in La tribù
bianca o l’horror in La
paziente sottolineano alcune
peculiarità proprie delle Creature
nel giardino e insieme un’idea non
molto edificante della società in cui viviamo a partire dalla
Televisione,
dove “tutto ha inizio con il puntino azzurro al centro dello
schermo scuro, è allora che hai la percezione che le immagini ti
arriveranno da molto lontano”. All’estremo opposto, perché Lydia
Davis non si risparmia, le strutture hanno costruzioni più
elaborate, fino all’eccesso di Verso
sud, legge Worstward Ho un racconto
che si sdoppia in un altro nelle note a piè di pagina. Tra l’altro
svela, e non solo dal titolo, un punto di riferimento inevitabile
nell’articolare un linguaggio ridotto al minimo, ovvero Samuel
Beckett, che in Quello che è strano,
via, definiva questa “grande
necessità di parole senza osare finché alla fine lento riflusso
dieci secondi, troppo veloce, trenta adesso, grande necessità senza
osare finché alla fine lento riflusso trenta secondi sulla terra
attraverso mille grigi che sprofondano nell’ombra”. E’
l’incomunicabilità trasposta nelle stesse frasi, ripetute,
insistenti, come rappresentazione plastica e assurda di un dialogo
impossibile. Lo spaccato è quello di coppie o famiglie scheggiate,
fragili e divise, dove le parole sono un ostacolo, spesso
insormontabile perché come scrive in La
trasformazione “ci sono dei limiti
alle cose che si possono accettare, persino se sono cose
impossibili”. Lydia Davis riporta a terra le parole, dietro la
maschera di “una disperazione leggera” che in realtà, è
“autocoscienza”, come l’ha definita Jonathan Franzen, che in
effetti risulta l’elemento determinante in Priorità
o Propositi per l’anno nuovo,
dove concede che “il mio proposito per l’anno nuovo è imparare a
vedermi come un niente”. Non è un lavoro facile, in gran parte è
un concentrato di Solitudine,
titolo di quattro righe che si specchiano e si sovrappongono, un
esempio lampante della scrittura di Lydia Davis (“Non mi chiama
nessuno. Non posso controllare la segreteria telefonica perché sono
rimasta a casa per tutto questo tempo. Se esco, potrebbe telefonare
qualcuno mentre sono fuori. Allora quando tornerò potrò controllare
la segreteria telefonica”) che poi sembra ripetersi come eco
naturale di Compagne (“Ce
ne stiamo sedute qui, io e la mia digestione. Io leggo un libro e lei
smaltisce il pranzo che ho mangiato poco fa”). Senza alcun dubbio
Lydia Davis e le sue scoppiettanti proposizioni sono Speciali,
e nella sua ammissione, in qualche modo conclusiva, nel racconto con
lo stesso titolo, c’è ancora una domanda spalancata: “Noi
sappiamo essere molto speciali. Eppure continuiamo a cercare di
capire in che senso: non in questo non in quello, in quale allora?”,
ed è tutto. Prendere o lasciare.
mercoledì 21 giugno 2017
Henry Miller
In fuga dall’Europa,
dove ormai la seconda guerra mondiale sta cancellando ogni illusione
di civiltà, Henry Miller si siede al volante e macina diecimila
miglia, convincendosi che “l’unico modo di vedere l’America è
in macchina: così dicono tutti. Non è vero, naturalmente, ma suona
bene. Non avevo mai posseduto una macchina, non sapevo nemmeno
guidare”. L’idea del viaggio è risalire alla fonte, alle radici,
solo che tra la nostalgia della cultura europea e l’insoddisfazione
personale lo trasformano in un’odissea caustica. Il paragone tra
Parigi e Mobile è impietoso, gli unici quartieri che lo affascinano
sono quelli di Charleston e New Orleans dove l’influenza francese è
palpabile, per il resto la sua considerazione per l’America è
radicale, sprezzante, tranchant. In una lettera scrive: “Che paese
meraviglioso l’America. Ti fotte a ogni passo”, e poi ci vuole un
bel coraggio a definire Walt Disney “un maestro dell’incubo”,
ma non a caso l’America autentica è soltanto quella in cui la
presenza umana è insignificante, dove “c’è un enorme rettangolo
che abbraccia porzioni di quattro stati, Utah, Colorado, New Mexico e
Arizona, e è tutto incanto, stregoneria, illusionismo,
fantasmagoria. Forse il segreto del continente americano è racchiuso
in questo territorio selvaggio, impervio e parzialmente inesplorato”.
