Creature
nel giardino, che incolla due
raccolte di Lydia Davis, Samuel
Johnson è indignato e Varietà
di disagio, rappresenta un excursus
più che sufficiente a cogliere l’essenza di uno stile unico e
spiazzante. I suoi frammenti sono calembour, sciarade, rebus, giochi
di parole minuscoli, persino sottili alchimie nell’uso del corsivo
in Modi di ricordare
(“Ricordati
che sei polvere. Cercherò di tenerlo
a mente”), piccoli enigmi come
Perdere la memoria
(“Mi chiedi di Edith Wharton. Sì, il nome mi suona familiare”),
l’apologia di una scoreggia in Fare
aria o una Storia
orale (con singhiozzo), e non si
capisce se Lydia Davis sia geniale o (soltanto) irriverente. Le
sfumature fantastiche in La tribù
bianca o l’horror in La
paziente sottolineano alcune
peculiarità proprie delle Creature
nel giardino e insieme un’idea non
molto edificante della società in cui viviamo a partire dalla
Televisione,
dove “tutto ha inizio con il puntino azzurro al centro dello
schermo scuro, è allora che hai la percezione che le immagini ti
arriveranno da molto lontano”. All’estremo opposto, perché Lydia
Davis non si risparmia, le strutture hanno costruzioni più
elaborate, fino all’eccesso di Verso
sud, legge Worstward Ho un racconto
che si sdoppia in un altro nelle note a piè di pagina. Tra l’altro
svela, e non solo dal titolo, un punto di riferimento inevitabile
nell’articolare un linguaggio ridotto al minimo, ovvero Samuel
Beckett, che in Quello che è strano,
via, definiva questa “grande
necessità di parole senza osare finché alla fine lento riflusso
dieci secondi, troppo veloce, trenta adesso, grande necessità senza
osare finché alla fine lento riflusso trenta secondi sulla terra
attraverso mille grigi che sprofondano nell’ombra”. E’
l’incomunicabilità trasposta nelle stesse frasi, ripetute,
insistenti, come rappresentazione plastica e assurda di un dialogo
impossibile. Lo spaccato è quello di coppie o famiglie scheggiate,
fragili e divise, dove le parole sono un ostacolo, spesso
insormontabile perché come scrive in La
trasformazione “ci sono dei limiti
alle cose che si possono accettare, persino se sono cose
impossibili”. Lydia Davis riporta a terra le parole, dietro la
maschera di “una disperazione leggera” che in realtà, è
“autocoscienza”, come l’ha definita Jonathan Franzen, che in
effetti risulta l’elemento determinante in Priorità
o Propositi per l’anno nuovo,
dove concede che “il mio proposito per l’anno nuovo è imparare a
vedermi come un niente”. Non è un lavoro facile, in gran parte è
un concentrato di Solitudine,
titolo di quattro righe che si specchiano e si sovrappongono, un
esempio lampante della scrittura di Lydia Davis (“Non mi chiama
nessuno. Non posso controllare la segreteria telefonica perché sono
rimasta a casa per tutto questo tempo. Se esco, potrebbe telefonare
qualcuno mentre sono fuori. Allora quando tornerò potrò controllare
la segreteria telefonica”) che poi sembra ripetersi come eco
naturale di Compagne (“Ce
ne stiamo sedute qui, io e la mia digestione. Io leggo un libro e lei
smaltisce il pranzo che ho mangiato poco fa”). Senza alcun dubbio
Lydia Davis e le sue scoppiettanti proposizioni sono Speciali,
e nella sua ammissione, in qualche modo conclusiva, nel racconto con
lo stesso titolo, c’è ancora una domanda spalancata: “Noi
sappiamo essere molto speciali. Eppure continuiamo a cercare di
capire in che senso: non in questo non in quello, in quale allora?”,
ed è tutto. Prendere o lasciare.
Nessun commento:
Posta un commento