E’ solo deserto, lì, e rende plausibile l’ipotesi che gli strali
di Henry Miller fossero indirizzati verso l’umanità in generale
più all’America, nello specifico. Dirà la stessa Anaïs Nin:
“L’avventura di Henry è distruttiva, è una catastrofe, un
sacrificio. Perché in questo viaggio non c’è niente di
costruttivo, non fa altro che sputare in faccia all’America, come
un predicatore che pronuncia un sermone infinito”. Come tutte le
omelie, anche L’incubo ad aria condizionata contiene aspetti
caricaturali e profetici in uguale misura, entrambi non trascurabili,
soprattutto quando Henry Miller declama: “Non si fa un mondo nuovo
cercando solo di dimenticare il vecchio. Un mondo nuovo lo si fa con
uno spirito nuovo, con nuovi valori. Può darsi che il nostro mondo
sia cominciato così, ma oggi è una caricatura. Il nostro mondo è
un mondo di cose. E’ fatto di comodità e di lusso, oppure del
desiderio di entrambi. Ciò che temiamo di più, di fronte
all’incombente débâcle, è che saremo costretti a rinunciare ai
nostri aggeggi, alle nostre carabattole, a tutte le piccole comodità
che ci hanno dato tanta scomodità. Nella nostra condotta non c’è
niente di coraggioso, di cavalleresco, d’eroico o magnanimo. Non
siamo anime pacifiche; siamo timidi, affettati, schizzinosi e
gemebondi”. Non di meno, il giudizio e la sentenza per e con gli
americani vengono estesi verso l’intero genere umano: “Conosciamo
soltanto una piccola frazione della storia dell’uomo su questa
terra. E’ una lunga, monotona, dolorosa successione di catastrofici
mutamenti che implicano a volte la scomparsa di interi continenti.
Narriamo la storia come se l’uomo fosse una vittima innocente, un
inerme partecipante alle casuali e imprevedibili rivoluzioni della
natura. Forse lo era in passato. Ma ora non più. Oggi, qualunque
cosa accada a questa terra, è opera dell’uomo. L’uomo ha
dimostrato d’essere padrone d’ogni cosa: tranne che della propria
natura. Se ieri era figlio della natura, oggi è una creatura
responsabile. Ha raggiunto un punto di consapevolezza che non gli
consente più di mentire a se stesso. La distruzione è ora
deliberata, volontaria, autoprovocata. Siamo a un bivio: possiamo
andare avanti o ricadere. Abbiamo ancora la possibilità di
scegliere. Domani forse no”. Allora non poteva saperlo, Henry
Miller, ma il dubbio lo risolveva già nella curiosa appendice. La
fondazione Guggenheim gli aveva negato un contributo per L’incubo
ad aria condizionata e per chiarire la “tradizione” delle borse,
Henry Miller aveva pubblicato l’elenco del 1941 che, tra le altre
amenità, ne comprendeva una a favore di tale dottor Aristid V.
Grosse, farmacista, Bronxville, New York, per la “continuazione di
studi sui prodotti del bombardamento neutronico dell’uranio,
protattinio e torio”. Quel futuro l’avrebbe visto, dall’altra
parte dell’oceano, guardandolo da Big Sur, senza peraltro cambiare
opinione. Molti anni dopo, nel 1966, avrebbe detto, ancora:
“L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una
specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza.
Così, tu t’immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata,
intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e
uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono,
uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà
a un’idea astratta”. Coerente, fino alla fine.
lunedì 19 giugno 2017
Suzanne Vega
C’è sempre qualcosa di
onirico e di fiabesco nelle canzoni e nella scrittura in generale di
Suzanne Vega, anche quando si dedica a situazioni complicate e a
immagini taglienti (e non solo in senso metaforico). Riesce a
collocare le parole nel senso giusto, le arrotonda, le ammorbidisce,
le addomestica, non importa se deve seguire Le regole contorte della
notte, con l’ambizione di “sentire ogni segreto degli amanti in
battaglia, ogni ombra di rosso e nero”, come scrive Sogno in
marcia, o scrutare Marlene che sorride beffarda dal muro. E’
un’osservatrice acuta, con una grazia insolita e originale, che
merita una briciola d’attenzione, senza pretendere alcunché dato
che, così come lo presenta Suzanne Vega, “questo libro parla di
solitudine, di infanzia, della vita di città, dei mondi della
fantasia, delle cose romantiche, di violenza, dei misteri legati al
sesso, alle apparenze, al fascino, delle difficoltà di comunicare,
di fede e di speranza”. Scorrono frammenti di ispirazione
infantile, appunti di un songwriting impressionistico, paragrafi di
un diario che comprende la scoperta del fado in Portogallo e il
ricordo di una session fotografica con David Bailey, “una sfida che
deriva dal guardare e dall’essere guardati”. Il collegamento con
la riflessione Sulla mascolinità che segue di poche pagine è
obbligatorio e automatico: “Per me le persone sexy sono quelle che
hanno senso dell’umorismo, che sono intelligenti, che hanno un po’
di senso dello stile; le persone gentili, quelle che esprimono le
proprie opinioni, quelle che sono creative, quelle che hanno
personalità”. Senza ambire a definizioni intellettuali, e pur
restando una delle Neighborhood Girls, lo sforzo è tutto nel
tentativo di trovare un senso, con una convinzione cristallina visto,
come ammette in Antieroe, che “sbatto la testa contro il mondo
finché non lo capisco”. Il rimedio allo scontro e alle ferite è
una scrittura che comincia dalle istruzioni illustrate da Suzanne
Vega in Come scrivere una poesia: “Devi prendere la lingua,
scuoterla bene, sottometterla, reggerla, tenerla ferma. Bloccala
quando si agita. Prendila a bastonate. Poi usa lo scalpello, la lima.
Modella, scava, falle la punta e rendila affilata, cava, liscia e
tonda”. Così facendo, affiora una sensibilità, una delicatezza
che le permette di accorgersi che “non è il pugno chiuso, e
neanche il colpo, o l’occhio nero. E’ l’inattesa tenerezza che
ti fa piangere”, come scrive in Fatto. Aspettando quell’epifania,
si può scegliere tra una Canzone notturna e una Canzone in affitto,
ma il senso alla fine è sempre quello: “Prendi questa parola falle
fare due giri intorno al cuore, uno per tenerlo insieme l’altro
perché non vada in pezzi”. Anche nei racconti, dove specifica le
sfumature del Cielo azzurro e sangue sulla 10a Avenue o nelle Storie
di sogni Suzanne Vega osserva una specie di distanza, una
discrezione, come se dovesse chiedere il permesso ogni volta, “come
se avessi imparato a vedere e parlare di quello che ho visto anche se
non conosco parole per quello che ora so”, scriveva in La chiave
del regno. E’ una “piccola cosa blu”, e lo stesso colore della
chitarra di Wallace Stevens è qualcosa in più di un indizio.
martedì 13 giugno 2017
Philip Dick
Philip K. Dick ha svolto
un ruolo fondamentale nell’immaginario della seconda metà del
ventesimo secolo e la sua influenza non si è ancora esaurita, anzi.
Le sue visioni hanno anticipato soluzioni scientifiche e catastrofi
tecnologiche, con punte di vera e propria profezia (come scriveva nel
1981 in Predizioni: “1985. Intorno a questa data, o prima, si
verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in
Unione Sovietica o negli Stati Uniti, in seguito al quale verranno
chiuse tutte le centrali nucleari”) e interpretando con ammirevole
lungimiranza argomenti di straordinaria complessità (e oggi
d’attualità) quali la manipolazione genetica o la clonazione.
Mutazioni è una raccolta ricca ed eterogenea, eppure molto valida
nel rappresentare le forme del pensiero di Philip Dick, che si
considerava narratore almeno quanto filosofo. La varietà delle forme
contenute, dall’intervista alla recensione (tra i più citati
Theodore Sturgeon, ammiratissimo, Ray Bradbury, Jules Verne, Harlan
Ellison, ma anche songwriter come Jim Croce e Don McLean), dalle
trame per romanzi in embrione alle bozze di alcuni capitoli,
rappresentano con efficacia il percorso umano, intellettuale e
letterario di Philip K. Dick che non è stato soltanto un
(grandissimo) scrittore di fantascienza, ma uno sperimentatore a
tutto campo. La convinzione partiva dall’inizio, dall’idea in sé:
“Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del
romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento
particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. Ha avuto
davvero la forza di immaginarsi altri mondi, e di tradurli in una
scrittura densa, particolareggiata, florida e motivata. Non ha avuto
la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o
semplicemente razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi,
come ampie parti di Mutazioni confermano, si è prodigato nello
studio, nell’analisi e nella ricerca per consolidare le fondamenta
dei suoi viaggi psichedelici. Convinto che “la fantascienza
presenta in forma narrativa una visione eccentrica della normalità o
una visione normale di un mondo che non è il nostro”, si è
distinto come outsider e dissidente perché, come recita una delle
note biografiche riportate da Mutazioni: “Nei suoi romanzi cerca di
dar voce soprattutto alla lotta contro tutte le forme di oppressione
del libero spirito umano: qualsiasi tirannia, dall’assuefazione
alle droghe allo stato di polizia, alle tecnologie per la
manipolazione delle coscienze. Il cittadino comune, privo di potere
economico e politico, è l’eroe di tutti i suoi romanzi, oltre a
essere il suo eroe personale, e la sua speranza per il futuro”.
Anche nascosto tra androidi e viaggi nel tempo e allucinazioni
assortite, è sempre quello il tema ricorrente nei romanzi di Philip
Dick nella convinzione che “l’uomo continuerà a fare piani e a
tramare anche tra le rovine: il suono della sua voce si farà sempre
risentire”. Mutazioni, pur nella limitatezza dell’approfondimento
offre una visione completa delle diverse aspirazioni di Philip K.
Dick, della della sua lucida follia, della sua voce incomparabile,
non è nemmeno tutto. L’immagine di Philip K. Dick che scrive in
continuazione, senza sosta, per sbarcare il lunario (“Ho scritto e
venduto ventitré romanzi, e sono tutti orribili, tranne uno. Ma non
so di preciso quale sia”) è forse il suo ritratto più romantico,
e sincero, che lui traduceva così: “Ecco come sono: paralizzato
dall’immaginazione”. Una definizione perfetta, a cui si può
aggiungere solo quello che scriveva Paul Williams nel 1969: “Vi
dirò... Philip K. Dick avrà, sulla coscienza di questo secolo, più
influenza di William Faulkner, Norman Mailer o Kurt Vonnegut”. Se
non altro, è in bella compagnia.
domenica 11 giugno 2017
Michael Hastings
Nominato comandante delle
forze armate americane in Afghanistan nel giugno del 2009, il
generale Stan McChrystal sa che concetti di vittoria o di sconfitta
sono ormai diventati relativi. C’è bisogno di movimento, di
costruire dottrine, di scrivere libri, di difendere le teorie più
che gli avamposti. “Queste guerre che stiamo combattendo sono così
vecchie, così morte”, diceva Don DeLillo e le armi sul terreno di
battaglia non bastano più: i fronti si sono moltiplicati e bisogna
considerare le idee, la politica, la diplomazia, la comunicazione,
più di tutto. Non è chiaro per quale strategia o azzardo, forse
perché l’apparato militare si affida sempre più spesso a
strateghi civili e ne segue i consigli, ma lo staff del generale
McChrystal chiede e ottiene di essere seguito da un inviato di
Rolling Stone. Le vie delle pubbliche relazioni sono infinite e
misteriose e a Michael Hastings, poco più di vent’anni, vengono
accordati confidenza e libero accesso. Michael Hastings non è uno
sprovveduto e non è nemmeno un neofita delle zone di guerra, anche
se resta molto riluttante ogni volta che si deve imbarcare per quelle
destinazioni, eppure con il team di Stan McChrystal e con lo stesso
generale, succede qualcosa: si lasciano andare. I motivi sono da
cercare forse nella natura di considerarsi (forze) speciali, il
sentirsi esclusivi in una missione impossibile, visto che “il mondo
era in crisi, i confini dell’impero sotto tiro e grondanti di
sangue, ma alla fine saremmo riusciti a risolvere tutto”. Michael
Hastings segue Stan McChrystal e il suo entourage a Kabul, Parigi,
Berlino, Washington e si ritrova nel ventre della bestia, in una
bolla di potere, impenetrabile, asfissiante, deformante che ha il suo
apogeo nella farsa e/o tragedia delle elezioni afghane. La guerra
resta sullo sfondo, e quando irrompe è straziante, ma Michael
Hastings concentra tutta l’attenzione sulle dinamiche dei guerrieri
del ventunesimo secolo che “per portare a compimento la missione e
proteggere il loro branco, si trattasse di divulgare alla stampa
informazioni riservate o costringere un presidente a prendere un
provvedimento indesiderato, avrebbero considerato accettabile ogni
violenza, ogni atrocità e ogni azione che fosse stata loro chiesta o
si fossero sentiti obbligati a compiere”. Michael Hastings questo
lo spiega bene in un articolo perfetto, raccontando le distorsioni
della realtà, le lunghe ore di volo, la noia e l’alcol, gli
intrighi, tutto “un castello di parole”, dal presidente in giù,
in “un ambiente in cui cazzo, merda e stronzi figli di puttana
erano considerati alla stregua di congiunzioni”. Il suo punto di
osservazione era uno dei più privilegiati: era sì, embedded, come
tanti altri, ma in qualche modo sfuggiva alle regole e come è noto,
l’articolo (perfetto) costò la carriera al generale Stan
McChrystal, perché “la merda e la cattiva pubblicità rotolavano
sempre verso il basso lungo la scala gerarchica”, ma a distanza di
qualche anno il punto è un altro. Quell’articolo, espanso fino ad
assumere le dimensioni di un libro, pur mantenendo intatta la forza
iniziale, con qualche riempitivo di troppo e qualche ripetizione,
racconta la confusione, gli aspetti surreali, le distorsioni, più di
tutto, l’uso spregiudicato degli strumenti di comunicazione per
influenzare le decisioni a tutti i livelli, tutto per “scuotere il
sistema, attirare più attenzione possibile, niente mezze misure”.
Il paradosso è che Michael Hastings ha raccontato la verità,
pensando di avere fatto “soltanto” il suo lavoro, ma è difficile
credere che si considerasse così ingenuo, visto che è stato
autentico laddove ogni altro tentativo è votato a mistificare,
modellare, trasformare, assecondare altre realtà. Sa di essere
“colpevole di avere infranto una regola non scritta molto semplice:
mai essere onesti quando si scrive dei potenti, soprattutto di quei
personaggi che i media ritengono intoccabili”. Detto altrimenti,
nel gergo in uso sulla rotta tra Kabul e Washington: “I miti non
dovevano essere abbattuti. Io invece avevo mandato tutto a puttane”,
e su questo, sì, non c’è dubbio.
mercoledì 7 giugno 2017
Robert Frank
Gli
americani
interpretati da Robert Frank sono inquadrati nel contesto di un
paesaggio mutevole, che ha come sfondo principale la, “strada
folle che spinge gli uomini ad andare avanti, la folle strada,
solitaria, che ti fa uscire di testa e ti rivela squarci di spazio
verso l’orizzonte”, e
non potrebbe essere diversamente vista l’associazione, spontanea e naturale, con Jack
Kerouac, la cui presenza vale molto più della breve introduzione.
C’è lo stesso, appassionato lirismo nelle fotografie di Robert
Frank, c’è lo stesso afflato ideale, verso “quella folle
sensazione in America” più che verso una dimensione reale: Gli
americani è un
capitolo visivo di un'epopea intraprendente ed entusiasta, non è un classico libro
di fotografia. Quelle di Robert Frank non sono riprese canoniche,
ordinate e/o corrette, dal punto di vista geometrico, o
dell’esposizione, o del taglio. Non hanno didascalie, indicazioni o istruzioni
per l’uso. Sono il frutto di una visione non allineata, non omologata, non consolatoria, ed è per questo Gli
americani venne
pubblicato prima in Francia, con il titolo Les
américains,
perché ritenuto troppo scomodo. E' una collezione di ritratti
immediati, dove il bianco e il nero garantiscono tutta la prospettiva
minima e indispensabile. Le immagini pagano un debito di riconoscenza
nei confronti di Walker Evans e hanno tutta una loro consistenza
perché sono più “le parole del poeta”, come diceva Robert
Frank. Un richiamo sensibile da cui Jack Kerouac non poteva esimersi di rispondere: “Chi non ama queste
immagini, non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia, va’ a
casa e guarda la TV con i cowboy col cappello da cowboy e i poveri
cavalli gentili che li sopportano. Robert Frank, svizzero, discreto,
carino, con quella sua piccola macchina fotografica che tira su e fa
scattare con una mano, ha estratto una poesia triste dal cuore
dell’America e l’ha fissata sulla pellicola, così è entrato a
fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo. A
Robert Frank adesso mando questo messaggio: tu sai vedere. E dico:
quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira
in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove
abita?”, e sono quelle le domande che valgono per tutti Gli
americani. I ballerini e il cowboy a New
York, i bianchi al ristorante e i neri al funerale, le croci e le
stars and stripes (ovunque), i cartelli e le insegne, le attese, le partenze e
gli arrivi, le folle e le solitudini, come se a Edward Hopper
avessero dato una macchina fotografica e tolto i colori. Ha ragione Robert Frank quando diceche “il genio
dell’artista consiste nel guardare il mondo che condivide con noi”,
solo che la sorpresa nel rileggere Gli americani è il fascino di
quello che rimane in sospeso, nascosto, misterioso, benzina per
l’immaginazione, quell’atmosfera del jukebox all’idrogeno e
dell’incubo ad aria condizionata che l’introduzione di Jack
Kerouac suggeriva, lasciando spazio a intere praterie per
l’interpretazione: “Non avevo mai
pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e
ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa
complessità”. Con Gli americani, sulla strada, succedono entrambe le cose.
venerdì 2 giugno 2017
Brian Panowich
Per la famiglia Burroughs
l’omicidio è qualcosa che sta tra l’incidente e l’ineluttabile
necessità di rimuovere un ostacolo, fosse anche il ramo di un albero
genealogico che gronda sangue. Gareth, il padre della discendenza
protagonista in Bull Mountain, Clayton e Halford (nonché di Buckley,
ormai fantasma) ha visto uccidere Rye alias Riley, il fratello di suo
padre Cooper durante una battuta di caccia. L’hanno sepolto nel
bosco, sulle colline impervie della Virginia, senza esitare: il
dominio del clan dei Burroughs non riguarda soltanto il prosperare
dei traffici illegali, che nel corso degli anni sono passati dal
contrabbando di whiskey, alla marijuana e alle metanfetamine (sempre
con il corollario di uno sproposito di armi e munizioni), ma anche e
soprattutto il controllo del territorio. Tradotto nel loro
ridottissimo linguaggio, significa rendersi invisibili su un versante
inaccessibile delle montagne, che è come abitare la faccia nascosta
della luna. Lì, i Burroughs, immersi in una fittissima nebbia
alcolica, conducono un’esistenza determinata dalla violenza
costante, persistente, ossessiva e a senso unico, nell’intenzione
di determinare i destini comuni. Le regole vengono dettate dal
primordiale principio della forza bruta applicata senza avvertimento,
con una crescente potenza di fuoco e non c’è distinzione
possibile: gli affari sono la famiglia, e la famiglia è Bull
Mountain. La variabile nella stirpe dei Burroughs è Clayton, il più
giovane essendo nato nel 1972, che viene eletto sceriffo, un
paradosso che rende bene l’idea del clima di Bull Mountain, perché
nessuno è così temerario da candidarsi contro un Burroughs e
d’altra parte lo votano tutti. Lui scende a valle e si sposa,
mentre il fratello, Halford, di dieci anni più vecchio, rimane a
presidiare le fortezze e i commerci nei boschi. Il tentativo di
Clayton di lasciarsi alle spalle le radici di Bull Mountain, dato che
“per quanto ostile, quel posto era casa sua”, viene messo a
rischio dalla missione di Simon Holly, un agente federale che si
presenta nell’ufficio dello sceriffo con un’ambigua offerta per i
Burroughs, ma i cui veri obiettivi rimangono oscuri e inconfessabili.
Qualche sospetto matura scrutando nell’altro lato di Bull Mountain,
quello femminile. Il terreno dei Burroughs è maschile, macho e
maschilista all’estremo e fa sì che le uniche tre donne che
intersecano la saga costituiscano anche altrettanti elementi di
svolta nella storia di Bull Mountain. La prima (Annette Henson
Burroughs, ovvero la moglie di Gareth e madre di Halford, Clayton e
Buckely) fugge senza voltarsi e sparisce per sempre, ma il vuoto che
lascia è un buco nero. Un’altra ragazza prova a crescere un figlio
in condizioni disumane, ovvero mentre non riesce nemmeno a badare a
se stessa. L’ultima, la moglie di Clayton, dubita, vigila e attende
mentre un nodo scorsoio scorre lungo i crinali fino al centro della
contea, e viceversa, lasciando ben poca speranza sul terreno perché,
come dice James Ellroy, Bull Mountain “ha tutto: whiskey, droga e
caos”. La scrittura di Brian Panowich punta all’essenziale, è
ruspante e avvincente, non cerca né il colpo di scena, né la
suspense: è chiaro in ogni singolo passaggio di Bull Mountain che la
famiglia Burroughs è la nemesi di se stessa. Piuttosto, i ritmi
sincopati e i toni coloriti, che ricordano l’abilità di James
Crumley, spingono a sovrapporsi e a mescolarsi alcuni miti e cliché
tutti americani, che Brian Panowich maneggia con perizia. Dalla
wilderness che, oltre a offrire una casa garantisce una sorta di una
sorta di indipendenza inviolabile e incontrollabile, alla proprietà
e al disinvolto uso delle armi, dalla cruda e spartana realtà “white
trash” alla cultura dei fuorilegge e per estensione dell’outsider,
Bull Mountain è un concentrato esplosivo che non lascia scampo.
Colonna sonora, obbligatoria: Lynyrd Skynyrd, a tutto volume.
giovedì 1 giugno 2017
Patti Smith
Il
sogno raccontato nel verso iniziale di People Have The Power,
la prima canzone di Dream Of Life, assumerà forme diverse e
fluttuando nel corso del tempo, segnerà le tappe della parabola di
Patti Smith cominciata sul finire del ventesimo secolo. Come il
riflesso di uno di quei momenti che paiono non finire mai, l’idea
di Dream Of Life appare per la prima volta proprio con
l’omonimo disco del 1988, un album che riportava Patti Smith alla
vita pubblica, dopo un esilio volontario di (quasi) dieci anni.
Quando quel titolo riappare, nella forma del film di Steven Sebring,
le immagini rincorrono un altro comeback, quello del 1996, quando
Patti Smith è tornata sui palchi con il suo gruppo, ripresa nel
corso del tour. Una costellazione di ricordi che brilla per il senso
del movimento, il rock’n’roll e la vita on the road, il
cameratismo e la fatica, le Stratocaster strapazzate senza pietà e
le Polaroid conservate con cura, i piedi nudi e gli stivali. Un album
del passato e un diario del presente, che nel libro viene
scarnificato e sublimato nelll’immobilità degli scatti, spesso
sfocati, indefiniti, prodotti da strane geometrie come se, più che
fissare un tempo, Patti Smith avesse voluto collocare una
prospettiva. Ogni angolo diventa luogo d’elezione per un simbolo,
un rituale, una magia: il palco e il backstage, l’arte a New York e
la famiglia a Detroit, la strada e l’oceano, ogni attimo è quello
buono per intercettare quella singola scintilla, quel “qualcosa di
diverso” che Patti Smith ha sempre sentito, ammirato e inseguito.
Tutto un immaginario che si autoalimenta e che si riproduce senza
soluzione di continuità, con le fotografie che diventano un collage
labirintico, complicato, più che descritto, dalle brevi didascalie
di Patti Smith. Alla fine, Dream Of Life rimane fedele al suo
titolo paradossale: le istantanee in bianco e nero, i ritratti a
colori, gli schizzi e gli appunti scorrono in un flusso di coscienza
fatto di immagini, più che di parole, una sorta di confessione
visiva che si evolve nella declinazione di un paesaggio interiore.
Patti Smith racconta che “qui, proprio dentro di me, ho trovato un
luogo incantato, solo perché si è lasciato trovare”, frutto
dell’osservazione costante, di una curiosità indomita, fonte
principale quella che chiama “la gioia di avanzare lungo un
processo di scoperta”. In parallelo scorre costante, come sarà
determinante negli anni successivi fino a oggi, l’idea dell’omaggio
e della gratitudine a mentori, ispiratori, complici, eroi: Robert
Mapplethorpe, Bob Dylan, Jackson Pollock, Lenny Kaye, Allen Ginsberg,
Harry Smith, William Blake, Michael Stipe, Philip Glass, i genitori,
i figli e il marito, Fred Sonic Smith immortalato ancora, fino
all’ultimo, nel frontespizio finale. In questo senso, Dream Of
Life termina la “missione” cominciata dalla canzone e dal
disco e proseguita attraverso il documentario di Steven Sebring: tra
un’onda e l’altra, in mezzo c’è il sogno di una vita trascorsa
a rincorrere un ideale di bellezza.
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